Giuseppe Di Vittorio : cultura e lavoro
Le generazioni moderne sanno poco o nulla di Giuseppe Di Vittorio, certamente una delle personalità più ricche e affascinanti espresse dal movimento sindacale italiano. Vien da chiedersi fino a che punto la sinistra italiana si sia realmente resa conto della crisi di una vecchia cultura politica e dei suoi aspetti più sconcertanti, come la fatale subalternità corporativa delle lotte sociali, il primato del partito, l’impossibilità per il sindacato di esprimersi come soggetto politico. Di Vittorio con la sua concezione dell’autonomia del sindacato, del sindacato come soggetto politico, ha saputo indicare una prospettiva riformatrice in cui proposta e iniziativa di massa erano unite da un nesso inscindibile, capace di vagliare la validità e la coerenza di ogni singola scelta politica in un processo democratico che sfuggisse alle insidie del trasformismo, del leaderismo e del consenso passivo verso i “capi”. Di Vittorio ha il merito storico di avere avviato la rottura delle liturgie del leninismo, anche grazie a un’acuta percezione della complessità del processo sociale, che spingeva il sindacalismo confederale in una dimensione politica
“Io non sono, non ho mai preteso, né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura. Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana… La cultura non soltanto libera queste masse dai pregiudizi che derivano dall’ignoranza, dai limiti che questa pone all’orizzonte degli uomini: la cultura è anche uno strumento per andare avanti e far andare avanti, progredire e innalzare tutta la società nazionale…
Io sono, in un certo senso, un evaso da quel mondo dove ancora imperano in larga misura l’ignoranza, la superstizione, i pregiudizi, gli apriorismi dogmatici che derivano da questa ignoranza. Io lo conosco quel mondo, profondamente. Ci sono vissuto e so quanto siano grandi gli sforzi che occorrono per tentare di uscirne. Ma in quel mondo, dietro quel muro, vi sono ancora milioni di italiani, milioni di fratelli nostri. Tutte le iniziative, tutte le forme di organizzazione, tutti i tentativi debbono essere fatti per accorrere in aiuto di questi nostri fratelli, per aiutarli a liberarsi da questa ignoranza, perché anch’essi possano provare a sentire le gioie e i tormenti dell’accesso al sapere. Dobbiamo andare fra quelle masse di nostri fratelli, chiamarle, stimolarle alla vita nuova, al sapere, al conoscere, a vedere alto e lontano; dobbiamo andare come un trattore potente su un terreno incolto da secoli per fecondarlo e trarlo a coltura, a vita, a bene della società…”
Stralcio dal discorso al II congresso della cultura popolare, Bologna 11 gennaio 1953
LA DONNA E LA CULTURA
Lo abbiamo sentito parecchie volte: “L’inferiorità delle donne è dimostrata dal fatto che mai scoperto nulla, nono sono mai nati dei Leonardo da Vinci e dei Fermi tra le donne.” Anzi, c’è chi lo dice ancora oggi. Ebbene sì è vero, salvo rarissime eccezioni (ad esempio Marie Curie, Rita Levi Montalcini), nel corso dei secoli non ci sono state molte donne-genio che abbiano inventato o scoperto qualcosa di eccezionale. E come potevano se la loro destinazione “naturale” era fare figli e occuparsi della casa? La cultura, quella che precede ogni possibilità di emergere in campo culturale, non era estesa alle donne bensì ai soli uomini e neppure a tutti. Gli schiavi, ad esempio, non avevano il diritto, e, infatti, neppure tra loro è nata una figura culturalmente importante. Se spostiamo la nostra attenzione su un altro campo, quello sportivo ad esempio, vediamo come le nazioni con un maggior numero di medaglie, alle Olimpiadi, sono quelle che hanno una diffusa pratica sportiva e sin dalla più tenera età. Dal momento in cui le scuole vennero aperte anche alle donne e la cultura divenne un fatto accessibile, sia ai maschi che alle femmine, cominciarono ad emergere alcune importanti figure femminili. Ma questo diritto di parità in campo scolastico è alquanto recente e non possiamo pretendere che se ne vedono i frutti in breve tempo. La stessa educazione che i maschi ricevono, li avvia verso una maggiore qualificazione culturale, mentre permangono ancora, verso le femmine, alcuni pregiudizi che le scoraggiano. Se è vero che entrambi, maschi e femmine, hanno raggiunto parità di diritti, poiché nessuna legge italiana pone divieto alle femmine nell’affermazione professionale, in realtà solo pochissime donne raggiungono traguardi professionali di prestigio. E, cosa ben più grave, sono ben poche le donne che detengono posti importanti nella vita politica o economica della nazione. La stessa qualificazione professionale tra le operaie è nettamente inferiore a quella dell’uomo, cosicché tocca ad esse occupare quei posti meno qualificanti e meno retribuiti.
Sono questi i frutti di una secolare posizione d’inferiorità della donna? O vi è da parte delle femmine stesse remora profonda ad impegnarsi culturalmente e professionalmente? Probabilmente entrambe le cose. Si registrano casi di donne che, giunte all’apice del successo, mollano tutto e ritornano a dedicarsi al vecchio ruolo di madre e di moglie ma sempre per libera scelta.
Il tempo, le nuove tecnologie e le invenzioni non sono serviti a migliorare le condizioni e l’immagine della donna, nella maggior parte del globo. Le donne sono infelici, insoddisfatte, confuse, maltrattate, discriminate ed emarginate; vivono nella paura, tra violenze ed abusi all’interno di mura “sicure e silenziose”: nelle loro case, nei luoghi di lavoro da parte di familiari o amici. Molti pensano che oggi la donna debba essere quella della TV, della pubblicità, ma allora la schiavitù delle donne non è finita. Il passato ci “regala” donne rinchiuse in case, mute e sofferenti nella loro solitudine e indifferenza da parte della società maschile e oggi le ritroviamo schiave di un’identità che non appartiene loro: molte di loro, infatti, hanno rafforzato involontariamente il maschilismo. La donna è apertura all’accoglienza, entusiasmo per l’amicizia, tolleranza del dolore, costanza negli impegni, capacità di scelte forti e definitive, eccezionalità di intuito. Peccato che la mentalità corrente non sappia leggere tutta questa ricchezza e si fermi ad elencare piuttosto i difetti e i cedimenti. La donna è molto diversa da come viene presentata dalla pubblicità e dai mass-media. È necessario allora che l’uomo e le donne riscoprano le loro radici, i loro ruoli, le loro capacità per poi collaborare reciprocamente per spezzare le catena della violenza e creare quella del rispetto e della dignità. Forse solo allora la donna potrà dire di essere più felice.
LAVORO
‘’L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro…’’; questa, che è una delle più celebri frasi della nostra costituzione, esprime tutto il peso che il sociale e il lavoro hanno nella suddetta Carta; apporto che le fu conferito da una delle personalità più forti e importanti del novecento italiano: Giuseppe Di Vittorio.
Art.3. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
Art,37. “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e stesa parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni del lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”
Art.51. “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.”
Vogliamo il salario. Vogliamo l’orario di lavoro. Viva il grande sciopero! Viva la giustizia! [Di Vittorio a 12 anni]IL LAVORO È UN’EMERGENZA DEMOCRATICA
L’intervista a Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, è stata pubblicata dal quotidiano, “Il Tirreno”.
Rabbia, esasperazione, assenza di prospettive. Con qualche ministro che di fronte a vertenze come l’Alcoa allarga le braccia e dice: Non c’è più niente da fare. “Il sindacato ha reagito, lottato ma dopo quattro anni di crisi tremenda, in primo luogo occupazionale, servono risultati”, commenta Fulvio Fammoni, sino a pochi mesi fa membro della segreteria nazionale della CGIL e ora preidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
Rigira tra le mani il rapporto sull’occupazione appena sfornato dall’Ires, l’ufficio studi della confederazione, che disegna un’Italia in ginocchio con 4 miliardi e mezzo di cittadini dentro l’area della “sofferenza occupazionale”.
Che cosa significa?
“Che ai due milioni e settecentomila disoccupati censiti dall’Istat bisogna aggiungere un milione e settecentomila cittadini definiti scoraggiati e cassa integrati. Questi dati sono il frutto di scelte antiche e recenti”.
Quali scelte sbagliate?
“E’ evidente che il meccanismo scelto per ridurre il deficit ha presentato il conto al lavoro e ai lavoratori.”
Monti dice che ha salvato l’Italia dal baratro.
“Per far tornare i conti ha però operato una politica di tagli al bilancio che si sono scaricati sull’economia reale. Le scelte del governo hanno avuto un effetto depressivo sull’economia e si sono scaricate sui lavoratori.
I dati sull’occupazione sono inoppugnabili.”
L’Italia va peggio degli altri?
“Peggio rispetto al tasso di disoccupazione europeo. Inoltre un terzo dei nuovi disoccupati nell’Ue sono italiani. Il governo non sembra reagire a quest’emergenza, l’Italia scende sempre più in basso”.
Le riforme fatte non funzionano?
“Far pagare tutto al lavoro e scaricare la crisi sui lavoratori non solo ha effetto depressivo ma si ripercuote sui consumi e la produzione. Che cosa fa quell’area enorme di disoccupati, inoccupati, scoraggiati e cassa integrati? Che cosa può consumare? Noi siamo un Paese manifatturiero che utilizza il 70% del suo prodotto nel mercato interno. Chi compra in queste condizioni di perdita di lavoro?”
Eppure la riforma Fornero intendeva togliere lacci, liberare il lavoro…
“E invece la disoccupazione giovanile non è mai stata così devastante. Fornero e il governo avevano promesso che con la riforma sarebbe cambiato il sistema di vita degli italiani. Non so se gli italiani siano contenti di come stanno vivendo”.
Che cosa fanno invece le imprese?
“Di fronte alla crisi operano comprimendo i costi del lavoro: un lavoro meno pagato, pensano sia meglio. Sono miopi, perché in Italia abbiamo un enorme addensamento di qualifiche medio basse che, quando la crisi sarà attenuata, faranno fatica a ricollocarsi. E con la crisi c’è stata una compressione dei diritti, una maggiore ricattabilità”.
Monti dice che le tasse non può abbassarle sino al pareggio di bilancio.
“Un grave errore. Oggi intervenire sul fisco non solo è una questione di giustizia ma anche un elemento produttivo di cresita. Il pareggio di bilancio con il Pil in calo o stagnante non potrà essere conseguito.”
Il governo promette crescita…
“Parole, piani fumosi e dilatati nel tempo. C’è bisogno di lavoro, subito. E’ un’emergenza democratica”.