INSIDE LLEWYN DAVIS (Usa-Francia 2013) è stato presentato al XXXI Torino Film Festival, nella sezione Festa mobile.
È il 1961, e al Village di New York è il periodo d’oro della folk music. Tra i tanti che cercano di emergere nell’ambiente discografico c’è anche Llewyn Davis, cantante e chitarrista di talento penalizzato, però, dal fatto di essere un pessimo imprenditore di se stesso. Tra concerti al Gaslight Cafe, nottate sui divani delle case degli amici e qualche blando tentativo di trovare un’occupazione più remunerativa, le sue giornate trascorrono nell’indolenza, in attesa di una svolta destinata a non arrivare mai.
Era dai tempi ormai lontani di Fratello, dove sei? (2000) che Joel e Ethan Coen non partorivano un film legato in maniera così profonda al mondo della musica: là eravamo negli anni Trenta nel Sud degli Stati Uniti, qui siamo invece all’interno del movimento artistico da cui prese le mosse, tanto per dirne una, la carriera di un certo Bob Dylan (che non a caso appare brevemente nel finale, interpretato da un attore ma con la sua voce inconfondibile).
“Il film non ha una vera e propria trama. A un certo punto questa cosa ci ha preoccupato, ed è per questo che ci abbiamo messo dentro il gatto”: parola dei fratelli Coen, che, facendo riferimento al delizioso felino che di tanto in tanto movimenta la vita di Llewyn, affrontano senza troppe reticenze un’evidenza incontestabile, ovvero che il loro film è, di fatto, la descrizione di un ambiente e di un periodo storico, più che il racconto di una storia. Descrizione, come spesso accade quando si ha a che fare con questi due geniacci, meravigliosamente manierista, estetizzante, più forma che contenuto, più bellezza che profondità: in Inside Llewyn Davis troviamo la solita galleria coeniana di personaggi bislacchi, esageratamente sopra o sotto le righe, la solita andatura narrativa lenta, dolente, il solito accumularsi di piccole disgrazie che, una dopo l’altra, metodicamente, distruggono ogni certezza del malcapitato di turno – e in questo senso la figura del folksinger non può che ricordare quella di Larry Gopnik, protagonista nel 2009 di A serious man.
Per l’occasione, in ogni caso, i due co-registi e co-sceneggiatori hanno deciso di non calcare troppo la mano, costruendo un personaggio sì sfigato e reietto, ma tutto sommato non eccessivamente disastrato. A rendere speciale il povero Llewyn (nome che ricorda quello di Llewelyn Moss, protagonista di Non è un paese per vecchi) contribuisce non poco l’interpretazione del sempre più bravo Oscar Isaac (Agora, Drive), circondato da un cast di buon livello che comprende l’attore più coeniano del mondo, John Goodman, ma anche Carey Mulligan, F. Murray Abraham e persino il teen idol Justin Timberlake, con la sua solita faccia da schiaffi.
Importanza fondamentale hanno ovviamente le musiche, prodotte da T-Bone Burnett (già artefice del meraviglioso e vendutissimo score di Fratello, dove sei?) ed eseguite live dai vari attori. Nel repertorio un gran numero di vecchie canzoni folk, molte delle quali interpretate nei primi anni Sessanta da Dave van Ronk, principale fonte di ispirazione per la figura del protagonista.
L’abbiamo aspettato tre anni, questo film, che nel frattempo si è pure aggiudicato il Grand Prix all’ultimo Festival di Cannes: tanta attesa è stata ripagata? Sì e no. Sì perché, come si è detto, esteticamente si tratta di una pellicola fantastica, il protagonista è ottimo e le musiche sono memorabili. No perché, a differenza di altre opere coeniane, questo film trasmette la non esaltante impressione di essere tutto lì, di non aver molto da dire a un livello profondo, di essere semplicemente un (ottimo) prodotto del (grande) mestiere dei fratelli Coen. Ma dagli autori di alcuni dei più grandi capolavori cinematografici degli ultimi vent’anni è lecito aspettarsi qualcosa di più.
Alberto Gallo