Mentre dalle parti del Sol Levante il cartone animato - si pensi
agli anime dello studio Ghibli o agli
hentai - è sempre stato normalmente un genere pensato
anche per il mondo adulto, la tradizione
occidentale è sempre andata nella direzione esattamente opposta, ovvero quella di
relegare i cartoon alla visione per
bambini - si veda la filmografia Disney -. Tendenza questa che la Pixar, da
qualche anno a questa parte, ha iniziato a invertire già da un titolo come “Up”,
e che con “Inside out” sembra aver preso una piega definitiva. Modellamento,
quello fatto in quest’ultima produzione, che sembra essere un compromesso -
senza le accezioni negative del termine - ideale nel coniugare le necessità di
fruizione del pubblico adulto e di quello dell’infanzia, inserendo da un lato
un punto di vista che stimola l’occhio critico e dall’altro assolvendo alla
finalità commerciale - vedasi lo straordinario successo al botteghino - .
In quest’ottica “Inside out” affianca al divertimento l’indagine sugli imperi della mente di una bambina, la cui crescita emotiva procede parallelamente con gli avvenimenti narrativi dei personaggi - veri protagonisti della vicenda - che nell’immaginario degli autori muovono la coscienza della ragazzina, mai dimentichi però di essere mossi a loro volta da un contesto esterno che, nello specifico, riguarda un espediente narrativo spesso usato nel mondo adolescenziale, e che già la Pixar aveva usato in “Toy story”, ovvero quello della famiglia costretta al trasloco causando squilibri emotivi alla prole.
Mentre il finale, dopo aver commosso, lascia aperte le porte ad un probabilissimo sequel - “Ormai ha 12 anni, cosa potrà mai accadere?”, alludendo ironicamente ai futuri deliri adolescenziali - bisogna prendere atto che “Inside out”, dal punto di vista della scrittura, è avanti anni luce alla maggior parte dei film in-carne-ed-ossa. Antonio Romagnoli
