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Il Partito Comunista cinese ha fatto sapere che intensificherà l’educazione ideologica dei propri dirigenti, per impedire la deriva verso la morale occidentale, rafforzare la fede nel comunismo e per far fronte alla corruzione – che ormai si è endemicamente diffusa nel paese.
«I cambiamenti socio-economici profondi sia in patria che all’estero, hanno portato più distrazioni per i funzionari che devono affrontare la perdita di fede e il declino morale», ha scritto l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua citando una dichiarazione del potentissimo Dipartimento Organizzazione del partito, che sovrintende sulle decisioni personali.
«I funzionari devono tenere ferma la convinzione nel marxismo, per evitare di perdersi nella richiesta di democrazia occidentale», aggiunge Xinhua citata da Reuters.
Ultimamente d’altronde, il Partito aveva più volte invitato i cinesi a non farsi fuorviare dai concetti di diritti, libertà e democrazia, diffusi dall’Occidente. Rivendicando inoltre, il diritto di rappresentare certi temi nel modo ritenuto consono a soddisfare le esigenze della Cina.
Da quando è stato nominato, uno dei pallini del presidente Xi Jinping è stato la lotta alla corruzione, diventata ormai una piaga sociale: una campagna contro “tigri e mosche”, così definì Xi coloro che intascavano soldi pubblici o conducevano uno stile di vita esagerato.
Nel marzo 2012, proprio alla vigilia del cruciale cambio che lo avrebbe portato alla presidenza, il figlio di Ling Jihua (ex capo dell’Ufficio generale del Comitato centrale del Partito, uno dei massimi quadri e fedelissimo consigliere dell’allora presidente Hu Jintao) fu trovato morto, seminudo, sul sedile di guida della sua Ferrari, con cui si era schiantato contro un muro sul quarto anello nord di Pechino – zona Wudaokou. Erano i giorni successivi all’epurazione di Bo Xilai.
L’incidente fu solo un ulteriore tassello tra quelli che hanno portato alla luce come i figli dei papaveri conducessero – e probabilmente conducono – una vita piena di lussi e privilegi. Ma a tenere impegnati gli uomini della Commissione centrale per l’Ispezione disciplinare del Partito (una sorta di agenzia anti corruzione), non sono solo i rampolli: i notabili stessi sono finiti continuamente in mezzo a losche storie di soldi e vizi. L’ultimo in ordine di tempo, Wang Qingliang, leader politico della ricchissima metropoli meridionale di Guangzhou, considerato un astro nascente della politica nazionale, sul quale però da circa un mese pende un fascicolo per “seria violazione della disciplina”, che tradotto lontano dalla censura e dai filtraggi del comunismo cinese, significa corruzione.
La decisione rivelata in questi giorni, di procedere con una rieducazione comunista, “rafforzando l’identità ideologica, politica ed emotiva, del socialismo”, dovrebbe permettere ai funzionari di essere nobili e virtuosi, e in grado di “salvaguardare l’indipendenza spirituale della nazione” tenendola lontana dalle bassezze occidentali come la corruzione. Almeno secondo Xi.
Tuttavia le stesse campagne di controllo avviate dall’attuale leader, hanno avuto diverse critiche: per esempio, l’analista politico dissidente Bao Tong, ne contestò aspramente la vera natura, ritenendole soltanto una mezzo per portare avanti un regolamento di conti all’interno del partito.
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