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Se prendiamo in considerazione le questioni esterne, parliamo di passato, presente e futuro. Eppure, se cerchiamo di osservare da vicino il “presente”, scopriamo che non esiste. Un secondo prima del presente è già passato e un secondo dopo è già nel futuro. Il presente non c’è. E se non esiste il presente, allora non è possibile parlare di passato e futuro, poiché entrambi dipendono dal presente. Perciò se consideriamo le questioni esterne, sembra che il passato sia solo nella nostra memoria e il futuro nella nostra immaginazione. Ma se esaminiamo le nostre esperienze interiori o stati di coscienza, il passato non c’è più e il futuro deve ancora accadere: esiste soltanto il presente. Questa è la natura dell’interdipendenza, pratityasamutpada in sanscrito. Esistono due livelli di interdipendenza: uno convenzionale e uno più profondo. Cominciamo dal primo. Quando parliamo del principio buddhista di interdipendenza, spesso definito “originazione interdipendente”, non dobbiamo dimenticare che esistono diversi livelli di comprensione di tale principio. Il livello più superficiale è quello della natura interdipendente o rapporto di causa ed effetto. Il livello di comprensione più profondo è molto più permeante e, infatti, abbraccia l’intero spettro della realtà. Il principio dell’originazione interdipendente in relazione a causa ed effetto afferma che niente può accadere senza le corrispondenti cause e condizioni. Ogni cosa ha origine dalla concomitanza di cause e condizioni. Se consideriamo la legge naturale, ci rendiamo conto che non ha origine dal karma o dal Buddha, ma semplicemente dalla natura. Se diamo per scontato che lo stato di Buddha (buddhità) si è sviluppato secondo la legge naturale, le nostre esperienze di dolore e sofferenza, gioia e piacere dipendono al cento per cento dalle loro cause e condizioni. A causa di questo rapporto naturale fra causa ed effetto, il buddhismo afferma che meno desideriamo vivere una determinata esperienza e maggiore deve essere lo sforzo per evitare il verificarsi contemporaneo delle relative cause e condizioni, così che tale esperienza non trovi il terreno adatto per realizzarsi. Al contrario, più desideriamo vivere una particolare esperienza e più dobbiamo cercare che tali cause e condizioni si avverino. Personalmente sono convinto che il rapporto fra causa ed effetto sia anche una sorta di legge naturale. Non penso si possa giungere a dare una spiegazione razionale sul perché gli effetti seguano necessariamente cause e condizioni concordi. Per esempio, si dice che stati emotivi afflittivi, quali l’ira e l’odio, determinino sgradite conseguenze e, secondo le scritture buddhiste, una di tali conseguenze è la bruttezza. Non esiste però una spiegazione razionale sul perché la bruttezza sia una conseguenza di quel particolare stato d’animo. Eppure capirlo non è difficile: quando siamo in collera o consumati dall’odio, l’espressione del nostro viso si modifica facendoci diventare “brutti”. Allo stesso modo esistono stati emotivi che determinano immediati cambiamenti “in positivo” nell’espressione del nostro viso e portano con loro tranquillità e serenità. È quindi possibile vedere una sorta di collegamento, sebbene non sia possibile fornire una spiegazione totalmente razionale. Esistono tuttavia alcuni stati emotivi, quali una profonda compassione, che, seppur positivi, non portano una gioia immediata. Per esempio, una persona totalmente pervasa da questo sentimento condivide la sofferenza dell’oggetto della sua compassione; perciò, rifacendosi a quanto affermato in precedenza, tale compassione non può essere definita una causa positiva. A questo riguardo voglio però sottolineare che se è vero che come risultato della compassione subentra un certo dolore, in quanto si è completamente assorbiti nella condivisione della sofferenza dell’oggetto della compassione, si tratta di un dolore completamente diverso da quello provato da un individuo depresso, disperato, privo ormai di ogni speranza. Nel caso di sofferenza compassionevole, sebbene si sperimenti una sorta di dolore, non si perde mai il controllo poiché, in un certo senso, ci si sta volontariamente sobbarcando la sofferenza di un altro essere umano. Sebbene a livello superficiale tali stati emotivi sembrino dare origine a uno stesso risultato, in realtà sono profondamente diversi. In un caso l’individuo è così sopraffatto dalla potenza della sofferenza da perdere ogni controllo, mentre nel caso della compassione l’individuo mantiene il pieno controllo della propria mente. Chi riesce a comprendere l’importanza del rapporto interdipendente di causa ed effetto potrà capire e apprezzare gli insegnamenti relativi alle Quattro Sante Verità, basati proprio sul principio di causalità. Una volta compreso il principio causale sottinteso in tali insegnamenti, si è pronti per conoscere la dottrina del Buddha sui Dodici Anelli dell’Originazione Dipendente, secondo la quale una causa è sempre seguita dal suo effetto; alla creazione di una causa segue il relativo effetto e a seguito della presenza dell’ignoranza si è verificata l’azione o karma. Tre sono le affermazioni: 1 - poiché esiste la causa, l’effetto segue immediatamente; 2 - poiché è stata creata la causa, si è prodotto l’effetto; 3 - poiché c’era ignoranza, quest’ultima ha portato all’azione. La prima affermazione indica che, da un punto di vista positivo, quando le cause sono concomitanti, gli effetti seguono naturalmente e che la compresenza delle cause e delle condizioni ha dato origine agli effetti. Inoltre, a esclusione del processo causale, non esiste un potere o una forza esterna, per esempio un Creatore, responsabile della trasformazione in essere di ogni cosa. La seconda affermazione – poiché è stata creata la causa, si è prodotto l’effetto – sottolinea nuovamente un’altra importante caratteristica dell’originazione dipendente, e cioè che la causa che determina l’effetto deve avere a sua volta una causa. Se la causa fosse un’entità assoluta eternamente esistente, tale entità non potrebbe essere l’effetto di un altro elemento e non avrebbe il potenziale per produrre alcun effetto. Deve quindi esistere innanzitutto una causa, la quale deve avere a sua volta una causa. Anche la terza affermazione – poiché c’era ignoranza, quest’ultima ha portato all’azione – evidenzia un’ulteriore e fondamentale caratteristica del principio di originazione dipendente, e cioè che l’effetto deve essere proporzionato alla causa; tra causa ed effetto deve esistere una speciale correlazione. L’insegnamento di Buddha contiene un esempio di ignoranza che conduce all’azione. Il presupposto è: “Chi ha commesso quell’azione?” Un essere umano che, agendo in un determinato modo a causa della sua ignoranza, sta provocando la propria caduta. Poiché non esiste un uomo che desideri l’infelicità o la sofferenza, l’ignoranza è la causa del suo lasciarsi coinvolgere in azioni che producono conseguenze sgradite. I Dodici Anelli dell’Originazione Dipendente possono essere quindi ordinati in tre classi di fenomeni: 1 - i pensieri e le emozioni negative; 2 - l’azione karmica e i suoi segni; 3 - il suo effetto: la sofferenza. Nessuno desidera la sofferenza, che è però una conseguenza o un effetto dell’ignoranza. Per Buddha la sofferenza non è un effetto della coscienza, poiché se così fosse, il processo liberatorio, o di purificazione, necessiterebbe la fine del continuum della coscienza. La morale che si può trarre da tale insegnamento è che la sofferenza, che ha le sue radici in emozioni e pensieri negativi, può essere eliminata. Lo stato di ignoranza mentale può essere distrutto sviluppando un intuito che comprenda la natura della realtà. Il principio di originazione dipendente mostra quindi come i Dodici Anelli nella catena dell’Originazione dipendente, che determinano l’entrata di un individuo nel ciclo dell’esistenza, siano interconnessi. Se applicassimo tale interconnessione alla nostra percezione della realtà nel suo insieme, potremmo sviluppare un intuito strepitoso; saremmo in grado di apprezzare la natura interdipendente dei nostri interessi e di quelli altrui: per esempio, come il benessere degli esseri umani dipenda dal benessere degli animali che vivono sullo stesso pianeta. Inoltre, se sviluppassimo una simile comprensione della natura della realtà, saremmo in grado di apprezzare l’interconnessione esistente fra il benessere degli esseri umani e quello dell’ambiente e, ancora, potremmo esaminare il presente, il futuro e via dicendo. A quel punto saremmo in grado di sviluppare una concezione olistica, e non priva di significative implicazioni, della realtà. Riassumendo, possiamo affermare che la felicità dell’individuo è legata a svariati fattori e che per afferrarla è necessario tenere presente ogni elemento collegato alla propria vita. Fino a questo momento ho parlato del principio dell’originazione dipendente dalla prospettiva del primo livello di comprensione, in quanto le scritture buddhiste ne enfatizzano l’importanza. Anche in uno dei testi del Mahayana, il Compendio delle azioni, nel quale Shantideva si ispira spesso ai sutras di Buddha, viene sottolineata la necessità di comprendere l’interconnessione che lega ogni avvenimento e fenomeno: come, a causa del processo causale e condizionale, si sviluppa ogni fenomeno e avvenimento; quanto sia importante rispettare tale realtà convenzionale, poiché è proprio a quel livello che possiamo capire come determinate esperienze conducano a determinate sgradite conseguenze e come particolari cause, la concomitanza di certe cause e condizioni possano condurre a conseguenze positive e auspicabili; e, infine, come determinati avvenimenti possano influenzare direttamente il nostro benessere. A causa di questo genere di rapporto è fondamentale per ogni buddhista comprendere innanzitutto il punto di vista del primo livello, oltre il quale sarà necessario interrogarsi sulla natura ultima delle cose fra loro interconnesse. Da ciò si giunge all’insegnamento del Buddha sul Vuoto. Riferendosi ai Dodici Anelli dell’Originazione Dipendente, il Buddha afferma che, sebbene gli esseri umani non desiderino la sofferenza e l’insoddisfazione, per colpa dell’ignoranza accumulano azioni karmiche che generano conseguenze sgradite. È quindi fondamentale scoprire qual è la natura di tale ignoranza e qual è il meccanismo che spinge una persona ad agire contro ciò che desidera. Buddha chiama in causa le emozioni e i pensieri afflittivi, quali l’ira, l’odio e l’attaccamento, che offuscano la facoltà di comprensione della realtà da parte dell’individuo. Se esaminassimo lo stato mentale di un individuo nel momento in cui è in preda a intense emozioni negative, copriremmo che c’è un momento in cui l’uomo ha una nozione errata di se stesso: il “sé” viene infatti percepito come entità indipendente. In realtà non è completamente indipendente dal corpo o dalla mente, ma non deve neppure essere identificato con il corpo o la mente; esiste tuttavia qualcosa che viene in qualche modo identificato come il nucleo dell’essere, del “sé”, al quale si tende ad aggrapparsi. Per questo, noi tutti sperimentiamo forti emozioni, attaccamento nei confronti delle persone amate e collera o odio nei riguardi di un altro essere che riteniamo pericoloso. Allo stesso modo, se esaminassimo la nostra effettiva percezione dell’oggetto di desiderio o di rabbia, noteremmo che tendiamo a dare per scontata l’esistenza di un’entità indipendente, qualcosa che vale la pena desiderare o odiare. Al di là della sottile prospettiva della dottrina del Vuoto, anche nella vita di tutti i giorni scopriamo spesso una disparità fra come noi percepiamo le cose e come queste ultime sono in realtà. Se così non fosse, la sensazione di essere ingannati non avrebbe senso. Spesso ci sentiamo delusi a causa della nostra percezione errata della realtà. Una volta dissipata l’illusione, ci rendiamo conto di essere stati ingannati. Così, nella vita di tutti i giorni, ci troviamo spesso a constatare come l’apparenza delle cose non corrisponda alla realtà della situazione. Anche dalla prospettiva della natura transitoria dei fenomeni si evidenzia spesso una disparità fra il modo in cui percepiamo le cose e come queste ultime sono in realtà. Quando incontriamo nuovamente un amico dopo qualche giorno, o rivediamo un oggetto, siamo convinti di trovarci davanti alla stessa entità. In realtà ciò che noi percepiamo ha già subito delle trasformazioni. L’oggetto, o l’entità, che abbiamo davanti è dinamico, transitorio, momentaneo, non può perciò essere uguale a quello che abbiamo percepito uno o due giorni prima. Ma poiché noi tendiamo a fondere il concetto di tale oggetto e l’oggetto effettivo, abbiamo l’impressione di percepire un’entità immutata. Si evidenzia quindi nuovamente una disparità fra il modo in cui le cose ci appaiono e ciò che in realtà sono. Allo stesso modo, se assumessimo la prospettiva della fisica moderna, scopriremmo che esiste una disparità fra il punto di vista comune della realtà e il modo in cui gli scienziati spiegano la natura di tale realtà. Da quanto affermato risulta chiaro che, nella nostra identificazione di un essere umano come “sé”, persona o individuo, c’è un errore. L’importante è capire dove sbagliamo. Fonte: www.pomodorozen.com
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