Perché la scuola e perché la scuola digitale? Il mio interesse nasce dal fatto che alcune mattine mi capita di incontrare i ragazzi delle scuole sparse per la provincia di Modena, dove abito. Sono soprattutto alle medie, ma l’età si sta abbassando sempre più: lo smartphone ormai è in mano a ragazzi di seconda – terza elementare.
Le scuole hanno acquisito una certa sensibilità nei confronti dei pericoli che il digitale può nascondere, pericoli che sono spesso collegati all’uso improprio e inconsapevole che i ragazzi ne fanno.
Pigri e passivi sono pochi i ragazzi che mettono le mani sulla tastiera per dare comandi precisi al computer. I più usufruiscono di programmi già confezionati, di contenuti più o meno educativi, interessanti, ricchi.
Complice anche la scuola, spesso i ragazzi si trovano davanti a una LIM con scarse possibilità di interagire, non hanno computer a sufficienza o hanno connessioni estremamente lente. Per fortuna le cose stanno cambiando: alcune scuole hanno introdotto laboratori per docenti e alunni in cui il computer assume un ruolo più attivo. Altre volte è la stessa scuola che si attrezza con tecnologie più avanzate, per incontrare le esigenze di una didattica più digitale e al passo con i tempi. Ho parlato di alcuni progetti in questo articolo di Wired.
In questo discorso però esiste un’altra faccia della medaglia. Ignari delle conseguenze spesso i ragazzi usano i programmi con leggerezza e commettono errori per scherzo, errori che però poi hanno conseguenze. Le app usate dai ragazzi spesso nascondono insidie per la loro privacy. L’ha ben evidenziato il Garante della Privacy, facendo un’analisi delle app più utilizzate. Ho parlato del rapporto tra adolescenti e privacy in quest’articolo del blog Datastories de L’Espresso.
E gli italiani invece? Gli adulti si sentono protetti? La loro privacy è assicurata? Non proprio: solo un 15% si sente perfettamente protetto dalle impostazioni del web. La maggioranza ha timori e non esita a fare denunce per difendere la propria identità anche online. Per saperne di più, leggi l’articolo apparso su Datajournalism.it.