E adesso esci pure di scena, lasciami sola sul palco, spegni le luci e chiudi la porta, ma attento a non sbatterla.
Lasciami nel cono di buio, spento solo per me, l’ho faticato questo posto, l’ho voluto, e non perché alla luce non ce ne fosse.
In questo canovaccio da commedia dell’arte l’hai scelto tu il ruolo di figurante, forse perché era quello che ti permetteva di stare più tempo nel cono d’ombra, chissà.
Ma dimmi cos’hai imparato dai troppi capelli e dagli occhi tristi, se non a tacere i dolori, a escludere sempre, a farti isola; come l’avessi appreso per osmosi, stando dietro alla mia schiena.
E non ho lacrime da piangere oltre a quelle dell’ultimo trilocale con cucina a vista e un solo sgabello, non ho più viaggi in treno disperati per pregarti uno sguardo.
Vai pure e smettila di chiedere scusa, perché poi sarebbe il mio turno di farlo ma il male – gratuito e tardivo – delle mie deviazioni è solo mio e lo tengo stretto e mi fa compagnia, nelle notti di fredda pianura.
Nell’afa estiva, invece, ne farò un ventaglio di carte, sventolandomi con le ripicche preventive.
Cammina, renditi puro di nuovo, qualcuno saprà usare i polpastrelli sapiente, per cancellare le mie parole di cera e scriverti ancora. Meglio, forse.
Riprenditi, quando esci, le tue armi di promessa e dolcezze che non sono mai stata in grado di volere, figuriamoci di farmi bastare; lasciami seduta a urlarmi dentro per vedere se riesco quantomeno a cambiare espressione.
E’ da un po’ che sto immobile a fottermene di quel che farò, di quel che mi fanno, che mi hai fatto tu. Non di quello che io ho fatto a te, però il limbo di questo buio mi farà fingere le rare lacrime acqua del Lete, e potrò coprire ancora i miei nei.
E voi, voi venite pure a sfiorarmi, a violarmi, o solo a ridere di me.
Ma – fatemi il favore – non lasciate nulla e non prendete nulla. Non intendo alzarmi dal cono d’ombra per venire a richiedervi quel che non riconoscerei.
Magazine Talenti
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