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Interstellar – Accelerazioni umaniste del cinema quantico di Alessandro Gabriele

Creato il 19 novembre 2014 da Wsf

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“Noi (l’insidiosa divinità che opera in noi) abbiamo sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, onnipresente nello spazio e fisso nel tempo; ma abbiamo consentito nella sua architettura tenui ed eterni interstizî di assurdo per sapere che è falso.”
– Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni.

Guardo gli ultimi fotogrammi di Interstellar investito da vettori di fuga contrastanti, il pensiero che la breve scena finale somigli a un classico plug-and-play per ulteriori puntate mi disturba e mi porta via dal cuore della storia, una costruzione narrativa coraggiosa e argomenti fondanti che hanno una loro ragione pura, così come alcuni difetti o mancanze strutturali di cui bisognerà parlare, tra poco.
Se non erro è stato Matrix il primo film sfacciatamente incompiuto che ho visto al cinema, il primo col finale così aperto che, per esercitare il diritto sacrosanto dello spettatore ad avere un orgasmo liberatorio conclusivo, richiedeva l’investimento secco in altri due biglietti di sala. Interstellar è un po’ meno sfacciato da questo punto di vista, però il gancio si sente e fa una certa differenza.
La forma seriale, del resto, è forse l’arredamento più indicativo del corridoio socio-mediale che stiamo imboccando. Mentre i Media si fondono nel brodo unico della Rete, Cinema e Serie-Tv si scambiano le parti a molti livelli, i contenuti e le forme si contaminano, assistiamo a un proliferare di grandi produzioni narrative pluri-episodiche che curano maggiormente la verticalità dei caratteri e dello script e impegnano attori e registi di primo livello, si pensi solo a tre esempi di successo recente come: Breaking Bad, House of Cards, True Detective.
Di fatto, considerazioni sulla qualità a parte, tenere legato lo spettatore a lungo è più remunerativo per lo show business. Viviamo uno spirito dei tempi in cui “mediale” è anche fondamentalmente “sociale”, la forma dell’affiliazione che scegliamo sull’onda estetica, emotiva e comunicativa ci modifica al ritmo veloce della nuova era in una maniera poco figurabile ancora, non si è sicuri di nulla se non che qualcosa di nuovo e gigantesco ha preso in mano le sorti del mondo e brucia confini e individualità e forse margini di autonomia, sogni, sicuramente risorse.
Globalizzazione e omologazione, oscure economie sovranazionali che spostano le sorti del mondo, la realtà di una nazione unica che sta passando dal virtuale al sostanziale, che riproduce serialmente il canone umano ammissibile, così come il desiderio e la scarsità, fino all’angolo più sperduto del pianeta.
Si sente il bisogno di salvarsi da un nuovo genere di caos. La forma seriale è lo schema dell’allevamento dei polli in batteria, in effetti, ma la finiamo qui con le suggestioni maligne. C’è una luce in fondo al tunnel culturale asfittico dell’uomo moderno e dei suoi paradigmi di riferimento, e il nuovo cinema quantico pare cominciare a indicarla.
Chiamo arbitrariamente e non esaustivamente “Cinema Quantico” una serie di cinque film di “fantascienza” che mi stanno particolarmente a cuore, dove il topos di genere non funziona da mero riempitivo di intrattenimento ma piuttosto come moltiplicatore di interrogativi esistenziali, cinque opere dotate di trame e linguaggi espressivi che investigano la natura dell’Uomo e delle leggi ultime del cosmo che lo ospita.
Sto parlando in primis del capolavoro, capostipite della specie quantica, il vecchio immortale 2001 Kubrickiano; in ordine temporale, di seguito citiamo la saga Matrixiana dei fratelli Wachowski (1999), il semisconosciuto Mr. Nobody di Jaco Van Dormael (2009), mai uscito in Italia, e il più recente The Congress di Ari Folman (2013), per finire all’attuale Intestellar di Cristopher Nolan.
Spiegare la fisica dei quanti è impresa improba per i fisici stessi, basti considerare che parliamo di un ambito che si fa beffe dell’occhiale scientifico su cui abbiamo fondato l’ultimo secolo, un panorama d’indagine in cui teorie, spiegazioni e verifiche sorgono e tramontano e si moltiplicano ancora nel raggio di un niente, come un manipolo di simbologie oniriche al vaglio di uno psichiatra ottocentesco.
L’universo o il “multiverso”, come gli scienziati cominciano a chiamare l’oggetto inafferrabile delle proprie ossessioni, è un’infinita trama divergente che ci sovrasta e ci interseca direttamente. Il mondo delle particelle subatomiche è complesso, ridondante, allusivo e magico come il grande complesso inconscio che abita la psiche dell’uomo. Ed è per questo che i fisici moderni citano spesso Carl Gustav Jung, talvolta più degli psichiatri stessi, uno che studiando l’anima dell’uomo è arrivato in fondo al laboratorio cosmico che ci ospita, dove il mondo psichico e quello della natura fisica si fondono in qualcosa di unico che legifera nel mistero.

“Due elementi distinti sono presenti nell’esperienza dell’I King, uno è la situazione in un dato momento di tempo nella vita di un singolo essere umano. L’altro è l’atto di lanciare le monete e mettere ciò in rapporto a un antico testo, usando un procedimento preciso. Le linee di causalità in ciascuno di questi elementi sono assai distinte. Evidentemente non sono causalmente connesse, e tuttavia hanno un reciproco rapporto significativo. In misura tale che nel momento del loro incontro si determina qualcosa di valore straordinariamente significativo.”
– Ira Progoff (per spiegare il concetto Junghiano di Sincronicità)

Uno dei pregi narrativi di Interstellar, per tornare al cinema scusandosi della digressione, è quello di affrontare direttamente il nodo della natura ultima delle cose da un punto di vista laico, responsabile, umanista, senza scadere nella classica gomitata laterale al divino religioso o alla retorica aliena. E di farlo partendo da alcune fondate ipotesi della teoria della relatività e della fisica moderna post-scientifica.
L’intervento decisivo di un’entità-demiurgo che non appartiene direttamente all’Uomo è lo snodo alchemico del cinema quantico: in 2001 è il leggendario monolite che si presume alieno a seminare l’intelligenza della specie, in The Congress è una sostanza psicotropa a garantire il salto quantico mentre per Mr. Nobody è la morte stessa a consentire il dipanarsi di un lungo filo di coscienza che si interroga sulle proprie ontologie esistenziali.
La porta spazio-temporale di Interstellar che introduce il tema quantico è opera di generici “Loro”, così vengono nominati gli artefici all’inizio della storia, qualcosa di alieno indefinibile che nello sviluppo dell’intreccio si rivela essere l’Uomo stesso, calato nell’esperienza futura di un universo pentadimensionale dove il tempo corre in ogni direzione, ovvero somiglia a un’eternità globale, in cui ogni viaggio e ogni impresa risultano possibili.
Coraggioso è anche il tentativo di tratteggiare lo sfondo narrativo dell’umanità di un futuro prossimo come un domani, l’immagine di un tramonto della specie e della propria società residuale quando lo sconvolgimento del clima e dei ritmi naturali della Terra renderà necessario pensare a come evacuare gli individui, o semplicemente propagare il genoma della specie su qualche pianeta distante.
Mi aspettavo molto da Interstellar, non certo la genialità poetica e visionaria di un 2001 o quella animistico-mediale di The Congress, ma comunque qualcosa di drastico e potente, una sorta di “incisione definitiva” nel corpo dello spettatore, una ferita fascinosa da trascinarsi dietro per qualche giorno almeno, una suggestione che appartiene anche all’esperienza della visione di Mr. Nobody e, in misura minore, alla Matrix dei fratelli Wachowski.
Ho trovato questa potenza nella fotografia, nella visionarietà incalzante dell’ultima mezz’ora di narrazione in cui si realizza una chiave visiva Escheriana per rappresentare l’esperienza pentadimensionale del protagonista, ma Interstellar non ce l’ha fatta a incidermi col bisturi e mi pare sia colpa di una certa superficialità nello script, di un viraggio di contenuti ad uso e consumo di un mainstream del dramma familiare classico che, ahimè occorre ricordarlo, è molto remunerativo al vaglio del botteghino.
Sullo script si rimane un po’ stupiti, considerando che gli Studios annoverano tra le loro fila i migliori sceneggiatori del mondo. La gestione dei conflitti narrativi è superficiale e poco credibile, si appoggia su classici stereotipi narrativi e non coinvolge più di tanto, anche perchè i personaggi che li operano sono scavati piuttosto approssimativamente. Lo stesso Matthew McConaughey, la sua grinta scura corrosiva, appare fuori posto o mal utilizzata nella maggior parte delle scene del film.
Wesley Morris ha scritto che il problema di Nolan è che: “crede che l’intelligenza sia la stessa cosa dell’audacia.” Morris può avere una quota di ragione, aggiungerei che altro problema è l’incorruttibile accentratore che si rivela: produzione, scrittura e regia firmate in proprio. Avesse dato il testo in mano a uno dei loro trentenni sceneggiatori-monstre, ne avremmo viste delle belle davvero.
Così, Interstellar non è affatto quel capolavoro che sognavo uscendo di casa solo per raggiungere a piedi la vecchia sala di quartiere rimodernata, sotto la pioggia, un pomeriggio di umori tardi, in una periferia multietnica.
Ho comprato un lungo laccio di liquirizia che non finiva più, uno di quei sapori che sfumano dal tra il piacere regressivo iniziale e la secchezza abnorme che lasciano nelle fauci; a metà del secondo tempo il sacchetto col resto del laccio è caduto a terra e l’ho lasciato andare, sono stato due volte sul punto di addormentarmi poi un tema musicale bello e incalzante e una mezz’ora finale avvincente m’hanno riportato in vita, ancora aspettavo uno scarto di genio nella struttura espressiva del film.
Le filastrocca di Hal9000, le sinestesie Strauss-orbitali del 2001.
La cartoonizzazione dei rutilanti personaggi di The Congress.
I balzi meta-espressivi tra reale, surreale e iperreale di Mr. Nobody.

“Ma quello che mi interessa di più nel cinema non è dare un’immagine di realtà, ma dare un’immagine più di percezione generale che permetta a tutti gli stili di raccogliersi e di saltare da una storia all’altra, da uno spazio e da un tempo all’altro, proprio come succede a livello di pensiero.”
– Jaco Van Dormael-

Sono dovuto andar via con il secco della liquirizia che mi impastava ancora le mucose, invece, facendo quadrato sulla forma buona che Interstellar mi ha indotto, quell’allusione portante che dietro il velo della natura invalicabile su cui si schianta l’equazione scientifica ci sia ancora e soltanto l’Uomo, la sua capacità ancora tutta da sviluppare di accedere ai misteri superiori della mente, quelle che hanno un registro quantico operativo e che funzionano già, fuori dalla nostra volontà, nell’infinito limbo dell’inconscio, dove da qualche parte fisica e psicologia sono identica materia.
Così, Dio non è morto invano se si riuscisse a sviluppare una cultura del mistero di razza. Quello che era stato intuito già due millenni prima di Cristo dai Rishi del popolo ariano che si ritirarono a meditare sull’Himalaya producendo gli inni Vedici, sta in fondo al corridoio post-scientifico che la fisica quantistica ha imboccato: non c’è distinzione tra le leggi che governano gli universi, quello esterno e quello interiore, spirituale.
L’Uomo in definitiva è solo l’infanzia travagliata di Dio, la vasta nostalgia dell’unità di tutto che era un tempo.
Lo sviluppo di una coscienza di razza oltre quella di una massa di individui è il primo passo necessario, come anche Interstellar tenta faticosamente di evidenziare. I fisici quantistici sono al lavoro con le cervella, cosa può fare quel povero uomo comune occidentale schiacciato dal mastodonte critico moderno, così sbattuto senza poteri ma con molti oneri e colpe in un seminterrato buio del catasto esistenziale terrestre, piuttosto.
Scegliere la nuova strada calandosi pienamente nell’ambiguità della propria condizione sofferente. E’ questo il tema meravigliosamente sviluppato dal The Congress di Folman, che ha il coraggio e la visionarietà utile a rappresentare il grande labirinto socio-mediale in cui siamo reclusi.
Folman indica un percorso che si cala nelle trappole della regola narcisistica moderna, il paradiso artificiale indotto in cui usiamo nasconderci. Eppure la vicenda della splendida protagonista interpretata da Robin Wright trova comunque la propria risoluzione umanista, l’immenso potere creativo della mente può dannare per sempre o assolvere con formula piena, dipende dalla bussola che ci accompagna, sembra suggerire The Congress.

“Estasi è uno stato fisico. È quando salti fuori dal tuo corpo, dalla tua esistenza, dal tuo limite fisico e voli. Ma non siamo nati per volare. Uccelli e frisbee sono fatti per volare. Possiamo volare fuori da noi stessi attraverso il cinema qualche volta. O con la musica, con la poesia. Abbiamo la possibilità di passare a una forma di verità più profonda. Naturalmente questo non ha nulla a che vedere con il cosiddetto cinéma vérité e con la verità dei contabili. È attraverso l’invenzione, che si può giungere a certi momenti di illuminazione. Più che fornire informazione è importante provocare estasi e illuminazione. I fatti non costituiscono la verità: questa è sempre stata una mistificazione. Non esiste nessuna verità dei fatti.”
Werner Herzog

Mettersi a lavorare seriamente sulla dimensione interiore dell’universo, questo dovrebbe fare l’impiegato del catasto terrestre. Correre al gabinetto e riconoscersi davanti a uno specchio per quello che è, un nulla egoico aggressivo e impaurito, prima che sia troppo tardi. Poi tornare a casa e con la testardaggine di un monaco cominciare a meditare le arti dell’immaginazione attiva.

“Dopo aver conquistato lo spazio, decisi di cambiare la percezione del tempo. Per cui eliminai l’idea della morte. Sono stato qualcosa prima di nascere e sarò qualcosa dopo che il mio corpo sarà dissolto. Continuavo ad avanzare verso il futuro, facendo aumentare vertiginosamente la mia età…Fra un milione di anni non avrei più avuto una forma umana. Fra dieci milioni di anni sarei stato un angelo immenso, in viaggio con altri angeli, un esercito euforico che attraversa le galassie in una danza cosmica…E ancora più profondamente nell’eternità, sarei diventato un punto-coscienza, radice assoluta dell’esistente dove tutto è in potenza, dove la materia è soltanto amore…Alla fine la mia mente si fermò. Iniziai a retrocedere, fino a tornare di nuovo da me. Allora mi diressi verso il mio passato, ritornai bambino, feto, immaginai una moltitudine di vite sempre più primarie, bestie ignote, insetti, molluschi, amebe, minerali, un sole, un punto in continua esplosione, e attraverso quest’ultimo mi tuffai nell’impensabile, infinito, eterno mistero che noi, incapaci di dargli una definizione, chiamiamo Dio.”
Alejandro Jodorowski, La Danza della Realtà.

Si può facilmente partire dal Libro Rosso di Jung e da alcuni testi di Alejandro Jodorowski che hanno molto ben approfondito il metodo e l’esperienza, senza dimenticare che il percorso è molto lungo e al primo livello di difficoltà della traccia si incontrano subito, come drammaticamente testimoniano gli autori, i subdoli mostri personali, l’auto-derisione, l’egotismo, il carcere del dolore, l’ombra della morte.

“Ma non è questo il punto. Il punto è che la scelta entra in gioco proprio nelle boiate frustranti e di poco conto come questa. Perché il traffico congestionato, i reparti affollati e le lunghe file alla cassa mi danno il tempo per pensare, e se non decido consapevolmente come pensare e a cosa prestare attenzione, sarò incazzato e giù di corda ogni volta che mi tocca fare la spesa, perché la mia modalità predefinita naturale dà per scontato che situazioni come questa contemplino davvero esclusivamente me. La mia fame, la mia stanchezza, il mio desiderio di tornare a casa, e avrò la netta impressione che tutti gli altri mi intralcino. E chi sono tutti questi che mi intralciano? Guardali là, fanno quasi tutti schifo mentre se ne stanno in fila alla cassa come tanti stupidi pecoroni con l’occhio smorto e niente di umano …Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose. Misticherie non necessariamente vere. L’unica cosa Vera con la V maiuscola è che riuscirete a decidere come cercare di vederla. Questa, a mio avviso, è la libertà che viene dalla vera cultura, dall’aver imparato a non essere disadattati; riuscire a decidere consapevolmente che cosa importa e che cosa no. Riuscirete a decidere che cosa venerare.”
- D. F. Wallace, Discorso ai laureandi dell’A.A. 2005

Mediografia minima quantica per decidere cosa venerare:

2001 Odissea nello spazio (Stanley Kubrick)
Matrix (fratelli Wachowski)
Mr. Nobody (Jaco Van Dormael)
The Congress (Ari Folman)
Interstellar (Cristopher Nolan)
Bhagavad Gita
I King
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
C. G. Jung, Il Libro rosso
C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni
I. Progroff, Le Dimensioni non-causali dell’esperienza umana
Sigmund Freud, L’Interpretazione dei sogni
Roberto Calasso, KA
C. B. Divakaruni, Il Palazzo delle illusioni
Fritjoff Capra, Il Tao della fisica
B. Lipton, La Biologia delle credenze
P. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto
Pierre Levy, Il Virtuale
Alejandro Jodorowski, La Danza della realtà
Alejandro Jodorowski, Psicomagia
R. Bandler J. Grinder, La Struttura della magia
Robert Dilts, I Livelli di pensiero
Milton Erickson, La mia voce ti accompagnerà
James Hillman, Il Mito dell’analisi
B. Hellinger, Riconoscere ciò che è – La Forza rivelatrice delle costellazioni familiari
Fatevi un film, partite almeno un anno, da soli, e girate il mondo

In subordine, come pegno al narcisismo di specie, qualche altra traccia nel solco.
Su Words Social Forum:
Livio Borriello, il soggetto telescopico e la letteratura quantica – esclusiva WSF
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Speciale WSF COMING SOON (se la Redazione è d’accordo):
Psycho 3001, l’Immaginazione Attiva al potere

http://aereoplanini.wordpress.com/

di Alessandro Gabriele


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