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Christopher Nolan questo discorso non lo ha mai fatto, ma insinuare che "Interstellar" per lui sia la medesima chance, un modo per entrare in contatto coi suoi limiti, di vedere quanto in alto è in grado di sollevarsi dopo "Inception", non è poi un sospetto così sbagliato.
Non lo è innanzitutto perché "Interstellar" di "Inception" è il continuo naturale, una variante potremmo dire, dove le caratteristiche di quella pellicola vengono mantenute e contemporaneamente ampliate. Nolan accresce le sue ambizioni, dal sogno torna alla realtà, ma a una realtà fantascientifica, mai piatta, che ha bisogno quindi di una buona percentuale di immaginazione per vivere e prosperare. Guarda al futuro infatti questa volta, chiaramente con cognizione e negatività, quelli di una umanità precaria vittima di un pianeta che sta inviando evidenti segnali di cedimento e usura. Terreni che non producono, agricoltura in crisi, natura imprevedibile, allarmi che hanno spinto la NASA a cercare - in segreto - un nuovo posto su cui trasferire o far ricominciare da zero la razza umana, ma per passare all'atto pratico c'è bisogno di un pilota eccellente, capace di farsi carico di una spedizione preziosa quanto pericolosa. Ed ecco dunque rientrare in gioco i sentimenti, quell'amore per la famiglia e per i figli a cui il Leonardo Di Caprio di "Inception" era stato costretto a rinunciare, ma che ad ogni costo voleva recuperare, analoga sorte che capita anche a Matthew McConaughey, quando per concedere ancora un futuro ai suoi due bambini, decide di abbandonarli sulla terra con il nonno per intraprendere un viaggio, senza data di ritorno, alla ricerca di un pianeta abitabile e sicuro su cui poter trasferire l'intera umanità.
C'è tanto in ballo perciò in "Interstellar", a partire dalla posizione dell'essere umano sulla terra, su cui ci si interroga debba essere quella di guardiano o di esploratore, pioniere. Nolan non ha dubbi però a riguardo e risponde alla domanda mandando il suo protagonista in avanscoperta, alla ricerca di risposte, di prosperità, di fiducia. Per lui diventa un pretesto per allargare gli orizzonti, confrontarsi con l'ennesimo genere, esprimere considerazioni. Solo che le sue ambizioni questa volta anziché scontrarsi con lo spazio aperto e l'atmosfera finiscono per rimanere incastrate in mezzo a un tetto, franando poco a poco e rinunciando al decollo. Ma i buchi neri di "Interstellar" tuttavia non sono legati tanto alla sua sceneggiatura o al suo andamento, anzi, bene o male - alcune sbandate a parte - entrambi sono fattori su cui si potrebbe facilmente chiudere un occhio e sorvolare. Ciò con cui Nolan invece deve fare i conti è il suo approccio algido e la freddezza che da sempre molti dei suoi non-sostenitori gli rimproverano di avere e di non riuscire a scrollarsi di dosso. E se per i suoi precedenti lavori questa caratteristica non era stata un grosso problema - compensata se vogliamo da meccanismi diversi di azione - in un opera che proprio del cuore fa il suo organo vitale ed emozionale, quel non riuscire a trasmettere, a empatizzare con lo spettatore, diventa difetto cruciale che riduce tutta l'epopea innalzata a qualcosa di assai sgonfio e depotenziato.
Questo nonostante Nolan un cuore caldo e pulsante dimostri di averlo eccome, altrimenti non guarderebbe fisso all'amore come forza assoluta e infinita, superiore persino al tempo, lo spazio e la gravità. Non andrebbe a cercare la speranza e la vita, come nemmeno si comporterebbe da furbo cerchiobottista nelle conclusioni delle sue opere. E allora, forse, se un problema esiste è legato al subconscio, a qualcosa di involontario e di non controllabile, con cui man mano che l'asticella di difficoltà si alza, allo stesso tempo di rischia di aumentare lo scarto e di mettere a fuoco un buco nero, questo si da esplorare e da chiudere al più presto, quantomeno per evitare un brutto corto circuito ed eventuali esplosioni.
E "Interstellar" probabilmente è il primo messaggio di allerta: un blockbuster di circa tre ore che lascia imperterriti, poco stupiti e in attesa. L'attesa per qualcosa che non arriva mai, o meglio arriva ma non si fa sentire, ostruita da un anima di ghiaccio che congela ogni flusso e impedisce la connessione empatica tra pellicola e spettatore. Un incidente inaspettato per Nolan con cui è costretto a scendere a patti e accontentarsi, abbracciando il suo ego e il suo stile, ma rinunciando alla gloria. Quella gloria a cui sicuramente ambiva, ma da cui è ancora piuttosto lontano, raggiunta ampiamente, con meno nodi e disordini, invece, dal "Gravity" di Alfonso Cuarón, uno di quei registi che il cuore lo conosce come le sue tasche e da cui Nolan dovrebbe davvero imparare parecchio.
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