di Carlo Camboni
Chi di noi non immagina in un futuro più che prossimo una società divisa in agricoltori e controllori? Se una piaga o severi cambiamenti climatici determinassero la scomparsa del grano e si dovesse coltivare mais nei granai d’America l’umanità avrebbe seri problemi di sopravvivenza, sarebbe alla fame: questo il preambolo. Dunque, gli scienziati dovrebbero giocoforza prestarsi all’agricoltura, cui la scienza avrebbe rubato le braccia. Una lirica malinconica, cupa, avvalorata però da un’atmosfera verosimile, questo il respiro iniziale; poetico, e infatti riverbera le parole di Dylan Thomas “Non andartene docile”, una ballata straziante, come un ritornello che infuria. Peccato che dalla seconda metà del film il clima crepuscolar idilliaco all american
casa college e tempeste di sabbia venga a spezzarsi irrimediabilmente per la fastidiosa insistenza su dialoghi pedagogici a oltranza, nonché divagazioni stucchevoli sull’amore “che trascende i limiti dello spazio e del tempo”, una metafisica dell’amore formato bignami non necessaria e inserita in sceneggiatura per motivi che sfuggono. Tra carestie e tosse cronica per le inalazioni di sabbia ecco che all’occhio attento dell’ex scienziato Cooper, Matthew McConaughey, non sfugge un’anomalia gravitazionale: e non va a scoprire (casualmente) che la NASA opera ancora in gran segreto e in men che non si dica, quando non avevo ancora capito quali coordinate l’avessero condotto in cinque minuti nel posto più segreto del mondo, viene ingaggiato quale fulgido eroe stelle & strisce per salvare l’umanità da una Terra ormai sterile ed inospitale? Due le opzioni a questo punto: ci si prepara al viaggio disposti a giocare con Nolan le partite della relatività, delle leggi fisiche dello spazio-tempo con scetticismo e noncuranza o si decide di votarsi al dio dell’incoerenza trascendendo le speculazioni scientifiche, attraverso wormholes in compagnia di robot e scienziati avallando il superamento delle quattro dimensioni conosciute dimentichi della geometria euclidea, quella falsità, tanto sulla Terra, si apprende, i teorici del complotto hanno avuto la meglio su tutti e a scuola si insegna che l’uomo non è mai allunato, quindi meglio darsela a gambe verso l’ignoto.Facile giocare coi sensi di colpa dell’uomo, quanti mi dispiace nel film, un eterno scusarsi, gli uni con gli altri, padre figlia nonno insegnante: l’uomo ha sputtanato tutto sulla Terra, forse non resta che chiedere scusa e scappare cercando la terra promessa in un’altra parte dello spazio, ovunque, lontano. Tema affascinante, soprattutto se in una società ormai fatalista si baratta la grande ambizione con piccoli stratagemmi per una sopravvivenza provvisoria. Non resta che il barlume delle emozioni umane elementari e i rapporti che le generano, l’esile innesto su cui il film è basato, un tentativo intimo e delicato in cui però i personaggi non hanno lo spessore dovuto, sono letteralmente persi nello spazio e nel tempo, in un mondo sull’abisso dell’estinzione dei sentimenti, oltre che delle risorse. E la perdita dei sentimenti, in fuga più dei cervelli, è forse la chiave di lettura più attraente di Interstellar, cult, forse, tra i blockbusters anni Dieci.
Carlo Camboni
_______________________
Copyright 2014 © Amedit – Tutti i diritti riservati
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 21 – Dicembre 2014.
VERSIONE SFOGLIABILE
VAI AGLI ALTRI ARTICOLI: Amedit n. 21 – Dicembre 2014
Per richiedere una copia della rivista cartacea è sufficiente scrivere a: [email protected] e versare un piccolo contributo per spese di spedizione.