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Interventi e un libro: Lirica e altro, Ivan Fedeli

Da Narcyso

LIRICA E ALTRO

PIANISSIMO é il titolo dell’opera di uno dei poeti piú importanti del novecento, ad indicare non certo un abbassamento dello strumentario retorico ma una qualitá della percezione, tutto un mondo che si delinea, che carica la parola di quella affettivitá ed emotivitá che é della grande poesia – non fosse altro perché il lettore é messo nella condizione di partire da se stesso, di sentire, appunto, percependo stati comuni di coscienza.

Questo stato della parola, a torto identificato con un lirismo tout court, non coincide con tutto il lirismo ma, potremmo dire, piuttosto, con una dimensione di vigilanza, quindi vicinissima alla cosa; o meglio, con la perdita della cosa.
Insomma: non c’é la lirica che informa di sé la poesia lirica, ma c’é il poeta che la informa del suo modo di sentire e costruisce variazioni, sottosistemi di pensiero sensoriale non necessariamente coincidenti. Che senso ha, tanto per fare un esempio, dichiarare la liricitá di due poeti come Campana e Sbarbaro che giungono ad esiti, pur muovendosi a partire da una simile condizione esistenziale, diametralmente opposti? Ed é possibile, poi, come si tende a fare, dichiarare l’incompatibilitá delle muse all’interno di una stessa voce poetica? E’ possibile constatare un andamento lirico in un testo che pur procede in altre direzioni? E’ possibile constatare che non ci sia affatto del lirismo in un testo che pur dichiara di muoversi nella direzione di una verticalitá?

***

Ivan Fedeli, A BASSA VOCE, edizioni cfr 2012


Interventi e un libro: Lirica e altro, Ivan Fedeli
Leggendo questo testo di Ivan Fedeli, ci troviamo di fronte a una prova sui generis, se si considera l’afflato sociale di questo autore, con tutto quello di importante che ne consegue: in prima istanza, certamente, la funzione del soggetto scrivente, che, per una sorta di etica, tende massimamente a nascondersi, cioé a porsi in funzione di antilirismo.
A BASSA VOCE é invece un testo dedicato alla nascita del figlio Riccardo, scritto, dunque, chiudendosi la porta alle spalle e abbassando la voce per non svegliarlo. Ecco allora, un testo che, nell’excursum di un poeta civile, si trova improvvisamente a fare i conti col vicino, col valore dell’intimismo scambiato oggi da troppa critica, come una sorta di autodafé della poesia. Ma cos’é dunque, l’intimismo, se non avvicinamento, ascolto dell’altro? E possiamo considerarlo genere meno sociale della poesia considerata sociale?
Qui il padre parla al bambino, ne osserva la costruzione, proprio come un progetto del destino, per il senso di sé e degli altri, fin dalla pancia della madre. La lingua si fa una strana commistione di affetto e linguaggio scientifico, come se si trattasse di calibrare la giusta ricetta per venire al mondo nello stato migliore:

Non reazione chimica, non scambio
d’enzimi, trasformazioni osmotiche,
tu chiamala vita semplicemente
la splendida scommessa, mentre filtri
i tessuti costruendo la bocca,
gli occhi, i piccoli rami ora radici
dei nervi: niente é precluso se aggiusti
accenti e singhiozzi, il ritmo del cuore
con quello che per te sará musica.

p 6

In questa puntuale osservazione delle vibrazioni di anima e di fisica, Ivan Fedeli non perde mai di vista il fatto che la poesia non é la vita, non potrebbe mai e poi mai darci l’illusione di creare mondi di parole perfetti; che la carne é una cosa e il corpo della poesia é fatto di altra sostanza. Cosí lo stupore per la presenza del figlio é affiancato dalla domanda, da un’altra presenza:

(La poesia. Ferita, sollievo,
incontro, abbraccio. Avrai mani per tutti
se pure tu saprai ferirti un giorno,
figlio di un’epoca priva di padri.)

p 9

Poesia, sostrato che s’agglutina,
madre placenta mia che si fa tua
ancor prima di esistere, restare.

p 14

Accade cosí che la nascita di questo figlio, diversamente da ogni previsione di poesia “intimista” chiusa e conchiusa nel suo benestare, acuisca invece il rapporto complicato con gli esseri, con gli altri. Se chiudi la porta, rimane pur sempre la finestra da cui guardare. Non é possibile sprangarla, proprio perché la poesia é gesto rivolto al mondo, agli altri nel mondo, fosse solamente rampogna o rinuncia a vivere, di fronte a se stessi e al destino:

(Intorno altri fatti, gente in deriva,
si priva la vita di luce e sfatta,
latente, fatica la voce a uscire.
Si cresce, si sa, si deve morire.)

p 32

(Non dirglielo al bambino quando cresce che premono i polmoni e fanno male
in via Olgettina, dove si contorcono le strade e l’asfalto mischia nafta e ore
in attesa del migliore dei mondi possibile. Non dirglielo, ti prego,
dei fumi dell’amsa, i liquidi densi delle cantine interne cosí buie,
mentre fa notte su Milano e batte il tempo spento di una cittá in forse).

p 33

Si veda, insomma, come la poesia, essendo lingua e non linguaggio, non possa permettersi di schematizzare la complessitá, il suo porsi in contatto – comunque – dentro e fuori le cose che la circondano. La poesia puó parlare della nascita di un figlio e nello stesso tempo dichiarare la paura
dell’ineludibile, per se stessi e per gli altri:

La paura é che il mondo accada ancora
e nel dormiveglia si tenga a mente
la nostra vigilia, il maltempo intenso,
la necessitá dei figli di crescere
nonostante il vento avverso di spalle.
p. 47

Sebastiano Aglieco


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