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Intervista a Claudio Sottocornola

Creato il 12 agosto 2013 da Af68 @AntonioFalcone1

luglio_2013_Il-giardino-di-mia-madre_Claudio, mercoledì 7 agosto è stata inaugurata presso la Sala Calliope della Libreria Mondadori di Siderno (RC) la mostra fotografica Il giardino di mia madre e altri luoghi, visitabile sino a domani, martedì 13. Le fotografie ci “parlano” di viaggi, di un giardino visto allo stesso tempo come luogo di salvaguardia del bello e volto a mantenere vivo il ricordo di una persona cara, ti va di descriverci quest’esposizione nelle sue caratteristiche essenziali?

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“Dopo aver toccato varie città d’ Italia mi fa piacere portare questa mostra anche nella Locride, a dieci anni dalla scomparsa di mia madre, avvenuta anche in seguito ad alcuni errori ed omissioni di tipo medico, dando un seguito all’idea originaria, mantenerne vivo il ricordo. Quest’esposizione nasce in seguito ad una mia osservazione relativa all’incuria nei confronti di alcuni valori essenziali, come quello della vita umana, specie quando diventa fragile in seguito alla malattia, che ho individuato anche in alcuni operatori i quali dovrebbero invece avere come vocazione specifica l’attenzione per la salute, il bene delle persone. Rappresenta una sorta di tentativo volto ad affermare, per contrasto, la bontà di un atteggiamento intento alla cura, all’attenzione, fra benevolenza ed impegno, che mia madre rivolgeva, in primo luogo alle persone, essendo molto impegnata nel volontariato attivo come presidente di una Conferenza di San Vincenzo a Bergamo, e poi, simbolicamente, nella cura di un piccolo appezzamento di terreno strappato al cemento, con una città che sembrava volerlo inghiottire, per ricavarne un giardino, concentrato non tanto in estensione, ma in profondità. Questo giardino è divenuto un simbolo, una metafora: dopo la morte di mia madre ho iniziato a fotografarlo quasi in modo nevrotico, così da coglierne tutti gli anfratti, individuandolo come un nido, un momento di raccoglimento, luogo tanto dell’interiorizzazione della memoria che della cura volta a ricavarne ordine ed armonia, concetti applicabili in egual misura ad altri luoghi del mondo che possono essere umanizzati. Infatti nella mostra vi sono fotografie di vari posti che ho potuto visitare (gli Stati Uniti negli anni ’70, la Calabria Jonica, Roma, la Corsica), ognuno con la sua simbologia, ma sempre visualizzati con uno sguardo intento ad individuare una redenzione di quanto appare degradato, indeterminato, caotico, attraverso l’impegno, la responsabilità, il lavoro, gli unici mezzi idonei a generare bellezza”.

Marcel Proust ha detto:“La vera terra dei barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli”. Quanto ritieni che tale affermazione possa essere consona al nostro paese, non sempre particolarmente attento alla salvaguardia e al mantenimento di un immenso patrimonio artistico/culturale e di conseguenza alla valorizzazione della bellezza, nelle sue varie accezioni ed implicazioni?

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“Inizierei col dire che il problema di una certa incuria, di una colpevole noncuranza nei confronti della bellezza, è comune un po’ a tutto il mondo occidentale contemporaneo, per varie ragioni: ha prevalso, dalla modernità in poi, e si è ora definitivamente affermato, un atteggiamento che vede la centralità del paradigma economico.
Oggi qualsiasi attività umana sembra trovare significato soltanto nella sua risonanza economica e ciò comporta una perdita di sensibilità verso la gratuità, quelli che in una mia opera definisco “i trascendentali”, cioè i valori di verità, bene bellezza. Il riferimento prevalente è quello del bisogno soggettivo e del suo appagamento, l’approccio è funzionalistico e tecnico, per cui in tale ordine di cose la bellezza perde diritto di cittadinanza. Certo, abbiamo avuto altri paradigmi in passato, ma questi concedevano maggiore attenzione al bello, al vero: penso alla dominanza della teologia, poi della filosofia, della scienza, mentre ora l’economia rischia d’appiattire in senso orizzontale e funzionalistico l’atteggiamento verso il mondo, che diventa simile a quello di uno schiavo, di colui che esercita una funzione meramente operativa, designato dalla stessa, e quindi interscambiabile. Manca l’anima, il “mondo dentro”, la consapevolezza dell’uomo libero e in tale ambito i beni culturali, nel senso più profondo e denso del termine, perdono quota, diventano clichés.
Vi è un consumo di cultura, ma questa è identificata secondo facili stereotipi indotti dalle grandi multinazionali: il pubblico non comprende d’essere oggetto di pressioni enormi, legate ad interessi di mercato (quello dell’arte, editoriale, musicale), non sceglie più liberamente, ma quasi sotto ipnosi, personaggi, oggetti, esperienze che fanno tendenza, e in realtà generano consumo e alimentano il mercato. In questo clima la bellezza muore, si degrada, lo vediamo nel turismo di massa, nelle città abbruttite dall’indifferenza e dalla scarsa attenzione ambientale/edilizia, così come nell’atteggiamento estetico delle persone, che al massimo usano il corpo come strumento di seduzione, ma sono incapaci d’esprimere una bellezza o un’eleganza profonda.
Il problema è piuttosto ampio, e in Italia si associa alla crisi di un senso d’appartenenza, anche connesso alla fragilità della sua classe politica: non sentiamo più d’essere parte d’una comunità lanciata verso la condivisione di valori, ciascuno fa parte per sé, col risultato che i beni comuni vengono abbandonati a loro stessi, quando non li mettiamo in vendita a cinesi, russi, arabi, espropriandoci così di un patrimonio dal valore incommensurabile”.

Abbracciando la multidisciplinarietà come linea guida, nel corso degli anni hai delineato un personale percorso incentrato su determinate manifestazioni artistiche (le canzoni concerto confluite nel progetto web di Working Class, da poco inserito in un cofanetto di 5 dvd) e letterarie (le poesie di Giovinezza addio. Diario di fine 900 in versi e Nugae Nugellae, Lampi), così come su riflessioni esistenziali/filosofiche volte ad indagare il pensiero moderno, anche nelle sue confluenze spirituali/religiose (The Gift.Il Dono; Il pane e i pesci; I trascendentali traditi) ed estetiche, vedi l’attuale mostra. E’possibile tracciare un fil rouge che unisca tutto ciò in un discorso univoco ma non totalizzante, mantenendo le caratteristiche delle singole esternazioni?

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“Credo che oggi l’atteggiamento prevalente nell’ambito culturale sia rivolto ad una frammentazione del sapere e alla specializzazione: per esempio riscontro nei giovani una tendenza ad intraprendere studi o professioni estremamente specialistiche, operative, tecniche: produciamo operatori turistici, massaggiatori, ingegneri, persone quindi che devono creare benessere o rispondere a dei bisogni e tutto ciò da un certo punto di vista è inevitabile, perché ogni professione obbedisce ad una esigenza sociale, ma è anche vero che abbiamo perso di vista quella visione olistica, sapienziale, che caratterizzava negli anni ’70 i miei insegnanti di liceo e gli uomini di cultura in genere.
Non si trattava tanto di operare in modo efficiente, d’impadronirsi di una tecnica relativa ad un ambito limitato di realtà, ma di acquisire una familiarità con un mondo interiore, con una serie di riferimenti i quali costituivano una visione della vita, quindi anche una proposta di valori, di direzioni valide per il cammino. Tutto ciò oggi viene quasi completamente a mancare, ed io al riguardo sono invece andato un po’ in controtendenza, verso un approccio globale, non qualcosa d’ enciclopedico (conoscere tutto per necessità), ma una metodologia multiforme: infatti, è molto più interessante cambiare metodo che mutare idea, vedere le cose da diversi punti di vista, come quello filosofico, musicale, visivo, spirituale … Ciò permette di desituarsi continuamente rispetto ad una visione univoca del mondo e di cogliere cose diverse. Infatti sostengo, per esempio, che se non mi fossi dedicato, attraverso i miei studi sulla canzone d’autore, alle lezioni concerto come espressione di una musicalità live, interpretativa, probabilmente avrei pensato in un altro modo.
Nel pensiero razionale, dicotomico, si tende a procedere in modo binario (vero/falso, giusto/ingiusto), mentre nel momento ermeneutico dell’interpretazione si propende alla sintesi, alla mediazione, e questo mi ha aiutato in ambito filosofico, a cogliere punti di vista diversi come conciliabili, anche perché sono convinto che oggi non sia possibile tornare ad una proposta univoca, chiedere ad altri che si adeguino semplicemente al nostro mondo di valori, al nostro universo simbolico. Quello che possiamo fare, invece, è cercare d’elaborare un nuovo paradigma, che sia flessibile e dinamico, capace di dialogo ed interazione, in grado di generare scambio e armonia.
L’esperienza ermeneutica, cioè di interpretazione della realtà con mezzi diversi, è un po’ il fil rouge della mia proposta, che mira a stabilire le condizioni teoretiche e di sensibilità più idonee a raggiungere il maggior grado di universalità possibile nell’ambito della condizione umana contemporanea”.
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Le foto a corredo dell’intervista, che ritraggono Claudio Sottocornola e lo scrivente durante l’inaugurazione della mostra “Il giardino di mia madre e altri luoghi” sono di Valerio Pascale.


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