Con queste parole Björk parla dell’amico Gondry, uno dei registi di videoclip, spot e pellicole di culto dei nostri tempi, che ha firmato lavori per Chemical Brothers, Rolling Stones, Foo Fighters, Massive Attack e molti altri. Premio Oscar nel 2005 con Eternal Sunshine of a Spotless Mind per la miglior sceneggiatura originale (assieme a quel genio di Charlie Kaufman), oggi il regista viene finalmente raccontato in tutte le sue sfaccettature nella prima monografia italiana scritta da Cristiano Dalpozzo ed edita da Libreria Universitaria.
Come nasce l’idea di questa monografia?
La mia passione per Gondry nasce in tempi non sospetti… mi occupo di videoclip da oramai una quindicina d’anni. In questi anni ho avuto occasione di collaborare alla realizzazione di decine e decine di videoclip per i più importanti artisti nazionali ed è stato proprio lungo questo percorso e grazie alla visione ripetuta delle opere di Gondry che ho scoperto che questa forma espressiva poteva in qualche maniera esplodere, superare i propri confini prettamente commerciali per diventare qualcosa d’altro molto simile ad una forma artistica. Occupandomi poi di ricerca e insegnamento mi accorsi che in Italia seppur a Gondry venissero dedicate tesi, interviste, speciali su riviste, web ed emittenti musicali non era ancora stato affrontato uno studio sistematico sulla sua opera. Dunque mi sono detto: perché no?
Quindi non si parla solo di videoclip…
Gondry è un autore prolifico e decidendo di affrontare uno studio monografico sulla sua opera non era possibile limitarsi alla sola produzione di video musicali. Gondry ha realizzato decine di spot di successo (uno su tutti il pluripremiato Drugstore per Levi’s ndr), ma ha al suo attivo un altrettanto interessante produzione di documentari, regie televisive e naturalmente lungometraggi.
Che cosa differenzia un regista come Michel Gondry da altri registi che come lui sono partiti dai videoclip e poi sono approdati al grande schermo? Penso ad esempio a Spike Jonze e David Fincher.
Gondry non ama questo tipo di accostamenti e in una delle sue interviste lo dice a chiare lettere. Ma credo che in fondo certi parallelismi siano inevitabili e lui ne sia consapevole. Possiamo dire che in qualche modo Gondry abbia un approccio più “europeo” rispetto ai due colleghi citati. Nonostante si tratti di tre abili “manipolatori”, volendo semplificare il discorso, potremmo dire che Jonze è molto più scanzonato, Fincher è più mainstream. Senza con questo dare dei giudizi di valore, s’intende.
Ci sono elementi di contiguità fra il Gondry regista di videoclip e quello dei lungometraggi?
Direi di sì. Prima di tutto proprio questo approccio metacinematografico. L’aspetto ludico e ossessivo insieme, l’amore per i meccanismi perfetti, i labirinti della mente. Basti pensare a clip come Around The World per i Daft Punk o a Let Forever Be per i Chemical Brothers e a pellicole come Eternal Sunshine of a Spotless Mind.
Dal punto di vista stilistico mi pare che uno stilema ricorrente possa venir rintracciato nell’uso ingegneristico e scanzonato insieme del piano sequenza che a mio avviso racchiude e simboleggia un po’ quanto espresso anche dal punto di vista tematico come nel caso di Protection per i Massive Attack, di Lucas With the Lid Off per Lucas, o della sequenza del “maroccamento” di Be Kind Rewind. In Gondry la forma è il contenuto.
E a proposito di stile… si sente spesso parlare di stile alla Gondry.
È vero, Gondry oggi è diventato un aggettivo e il suo stile è piuttosto riconoscibile. Come dicevo un certo uso del piano sequenza, unito a elementi scenografici naive, modellini, specchi e retro proiezioni sono diventati in qualche misura un vero e proprio marchio di fabbrica.
Il sottotitolo del volume intende esplicitamente evidenziare due aspetti particolari “il gioco e la vertigine”, perché proprio questi?
Perché credo siano i due poli fondanti dell’opera gondryana. Due poli legati indissolubilmente tra loro in un rapporto di reciproca influenza e attrazione. L’aspetto ludico di cui abbiamo parlato nei clip come nei film del regista d’oltralpe non fa che rimandare ad una visione vertiginosa del mondo, un punto di fuga infinito che non prevede inizio ne fine. Figure retoriche come la variatio ad infinitum, la myse an abyme non fanno altro che catturare lo spettatore in un gioco infinito di specchi deformanti basti pensare a lavori come Let Forever Be, Around The World o Come Into My World per Kylie Minogue. Ecco un altro aspetto importante dell’opera di Gondry: la conversazione simbolica e il gioco di rimandi instaurati con lo spettatore.
Lei rintraccia alcuni modelli di riferimento come ad esempio l’opera cinematografica di Méliès. Ce ne può parlare brevemente?
Fondamentalmente credo che il cinema di Gondry abbia a che vedere più con alcuni aspetti del precinema e con quello del cinematografo che con il cinema moderno. Il suo gusto per la meraviglia, per il congegno cinematografico e l’intenzione con la quale adotta i trucchi scenografici o di montaggio mi fanno pensare alle meraviglie fieristiche di fine Ottocento dove per l’appunto il cinema veniva presentato o alle prime proiezioni cinematografiche (in special modo a quelle di Méliès).
Volendo portare più avanti il discorso mi pare si possano annoverare anche certi registi russi o di area est europea e in particolare nel campo dell’animazione che rimane comunque uno dei terreni prediletti del regista francese. Norstein e Rybczynski, tanto per fare dei nomi.
Certo i riferimenti al cinema moderno ci sono, compresi a quello europeo degli anni ‘60, ma non bisogna dimenticare che Gondry è l’autore di opere come The Green Hornet e soprattutto Be Kind Rewind, un film che dichiara tutto il suo amore per il cinema contemporaneo da cassetta, da blockbuster. In più di un’intervista Gondry ammette candidamente che Ritorno al futuro rimane per lui uno dei film più belli mai visti…
Nel panorama internazionale come si può collocare il cinema di Gondry?
Il cinema di Gondry non è un cinema impegnato, ne militante in senso stretto. Allo stesso modo non si può definire un cinema da botteghino e mainstream a tutti gli effetti.
Penso si possa definire un cinema autobiografico nella misura in cui autobiografismo lo s’intenda nella sua accezione più ampia e quindi come dice Gondry stesso un cinema che tenti di fare del documentarismo su cose immaginarie. Quindi anche su i propri sogni, la propria memoria o dimensione più intima.
Le sue pellicole sono in sostanza astrazioni, immagini senza corpo che si materializzano attraverso la mente dei suoi protagonisti spingendoci a domandarci quale sia in fondo anche il ruolo di noi spettatori, in tutto questo. A cosa stiamo assistendo? Che cosa abbiamo visto? Se il cinema perde il suo “corpo”, la sua materia, che cosa rimane?
Non a caso certe pellicole del regista (Eternal Sunshine of a Spotless Mind in primis ndr) vengono prese a modello per definire quello che da alcuni studiosi viene considerato il “cinema del cervello”, ossia la messa in scena della considerazione che lo schermo è dentro di noi e che quindi il cinema è dentro di noi, la nostra testa e le nostre sinapsi e noi siamo il cinema…
Laura Girelli
Scritto da Redazione il nov 11 2011. Registrato sotto INTERVISTE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione