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Intervista a Enrico Merlin di Andrea Aguzzi

Creato il 20 aprile 2015 da Empedocle70
Intervista a Enrico Merlin di Andrea Aguzzi
Quando hai iniziato a suonare la chitarra e perché? 
Avevo quattordici anni. A undici avevo acquistato, in società con un amico, il White Album dei Beatles. Il perché di questa scelta rimane tutt'oggi un piccolo mistero, ma cercando nella memoria più remota, posso dire che uno dei primi ricordi indelebili che ho della mia vita è relativo alla musica, e in particolare ai Beatles. Vivida è l’immagine di me seduto sul tavolo della cucina del piccolo appartamento dove vivevo con i miei genitori a Milano e alla radio trasmettevano «Ob-la-dì Ob-la-dà». Considerando che il singolo è uscito nel novembre del 1968, io avevo quattro anni e mezzo. Probabilmente deve esserci stato un imprinting di qualche tipo, ma perché ciò abbia attirato la mia attenzione, resta un mistero. Un altro pezzo che è legato alla mia prima infanzia, anche precedente nei ricordi al singolo dei Beatles, è «Day-O (Banana Boat Song)» di Harry Belafonte. Questo ha più probabilmente a che fare con l’amore che da sempre nutro per la musica nera.
Che studi hai fatto e qual è il tuo background musicale? 
Sono praticamente un autodidatta. Ho avuto un solo insegnante (che oggi peraltro è il mio commercialista, e suo figlio è stato mio allievo) nelle prime fasi di apprendimento, ma che ha avuto un ruolo importante nel mio coinvolgimento nel mondo della musica improvvisata. Lui era (ed è) un jazzista a tutto tondo e quindi forse era inevitabile, ma ciò che so è che per me l’improvvisazione, intesa come composizione estemporanea e ricerca di tessiture anche timbriche, dinamiche ed espressive inusuali e, possibilmente, imprevedibili.
Dopo le prime esperienze con gruppi di Blues, Rhythm’n’Blues e pseudo-Prog, è iniziato il viaggio verso i confini (anche più estremi) del Jazz e della musica improvvisata in genere.
Con che chitarre suoni e con quali hai suonato?
Al contrario di molti colleghi, non sono uno che ama cambiare spesso strumenti, anzi… Ora non ricordo di preciso, ma credo di aver comprato l’ultima chitarra oltre 10 anni fa. E si tratta di un’acustica Ibanez acquistata per €150 da un allievo. Avevo bisogno di uno strumento da combattimento… La mia chitarra principale è una PRS (equipaggiata con corde 10-52) pre-Santana (quella senza controlli di tono per intenderci), poi una simil-Telecaster artigianale (con manico Strato, e due pick-up fuori norma). La chitarra acustica «vera» è una Jean Larrivée Jumbo, uno strumento straordinario! Negli ultimi tempi (per esempio per uno dei tre dischi incisi recentemente in duo con il sassofonista Massimiliano Milesi) ho rimesso in campo una vecchia Hoyer semi-acustica (apparentemente del 1963), che come struttura ricorda un incrocio tra un’L5 e una Super 400. L’avevo messa da parte da una decina d’anni perché mi usciva naturalmente un suono «troppo Jazz», mentre ora riesco ad amministrarla come desidero. Oggi mi pare assurdo che io l’abbia accantonata per così tanto tempo, ma anche in questo caso, si tratta di processi di maturazione. Credo.
Sei giustamente considerato uno dei massimi esperti di Miles Davis. Come è nata la tua passione per questo personaggio e soprattutto come hai fatto a rintracciare tutte le sue fonti musicali?
Anche in questo caso la storia parte da molto lontano, ma per farla breve diciamo che ho sempre avuto un amore per i dettagli, discografici e di vario genere legati al mondo della musica. Inizialmente mi limitavo a correggere le informazioni di copertina dei dischi e poi da lì sono passato a collezionare le sue registrazioni inedite (bootleg, registrazioni radiofoniche e private, fotografie, ecc). In una fase successiva ho realizzato che Miles dirigeva il flusso musicale attraverso un semplice ma efficace sistema di segnali sonori, che ho chiamato «coded phrases». Vi ho scritto sopra un piccolo saggio che è stato pubblicato come note di copertina di due edizioni discografiche, e per quel motivo sono stato invitato alla «2nd Miles Davis Conference», tenutasi alla Wshington University di St. Louis, nel 1996. Lì ho conosciuto Teo Macero (storico produttore di Miles) e piano piano la storia si è intessuta imprevedibile e continua ad intessersi ancora oggi.
Intervista a Enrico Merlin di Andrea Aguzzi
Come mai nello scrivere un libro su Miles hai deciso di concentrarti su Bitches Brew? Come è nato “Bitches brew: genesi del capolavoro di Miles Davis”?
Il libro fa parte di questo processo. Dopo aver partecipato al convegno di St. Louis ricevetti una lettera manoscritta da un professore, tale Veniero Rizzardi, curatore dell’archivio Luigi Nono alla Giudecca di Venezia. Egli era interessato a confrontare i metodi lavoro dei grandi compositori contemporanei con l’attività di Davis. Tutto è iniziato lì, alla fine degli anni ’90. Poi siamo andati avanti e abbiamo scoperto sempre nuove cose. L’incontro con l’illuminato editore Luca Formenton de Il Saggiatore è stato quindi determinante. La casa editrice aveva pubblicato da poco il libro di Ashley Khan su Kind of Blue. Il volume ipotizzato su Bitches Brew si configurava come degna conseguenza. Difatti il nostro è un libro molto diverso nello stile e nei contenuti. Noi non siamo critici, ma musicisti-musicologi che amano scrivere di musica.
Personalmente io considero il periodo elettrico tra il 1968 e il 1975 come il periodo migliore di Miles, il più fertile, il più creativo, quello in cui, più che in altri momenti della sua carriera ha anticipato il futuro, cosa ne pensi dell’uso della chitarra elettrica in quegli anni? Io ammiro molto il lavoro di Peter Cosey…
Bingo! Pete Cosey è stato uno straordinario innovatore. Nessuno come lui ha saputo inserirsi nei contesti chiusi del Blues (si veda il suo rivoluzionario apporto nel controverso «Electric Mud» di Muddy Waters) per poi approdare alla band di Miles, nel periodo generalmente meno amato dai “puristi”. Una miscela di africanismo, sapori indiani e sudamericani, musica dodecafonica, Funk, improvvisazione totale, imprevedibilità. Nel suo progetto del periodo Miles abolisce il pianoforte elettrico, rinforza invece il set con una chitarra elettrica, poi vi aggiunge il sitar elettrico, poi un’altra chitarra, poi ad un certo punto avrà addirittura tre chitarre nella band. Purtroppo l’unica testimonianza ufficiale di questa fase è il secondo disco dell’album «Dark Magus», ma nel circuito delle registrazioni private esistono diversi documenti sonori.
Come è nato l’idea di un libro come “1000 dischi per un secolo. 1900-2000”, non è il classico libro di recensioni …?
No, certamente non lo è. Così come non è un libro dei dischi che io reputo fondamentali, perché (a mio parere) «belli». La selezione è stata operata sulla base del coefficiente di innovazione di ciascuna delle opere sonore prese in esame, indipendentemente da generi e stili. Un altro importante fil rouge è costituito dalla parabola del supporto fonografico.
Quali sono state e sono le tue principali influenze musicali? 
Sul fronte dell’ascolto, direi molteplici. Si va come detto dalle prime esperienze di ascolto consapevole legate ai Beatles, per arrivare alle avanguardie più sfrenate.  Come chitarrista, credo di essere passato attraverso stagioni anche distanti da un punto di vista stilistico, ma da moltissimi anni , uno dei miei obiettivi è quello di trascendere e includere il passato, cercando di far emergere sempre la mia personalità, anche quando, per gioco, mi diverto a far affiorare alcune delle mie influenze più dirette, da Scofield a Frisell, da Derek Bailey a Ry Cooder.
In che modo esprimi la tua “forma” musicale sia nell’ambito dell’esecuzione che nell’improvvisazione, sia che tu stia suonando “in solo” sia assieme altri musicisti? Elabori una “forma” predefinita apportando aggiustamenti all’occorrenza o lasci che sia la “forma” stessa ad emergere a seconda delle situazioni, o sfrutti  entrambi gli approcci creativi?
Un approccio integrato è per me sempre fondamentale per affrontare in modo efficace l’atto performativo e/o creativo. Per alcuni musicisti, la musica è un mezzo per altri un fine, per altri ancora un punto di partenza.
Intervista a Enrico Merlin di Andrea Aguzzi
Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc? 
Anche sull’improvvisazione vi sono una serie di fantasie che negli anni si sono consolidate. Se per improvvisazione si intende una serie di interventi sonori costruiti grazie all’interazione di melodie, armonie e variazioni ritmiche su di un tessuto preorganizzato, allora le possibilità di creare inediti percorsi sono veramente poche. Infatti, malgrado forme alternative di improvvisazione esistano sostanzialmente dall’invenzione dei sintetizzatori e siano rappresentate ormai una cospicua documentazione sonora, negli ambienti più conservatori vengono ancora considerate alla stregua di sperimentazioni, ricerca, elucubrazioni intellettualoidi. Si deve lavorare duramente per contrapporsi a questo pensiero passatista, non ostracizzando ovviamente le opere che hanno fatto grande la musica, ma certamente affermando con  chi organizza  e scrive e continua a ritenere che solo quella del passato
In che modo la tua metodologia musicale viene influenza dalla comunità di persone (musicisti e non) con cui tu collabori? Modifichi il tuo approccio in relazione a quello che direttamente o indirettamente ricevi da loro? Se ascolti una diversa interpretazione di un brano da te già suonato o che vuoi eseguire tieni conto di questo ascolto o preferisci procedere in totale indipendenza?
La relazione e la comunicazione, anche non verbale, sono elementi strutturali più che compendio, nelle mie esperienze musicali più intense e profonde. Persino nella performance in solo sono profondamente influenzato dalle vibrazioni che provengono dal pubblico. Ciò non significa assolutamente che ci possa trovare nella situazione di deviare radicalmente il corso della musica per accondiscendere eventuali richieste del pubblico. È qualcosa di molto più profondo, che solo chi ha un certo tipo di sensibilità può comprendere. Qualcuno, anche tra i colleghi, confonde questo atteggiamento con la presunzione, ma di fatto è esattamente il contrario. Si tratta di un processo di elaborazione che ha richiesto anni di duro lavoro di addizione e, soprattutto, sottrazione. Ciò che resta è dinamicamente in costante evoluzione, per cui non è mai uguale a sé stesso, ma si basa su convinzioni solide, necessarie per poter presentare il proprio lavoro senza eccessive paure. Ciò che si fa, specialmente nel mondo dell’arte cosiddetta informale, necessita di questo tipo di approccio, una miscela il più possibile equilibrata, di ferme convinzioni e permeabilità e confronto.
Una domanda un po’ provocatoria sulla musica in generale, non solo quella contemporanea o d’avanguardia. Frank Zappa nella sua autobiografia scrisse: “Se John Cage per esempio dicesse “Ora metterò un microfono a contatto sulla gola, poi berrò succo di carota e questa sarà la mia composizione”, ecco che i suoi gargarismi verrebbero qualificati come una SUA COMPOSIZIONE, perché ha applicato una cornice, dichiarandola come tale. “Prendere o lasciare, ora Voglio che questa sia musica.” È davvero valida questa affermazione per definire un genere musicale, basta dire questa è musica classica, questa è contemporanea ed è fatta? Ha ancora senso parlare di “genere musicale”?
Una delle ragioni principali per cui ho scritto «1000 dischi per un secolo» era quella di riuscire a dimostrare come l’idea che «la musica sia un linguaggio universale» sia di fatto ormai da considerarsi un’idiozia. Il discorso di Zappa contiene in sé un’importante provocazione. Per certi versi alla stessa stregua di gran parte della musica di Cage. Chi pensa ancora in termini di generi nel XXI secolo, chi si trincera dietro gli stilemi, ha un approccio tribale e sorpassato. La musica è fatta di linguaggi. Nessuno si sognerebbe mai di dire che «la poesia giapponese fa schifo», se non parla il giapponese, non conosce le dinamiche della poesia di quel popolo. Eppure è pieno di idioti che si permettono di dire che cosa sia gezz e cosa non lo sia, che solo se ci sono quelle caratteristiche allora è roc, che la musica scritta è superiore a quella improvvisata o viceversa… Nell’epoca contemporanea, nell’arte informale, è certo che una didascalia, più che la cornice, talvolta può essere utile per aiutare a comprendere il processo che ha portato alla realizzazione dell’opera d’arte. Non necessaria, comunque, o almeno non sempre. In ogni caso mi va di segnalare che il mio ultimo disco si intitola «Unframed… Straight Ahead!»
Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi, questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l’esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più “messa in crisi” dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella musica contemporanea, per non parlare del successo nella musica leggera, dove chitarra elettrica è ormai sinonimo di rock ... in quanto musicista polivalente e trasversale…  quanto ritieni che ci sia di veritiero ancora nella frase di Berlioz?
Diciamo che per scrivere per chitarra è effettivamente necessario avere una certa affinità (se non addirittura intimità) con essa. Secondo me in passato si scriveva poco per chitarra semplicemente perché era uno «strumentino» almeno se paragonato ai grandi strumenti solisti della tradizione europea. Ora siamo all’opposto. Anche troppo, per certi versi.
Luciano Berio ha scritto “la conservazione del passato ha un senso anche negativo, quanto diventa un modo di dimenticare la musica. L’ascoltatore ne ricava un’illusione di continuità che gli permette di selezionare quanto pare confermare quella stessa continuità e di censurare tutto quanto pare disturbarla”, che ruolo può assumere la ricerca storica e musicologica in questo contesto?
Questo è uno dei motivi per cui non piace troppo essere definito musicologo. Credo che più che di conservazione del passato sarebbe il caso di parlare di analisi dei processi evolutivi. Molto più interessante, stimolante e efficace nella trasposizione delle esperienze alter nel contesto della contemporaneità. Questo processo anziché ingabbiare (come potrebbe sembrare a un primo sguardo) di fatto libera la creatività. Conoscere è fondamentale. Ma ricordiamoci, come diceva Richard Feynman, che prima della conoscenza è necessario stimolare la curiosità.
Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?
Soprattutto negli ultimi tempi la cosa è diventata pericolosamente tragica. La materializzazione del supporto fonografico ha portato a un pressoché totale smembramento delle opere sonore così concepite in origine. Credo che ciò che tu dici sia molto vero. E preoccupante. Soprattutto per i più giovani. Essi perdono il senso della sequenza degli avvenimenti e l’importanza della coesione.
Di solito mi piace chiedere quali sono i cinque dischi per indispensabili, da avere sempre con se.. i classici cinque dischi per l‘isola deserta.. dopo aver letto il tuo libro sulla discografia dell’ultimo secolo “1000 dischi per un secolo. 1900-2000” … tremo un po’ nel porti questa domanda … quali sono? Che musiche ascolti di solito?
Dunque, questo per me è un grosso problema… risponderti intendo. Sono realmente un onnivoro, poi nella mia testa esistono tre tipologie di selezione delle opere sonore:
1. I dischi che ritengo fondamentali nella storia della musica
2. I dischi che sono stati fondamentali nella mia formazione
3. I dischi con i quali, malgrado possano anche non essere dei capolavori, mi trovo in grande affinità
Quando ho compilato faticosamente la lista dei 1000 dischi per un secolo mi sono trovato molte volte in difficoltà. Alcuni dei dischi che amo di più infatti non vi hanno trovato spazio a causa dei criteri su cui si basa il libro. Penso a «Thanks I’ll Eat It Here» di Lowell George, a «Shadows and Light» di Joni Mitchell, «Metal Fatigue» di Allan Holdsworth. Non significa che questi siano però i miei dischi preferiti. Sono solo dischi che ogni volta che li metto su, mi scaldano il cuore. Poi ci sono i Beatles, tutto Zappa, i King Crimson, quasi tutto Miles Davis, tutto (o quasi) Ry Cooder, qualunque crosta di Jimi, la seconda scuola di Vienna, Derek, molta robetta di Zorn, John Fahey in quantità industriali. In passato (come detto) dosi massicce di Scofield, Frisell e affini. Debussy (possiede l’integrale delle sue opere, in edizioni multiple…). La musica per liuto, in particolare eseguita da Hopkinson Smith. Mi fermo…
Quali sono invece i tuoi cinque spartiti indispensabili?.
Accidenti, vado di getto, vediamo cosa esce. Goodbye Pork Pie Hat, Dark Was the Night (Cold Was the Ground)/ Paris Texas, Tomorrow Never Knows, Lush Life, Little Wing
Il Blog viene letto anche da giovani neodiplomati e diplomandi, che consigli ti senti di dare a chi, dopo anni di studio, ha deciso di iniziare la carriera di musicista?
Essere sempre sé stessi. Non imitare nessuno, a meno che non si tratti di una citazione o di un omaggio che però è necessario esplicitare, a volte anche verbalmente. Lottare per l’indipendenza. Rifiutare le strade comode. Puntare all’originalità… a tutti i costi. Amo molto una frase di Jerry Garcia, che diceva: «Vostra nonna deve essere in grado di riconoscervi se vi sente suonare alla radio»
Con chi ti piacerebbe suonare e chi ti piacerebbe suonare? 
Be’ diciamo che un conto sono i sogni, un conto le reali possibilità. Credo che il sogno più grande (ovviamente irrealizzabile) sarebbe quello di poter suonare con Ornette (con cui peraltro condividiamo il giorno di nascita, ma con 34 anni di differenza). La sua musica è stata per me una rivelazione. Sul fronte della fattibilità invece non nego che mi piacerebbe riaprire la collaborazione con Steven Bernstein. Ogni volta che abbiamo suonato insieme ne sono nate pagine piuttosto interessanti. Poi c’è Marc Ribot. Se ne è parlato diverse volte, ma finora non è mai accaduto. Un colpaccio sarebbe quello di essere inserito stabilmente in un progetto di qualche nome grosso del Jazz europeo. Quello aiuterebbe indubbiamente la mia carriera, dandomi probabilmente una maggiore serenità. Ma sono giri chiusissimi, le cui dinamiche mi risultano incomprensibili. Credo che la qualità e l’originalità, benché abitualmente innalzate a mo’ di vessillo da molti artisti, non siano di fatto i fattori discriminanti…
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Continuo a migliorare il mio set in solo. Quest’estate sarò anche a Time In Jazz per una performance legata al volo. Sto escogitando tutta una serie di strategie sonore appositamente per la commissione ricevuta da Paolo Fresu. Poi c’è il fantastico connubio con Massimiliano Milesi, che procede a gonfie vele e che in qualche modo ha generato il progetto ambizioso di elaborazione musicale dell’estetica davisiana degli anni ’70, portato avanti dalla band Molester Smiles. Nel corso dell’anno peraltro usciranno (speriamo) i tre dischi registrati appunto in duo con Milesi. Poi vi è il recentissimo connubio con Francesco Cusa, e anche qui ne sentirete delle belle!
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