Filippo Timi sulla porta della sua camera d’albergo, capelli e barba lunga, mi accoglie sorridente, pieno di parole, con lo sguardo e l’attenzione che saltano da una suggestione all’altra tra il telefono, gli impegni della serata, le piccole frasi che servono a stabilire il contatto. Filippo è aperto, umile, entrare in sintonia con lui è questione di attimi. Si gode il successo con quel residuo spazio di incredulità di chi è consapevole di aver percorso una strada lunga, e guardando avanti sa di avere un percorso ancora tutto da scrivere. Teatro, cinema, libri: Timi racconta per impressioni e lampi il suo presente.
Quando hai deciso di passare dal teatro al cinema?
In realtà io, per mia formazione, ho cercato di fare sempre e solo teatro. Ho lavorato con Giorgio Barberio Corsetti, che ti butta in mezzo al palcoscenico e ti chiede di improvvisare. Ho fatto un teatro che era sempre molto fisico, istintuale, e questo è stato importantissimo per poter passare al cinema: è l’istinto che ti fa esistere, nel momento. C’è stata poi una fase in cui volevo fare cinema perché avevo bisogno di soldi. Ma ho scelto di fare dei film non perché erano cinema, ma perché mi interessavano le storie e i registi che volevano raccontarle. Per esempio, quando ho conosciuto Saverio Costanzo e lui mi ha proposto ‘In memoria di me’, ho deciso di farlo prima di tutto per il bell’incontro artistico che c’era stato tra noi. Ed era un film profondo, che trattava la problematica del divino in maniera complessa. Ma, in ogni caso, io vengo dal teatro, quella è la mia origine.
Hai iniziato con film indipendenti, come ‘In principio erano le mutande’ di Anna Negri. Adesso ti ritrovi alle spalle l’esperienza con Ozpetek (Saturno contro), Giuliano Montaldo (I demoni di san Pietroburgo), Salvatores. E Marco Bellocchio, con ‘Vincere’, in cui interpreti Mussolini.
Perché credi che ti abbia scelto?
Non lo so e non lo voglio sapere! (ride) Forse ha visto in me l’attore giusto. Non so. Cerco sempre di volare basso. E comunque, i divi di una volta non esistono più. Le sceneggiature, i film si collocano a un livello molto più umano. E credo sia meglio così. Anche se mi piacerebbe provare oggi il trasporto totale che si poteva provare per divi come Marilyn Monroe o Marlon Brando, penso che sia anche una fortuna che il divismo non esista più, perché a un certo punto Marlon Brando faceva Marlon Brando, faceva il personaggio che si era creato.
Perché scrivi?
Ho sempre scritto per me, non avrei mai creduto che a qualcuno potessero interessare le mie cose. Pubblicare è stato un caso, ed è dipeso molto dagli incontri che ho fatto. Non credo alla figura dello scrittore solitario, che combatte da solo…E cerco di continuare a scrivere in questo modo, perché credo che più uno scrive di se stesso, più riesce ad essere universale. Tanti amici attori, dopo aver letto Peggio che diventare famoso, mi hanno scritto dicendo: E’ incredibile, succede anche a me…è un libro che parla di tensioni, paure, paranoie che ci sembrano enormi quando le viviamo. Io cerco poi di filtrarle attraverso l’ironia, e spero che questo possa aiutare anche gli altri a sentirsi meno strani.