Milano di questi tempi è in fermento, l’Expo è alle porte e i problemi si susseguono: accanto a padiglioni incompleti troviamo gli scandali, ormai numerosi, sulla sicurezza e sugli appalti. Ed è proprio la vicenda degli appalti controllati dalla ‘ndrangheta che costituisce uno dei filoni narrativi presente in A Milano nessuno è innocente, noir metropolitano di Gianluca Ferraris edito nella collana Calibro 9 e che a noi di Leggere a Colori è piaciuto molto.
Ciao Gianluca e benvenuto su Leggere a Colori. Sei un giornalista e uno scrittore. Esordisci nel 2011 con il noir Gioco Sporco, poi altri due racconti, noir, ora A Milano nessuno è innocente. Cosa rappresenta per te il noir? E come vi rientra la tua professione di giornalista d’attualità?
Da lettore il noir mi è sempre piaciuto, ed è ciò che mi sarebbe sempre piaciuto scrivere se mai mi fossi dato alla narrativa. Ho poi scoperto che è il modo migliore per raccontare alcune cose: il libro ti consente un maggior respiro e una maggiore possibilità di evadere rispetto all’articolo, di cui mi occupo tutti i giorni, o al saggio, e i temi che ho trattato, qui e in altri libri, come l’economia, l’attualità, il calcio… ben si prestano ad entrare nelle dinamiche del noir. Il noir è diventato in questi anni uno degli strumenti principali di denuncia di determinate realtà: ormai non bisogna più inventarsi nulla, perchè la quotidianità ci offre storie noir. E questo è sia un vantaggio che un limite.
A Milano nessuno è innocente è, come ha detto Garlisi durante la presentazione, un’operazione di camuffamento: un “tutto” sotto forma di noir. Vuoi dirci cos’è questo tutto?
L’idea di fondo era quella di raccontare, attraverso la costruzione di un personaggio che avesse in parte i miei occhi, come è percepita Milano adesso, almeno da una fetta della sua popolazione. L’opinione che si fanno molti di questa città è quella di una città che non si è liberata del suo passato, non ci ha fatto ancora i conti (né con la parte bella né con quella brutta) e che non ha ancora capito cosa vuole fare da grande. Per questo è difficile essere ottimisti. Questo era l’humus su cui volevo costruire la storia e, a partire da questo, il riferimento all’Expo è venuto quasi automatico, nonché la questione della ‘ndrangheta: i dialoghi che si trovano nel libro, tra l’altro, sono autentici o di poco adattati.
Il protagonista, Gabriele Sarfatti, è un cronista di nera che vede, nel caso Rossini, la possibilità di ottenere un avanzamento di carriera con il confezionamento di un buon articolo. C’è un pezzo che hai scritto e sul quale hai investito molte speranze?
Sì, è successo nel 2010 quando ho lavorato, con una collega, Ilaria Molinari, a un’inchiesta sulle cliniche truffa per “Economy”. Nell’ambito delle cellule staminali io e Ilaria ci siamo imbattuti in una serie di cliniche che, truffando le famiglie dei malati terminali, promettevano cure miracolose ma non comprovate sul piano scientifico, che venivano pagate diverse migliaia di euro. Per quella vicenda ero stato premiato giornalista europeo dell’anno (assegnato dalla Commissione UE) e da lì è nato il mio primo libro, scritto con Ilaria Molinari, sulle cellule staminali.
Parliamo dei personaggi: oltre al protagonista, Giulia, Marta, Zucchero, Biondi…esistono?
É ovvio che uno scrittore attinge dalle proprie esperienze personali: ciò gli consente di creare personaggi che non siano macchiette, ma siano psicologicamente complessi. Tuttavia non sono “tagliati con l’accetta” e, infatti, se io fossi Gabriele probabilmente morirei a metà del libro. Giulia, ad esempio, è l’incarnazione della ex, con tutti gli aneddoti del caso; compare poco, è un’ombra che sta sulla sfondo, ma non è detto che non ritorni. Zucchero è un patchwork di personaggi incontrati in una fase passata della mia vita: tutti almeno una volta siamo finiti a confidarci con una persona che non fa parte del nostro mondo. E questa è una cosa a cui tengo particolarmente: riconosco infatti nei giornalisti la tendenza negativa a fare gruppo, quasi a costituire una casta; da questo punto di vista è quindi un personaggio volutamente fuori contesto.
Raccontaci il tuo rapporto con Milano.
Milano è ancora, in molte sue parti, una città ospitale e ricca di possibilità. Mi ha messo in condizione di fare quello che sognavo, quindi non la detesto. Tuttavia il percepito che si ha è di una città in caduta libera dal punto di vista dei valori, delle ambizioni, del tessuto sociale. Un tempo non c’era questa sensazione di vuoto assoluto, di competizione continua, il tutto sull’orlo del baratro: c’era la sensazione che le cose potessero andare meglio. Tutti tranne i criminali, ora, combattono per sopravvivere, non per guadagnare un “posto al sole” o per l’autoaffermazione del proprio ego. E questa non è una cosa che ci si deve inventare, ma ci è ogni giorno sotto gli occhi.
Qualche domanda di rito: modus operandi; scrivi con diligenza tutti i giorni oppure segui un flusso d`ispirazione assolutamente libero?
Spesso scrivo annotazioni, butto giù pezzi, registro cose, che poi metto su un file unico e lo lascio maturare. La tecnologia dà questa possibilità e io tengo il bloknotes sempre aperto: ogni tanto ci scrivo qualche appunto.
Come costruisci i tuoi romanzi?
Nel caso di A Milano nessuno è innocente, avevo in mente, all’inizio, tutta un’altra trama e un altro contesto: volevo parlare di crisi. Ho lavorato in verticale sulle due trame, quella di Sarfatti e quella della ‘ndrangheta. Il primo capitolo è nato di getto sull’onda di una delusione amorosa, poi la Novecento mi ha chiesto un racconto e tutto quel faldone di appunti che avevo lo è diventato, per cui sono ripartito da zero, e visto che uno degli argomenti che conosco meglio è la criminalità organizzata al nord, ho iniziato a lavorare su quella che è la parte relativa alla ‘ndrangheta. In generale è raro che uno parta avendo già tutta la trama in testa: io, per esempio, avevo un’idea dello svolgimento fino a tre quarti, e intanto scrivevo, e avevo anche idea del fatto che il finale dovesse essere a sorpresa (ed è ciò che viene detto in tutti i manuali di scrittura: dare al lettore finte piste, inserire dei segnali che il protagonista non coglie, ma che, una volta svelato il colpevole): ovvero far ricadere la colpa su qualcuno di insospettabile a lui più vicino.
Quanto è importante che lo scrittore sappia anche odiare alcuni suoi personaggi? Ci riesci?
Odiarlo del tutto mai, perché presentare personaggi monosfacettati è sempre pericoloso; per completezza di narrazione devi dar loro dei tratti umani con il quale il pubblico dei lettori si possa identificare.
Uno scrittore che è anche un tuo modello. Dicci cosa hai da lui attinto.
Adoro Scerbanenco e Carlotto (quest’ultimo scrive libri che sono quasi dei trattati di sociologia). McBain e Chandler per quel che riguarda l’estero. Sarfatti è, per alcuni versi, un po’ un personaggio chandleriano.
Dopo la pubblicazione inizia un’altra importante fase comune a ogni libro: quella della promozione, dalla penna dello scrittore alla libreria e infineai lettori. Col senno di poi, cambieresti qualcosa nel tuo lavoro?
No, di questo no, neanche una virgola.
Tornando a Expo, qual’è la tua opinione su questo evento?
Sono sicuro che alla fine ci metteremo una pezza e sarà una bellissima vetrina che porterà turismo e indotto. Abbiamo fatto bene a farlo. Ma quello che mi fa arrabbiare è che da noi le cose vanno sempre nello stesso modo: quando Milano ha vinto Expo, il progetto con cui si era presentato e con il quale ha vinto, appunto, era totalmente diverso da quello che si realizzerà. Le vie dell’acqua, vendute come l’Amsterdam italiana, non le abbiamo, il museo di arte contemporanea non l’abbiamo, e così via. Il problema è che, una volta finito Expo, a Milano non rimarrà nulla.