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Giovanni, come nasce la tua passione per Tolkien?
Credo che sia stato uno di quei miracolosi incontri che la vita riserva. Un po’ come quando ci s’innamora a prima vista. La cosa buffa è che circa un anno prima che mi succedesse avevo iniziato a leggere Lo Hobbit, ma dopo una trentina di pagine l’avevo messo da parte, perché non mi catturava, e riuscivo a vederne solo gli aspetti più di superficie, quelli che lo caratterizzano (anche) come un bellissimo libro per ragazzi. In seguito mi sarei ricreduto. Comunque, il fatto è che un giorno, in biblioteca, m’imbattei per “caso” nel Signore degli Anelli – che naturalmente conoscevo di fama, anche perché da ragazzo facevo spesso dei giochi di ruolo di ambientazione fantasy –; cominciai a leggerlo con una certa “diffidenza”, sia pur accompagnata dal velato timore che nascondesse qualcosa di molto importante e potenzialmente decisivo, per me. Dopo circa trecento pagine, all’altezza della notte passata dagli Hobbit a Brea, fui folgorato dalla possibilità di scrivere un libro nel quale confrontassi temi e passi delle opere di Tolkien con motivi consonanti dei classici, a partire dai Greci, passando per i Latini, Dante, il Rinascimento, il Romanticismo, il Realismo e il Neorealismo. Non che avessi questa “mappa” chiara in testa fin dall’inizio, certo, ma l’intuizione di fondo era nitida. Da lì sarebbe nato il mio primo saggio, Letteratura del fantastico – I Giardini di Lorien (Spazio Tre, 2004), e sempre su quell’onda letterario-comparativa sarebbe poi venuto Nuova letteratura fantasy (Sottovoce, 2010), dove il confronto era con autori della contemporaneità. Scopo comune alle due opere: evidenziare i tratti del fantasy tolkieniano che dimostrano come il suo mondo non sia assolutamente “diverso” dal nostro, perché è fatto della stessa sostanza energetico-emotiva, espressa attraverso un linguaggio e delle situazioni inequivocabilmente mitici. Su questa base, sono passato alle riflessioni più “ardite” di Tolkien e Bach. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei fiori (Galaad, 2011), dove il confronto – su basi di psicologia junghiana, fisica quantistica e spiritualità – è tra i luoghi, i personaggi e gli oggetti della Terra di Mezzo e i tipi psicologici della floriterapia di Edward Bach, lo scopritore dei Fiori di Bach, e quindi ai temi filosofici di fondo del mio contributo alla raccolta di saggi (da me curata e tradotta) Tolkien. La Luce e l’Ombra (Senzapatria, 2011).
L’opera di Tolkien ha avuto, almeno in Italia, differenti riletture “politiche”, da destra come da sinistra. Secondo te queste interpretazioni hanno comunque un senso nella comprensione dei suoi lavori? Hanno tolto o aggiunto qualcosa?Aggiunto sicuramente no, anzi. Le interpretazioni “destrorse” hanno portato a clamorosi fraintendimenti, e a caratterizzazioni di questo Grande della letteratura universale come autore improntato a una visione del mondo reazionaria – che non ha alcun fondamento filologico. Al contrario, certe “mode” affermatesi” al tempo della rivoluzione hippie in America l’hanno dipinto come “alfiere” del pensiero libertario. Tolkien non era niente di tutto questo. Se di “reazione” in lui si può parlare, ciò vale per il rifiuto di quanto, nella modernità, vi è di anti-umano, della macchina e della tecnologia in quanto strumenti di distruzione della natura e della vocazione più profonda dell’uomo, che è e resta un tesoro di sostanza spirituale. Se di “liberazione” in lui si può (e in effetti, si deve) parlare, questo è vero per la raggiunta pace e realizzazione che derivano dall’evasione dalla prigione di una vita sempre uguale e annichilente, che la sua letteratura fantastica riesce a produrre attraverso il meccanismo di Evasione-Ristoro-Consolazione, ovvero i tre momenti della creazione (e credenza) secondaria che le storie fantastiche ben scritte sanno innescare: Tolkien lo spiega molto bene nel suo saggio Sulle fiabe, dove sottolinea come il fine ultimo di questo processo sia il recupero di una visione della vita non più velata dal tetro grigiore della quotidianità.
Hai pubblicato con diversi editori. Quali sono stati i motivi che ti hanno portato a collaborare con loro?Circostanze legate a collaborazioni con professori, giornalisti e scrittori culturalmente avvertiti, ai quali sono affezionato. E, naturalmente, il fatto che questi editori hanno creduto nei miei progetti. Sono molto grato a tutti coloro che mi hanno aiutato perché hanno creduto in me come persona e come autore. In generale, poi, mi ha giovato la mia attività in rete, attraverso il blog collettivo “La Poesia e lo Spirito” (http://lapoesiaelospirito.wordpress.com) e il mio blog personale (http://giovanniag.wordpress.com), oltre che su “Nazione Indiana” (http://www.nazioneindiana.com), sul sito di viaggi “AlibiOnline” (http://www.alibionline.it) e sul Progetto Letterario Internazionale di Marco Milani (http://www.domist.net), e la presenza su Facebook, LinkedIn, Netlog e Youtube, che mi ha permesso di farmi conoscere come autore.
Hai una grande esperienza anche con l’editoria estera. Trovi che esistano delle differenze, rispetto al panorama italiano, in relazione alle scelte delle opere e al rapporto con gli autori?Dipende dai paesi. Credo che nell’universo anglofono, e in particolare nel mondo americano, l’elemento fondamentale di distinzione sia la prevalenza degli agenti letterari, nel rapporto tra autori ed editori. È difficile che un singolo autore collochi una sua opera rivolgendosi direttamente a una casa editrice. Nel mondo di lingua spagnola e francese, per l’impressione che ne ho tratta, mi pare che ci sia una particolare sensibilità verso le avanguardie e le novità stilistiche apportate dagli scrittori giovani. E lo stesso credo si possa dire del mercato tedesco. In generale, tutti questi paesi beneficiano del fatto che, in media, hanno molti più lettori dell’Italia. Purtroppo, questo condiziona le scelte degli editori italiani, che cercano di non correre rischi, puntando su nomi stranieri o su autori italiani già noti. Credo che sia necessario avere più coraggio, un po’ come succede in certi grandi club calcistici, che, puntando sul settore giovanile (il “vivaio”), sono arrivati a creare squadre fortissime (come il Barcellona, con la sua cantera, o l’Ajax di qualche anno fa, con la sua brillante scuola-calcio). In questo potranno svolgere un ruolo fondamentale le tecnologie, e in particolare gli e-book, che possono permettere di abbattere molte spese e ampliare il bacino di lettori, oltretutto rispettando l’ambiente. Senza, naturalmente, dimenticare la bellezza del libro cartaceo, di cui sono anch’io un fan. Comunque, esistono piccoli editori che hanno questo coraggio, e sanno investire responsabilmente e promuovere novità. Galaad Edizioni, di Paola Vagnozzi e Paolo Ruggieri, ne è un esempio, così come Senzapatria Editore, di Carlo Cannella. E mi piace ricordare anche Kipple Officina Libraria, la casa editrice ligure di Luca “Kremo” Baroncinij, la cui collana “Avatar” (diretta, oltre che da Kremo, da Francesco Verso e Sandro Battisti) oggi è il principale punto di riferimento del movimento letterario connettivista (di cui faccio parte), una delle pochissime avanguardie italiane attuali – se non l’unica –, nata come corrente fantascientifica ma oggi pronta ad affacciarsi sul mondo editoriale come letteratura tout court, perché portatrice di una visione del mondo imbevuta di archetipi e miti interpretati in chiave moderna, attraverso il prisma delle tecnologie, delle esperienze virtuali e dell’interazione uomo-macchina.
Tu sei anche traduttore. Come viene visto e considerato questo ruolo dall’editoria straniera e da quella italiana?Dipende sempre dalle persone con cui lavori (e questo, del resto, in tutti i campi). C’è chi non rispetta questo mestiere, sottopagandolo o non pagandolo affatto, e c’è invece chi lo remunera congruamente e lo incoraggia e supporta attraverso un dialogo costruttivo. Naturalmente sto parlando dell’Italia, dove ho avuto la positiva esperienza di tradurre dall’inglese e dal francese i saggi della raccolta Tolkien. La Luce e l’Ombra per Senzapatria; poi, per lo stesso editore, sto ultimando, insieme a Marino Magliani, la revisione finale della nostra traduzione di Bolaño salvaje, raccolta di saggi di autori internazionali sul geniale scrittore cileno Roberto Bolaño, pubblicata in Spagna da Candaya e in prossima uscita in Italia. Per quanto riguarda l’estero, i miei contatti sono stati finora soprattutto con agenzie di traduzione tecnica (lavoro anche a traduzioni legali, commerciali e turistiche), che si sono dimostrati estremamente precisi e rispettosi del mio lavoro. Però intrattengo anche rapporti con qualche autore straniero, di cui cerco di promuovere le opere in Italia, come lo scrittore cubano Amir Valle, autore di noir e saggi illuminanti sulla realtà della sua isola, e con qualche agenzia letteraria e casa editrice del mondo spagnolo. Tornando all’Italia, mi piace infine ricordare la mia collaborazione con il blog di traduzione (http://www.traduzione-testi.com/traduzioni/agenzie-di-traduzione/il-blog-di-easy-languages-compie-un-anno.html) legato all’agenzia Easy Languages. Le lingue e i viaggi sono, insiema alla letteratura, le altre mie grandi passioni e le mie principali fonti d’ispirazione (spero che possa presto uscire un mio mémoir di viaggi in Europa).
La saggistica, per motivi direi strutturali alla creazione dell’opera stessa, presenta una produzione ridotta rispetto alla narrativa, almeno in Italia. Che cosa ti senti di consigliare a chi ha un saggio nel cassetto e vuole tentare la strada della pubblicazione?È sempre difficile dare consigli, in una professione che segue logiche personalissime. Ogni esperienza può essere molto diverse dalle altre. Quel che conta è credere nel proprio lavoro e non scoraggiarsi mai. Proporre le opere agli editori a volte può essere frustrante, agli inizi, perché spesso le risposte non arrivano e, se arrivano, sono negative. Questo, del resto, vale anche per la narrativa. Però i saggi presentano una particolarità. Un taglio di analisi nuovo e, in qualche modo, spiazzante, può arrivare a colpire un editore per le sue potenzialità d’impatto, per la forza di introdurre o incoraggiare una nuova idea. Più difficile è scrivere una storia di fiction che abbia questa caratteristica, unita a uno stile convincente e appassionante. Non che scrivere saggi sia necessariamente più facile. Ma credo che sia un’ottima scuola per arrivare a prendere consapevolezza dei propri mezzi tecnici e affinarli. Certo, non ci vuol fretta, e serve grande umiltà. Attenzione, non mancanza di coscienza del proprio talento. Ma il talento serve a ben poco, se non si lavora quotidianamente e con impegno serio. La scrittura, presa come hobby, ben difficilmente porta a qualcosa. D’altronde, presa solo come un lavoro meccanico, perderebbe la sua anima. Bisogna ricordarsi – e questo anche se si scrive saggistica – che si tratta prima di tutto di arte, perché ha a che fare con le dinamiche interiori della nostra natura, e con esse interagisce. Poi, nella fase di revisione, diventa una raffinatissima opera di artigianato, e soprattutto uno splendido mestiere. Per me, il più bello del mondo.
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