E’ finita un’epoca ma rimangono gli effetti devastanti, causati da Silvio Berlusconi, dal suo gigantesco conflitto di interesse, dalle sue norme salva-corrotti, dagli atteggiamenti (parole ed opere) della sua classe dirigente. Come eliminare adesso i condizionamenti che ne derivano sulla società e intraprendere un cammino opposto, di solidarietà, trasparenza e onestà? In effetti è probabilmente finito Berlusconi come leader, ma non hanno cessato di produrre i loro effetti tossici le macerie lasciate dal berlusconismo in quanto ideologia di massa. Capiremo col tempo quanto è cambiata, nell’Italia degli ultimi 20 anni, l’etica pubblica, come è stata modificata in peggio la soglia stessa della morale collettiva. Il berlusconismo, innestandosi in un’antica debolezza dell’Italia unita (poco senso dello Stato, familismo, persistenza delle reti clientelari), ha abbassato ancora di più le autodifese contro la corruzione, resi leciti comportamenti prima bene o male isolati dal giudizio dell’opinione pubblica, favorito il dilagare nel Paese non solo della grande ma anche della piccola corruzione. La stampa locale è fitta di esempi: il professore che vende gli esami magari per sesso, la segretaria di una scuola media che saccheggia la cassa scolastica credendo di farla franca, l’imprenditore che truffa il fisco e paga in nero i dipendenti, il politico locale che intasca la bustarella per il piccolo appalto, l’affittacamere che sfrutta gli immigrati, il ristoratore che offre la cena ai militi della guardia di finanza purché chiudano un occhio ... E’ un panorama desolante, ma ancora più desolante è che un tempo questi fatti generavano, venendo alla luce, la condanna della collettività, mentre oggi incontrano una specie di tolleranza, che qualche volta scade in comprensione e persino in complicità occulta. “Il mondo è dei furbi”, si dice. “Beato lui che c’è riuscito, magari potessi farlo anche io”. Nessuno pensa che ogni reato di questo tipo (perché si tratta di reati, penalmente rilevanti) danneggia in realtà la collettività stessa, e quindi grava sulle tasche di noi tutti. Come se ne esce, Lei mi domanda. Rispondo: con un’azione, necessariamente lunga e faticosa, di ripristino della moralità pubblica. Che ha due componenti: una penale (i corrotti, a tutti i livelli, devono essere colpiti; il delitto non deve pagare); la seconda culturale, di dissuasione etica: e qui c’è moltissimo da lavorare. Bisogna innanzitutto bonificare la politica, che del fenomeno costituisce il campo principale. E lo si può fare attraverso l’azione virtuosa dei gruppi dirigenti, selezionandoli democraticamente e non più cooptandoli (legge elettorale nuova, dunque), e poi dotando i partiti e le associazioni di precisi codici etici. Il Pd fu il primo partito italiano a scrivere un suo codice etico. Non sempre è stato capace di applicarlo rigorosamente. Ma la strada è quella. Si deve e si può fare di più.
Inoltre si deve tenere il più possibile la politica lontana dagli affari: dunque incompatibilità di funzioni, rispetto delle clausole di ineleggibilità, una legislazione seria sul conflitto di interessi, più trasparenza nel finanziamento dei partiti, verifiche vere sui bilanci dei partiti ecc.
Quali sono le cause che hanno determinato il fallimento della riforma dell’amministrazione (riforma Brunetta)? Potremmo chiederci anche, più in generale, come mai dopo oltre 30 anni di politiche pubbliche per la riforma amministrativa, siamo ancora quasi fermi al punto zero. Io ho seguito molto, da studioso delle istituzioni amministrative e politiche, questi tentativi di riforma. Cominciò Massimo Severo Giannini, nel 1979-80, da ministro di un governo Cossiga. Giannini era il più grande esperto del tema, non solo in Italia. Presentò un suo puntuale rapporto in Parlamento dove c’erano già tutte le linee base di una riforma efficace. Sperammo tutti che fosse arrivata la volta buona. Ma alla prima crisetta di governo Giannini fu scaricato e sostituito da un oscuro ministro democristiano, tale Darida. La riforma Giannini fu seppellita negli archivi. Ci tentò di nuovo il primo allievo di Giannini, Sabino Cassese, nel 1993-94 (governo Ciampi). Fu molto concreto e produsse un programma molto interessante, basato sul principio che l’amministrazione non deve funzionare per i suoi dirigenti e dipendenti ma piuttosto per i cittadini. Anche in quel caso però, con le elezioni del 1994 e la vittoria di Berlusconi, la riforma scomparve nei cassetti. Bassanini ha avuto il merito di riprenderne il filo nel 1996-2003. Ha molto legiferato, introducendo semplificazioni e riorganizzazioni certamente utili. Riprendendo la linea del 1993 (decreto legislativo sulla contrattualizzazione del pubblico impiego) ha cercato di assimilare i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici a quelli privati, con risultati per la verità contraddittori. In generale la struttura burocratica ha resistito all’innovazione, anche se certamente l’amministrazione ha cominciato a cambiare pelle. Però il cambiamento non ha avuto un segno univoco. E’ successo un po’ quello che nella storia amministrativa italiana è una costante: quando si introduce una novità, questa non si sostituisce all’assetto precedente ma va a convivervi, se possibile complicando il modello burocratico. Dopo Bassanini il vecchio schema burocratico centralista di derivazione ottocentesca (quello delle direzioni generali, per intenderci, ereditato da Cavour) è sopravvissuto, ma convivendo con forme organizzative e contrattuali nuove. Dal che un di più di complicazione. Si aggiunga che lo spoils system, cui Bassanini aveva dato una certa attuazione, ha ricevuto coi ministri di centrodestra suoi successori una intensificazione e un accrescimento tali da privare definitivamente la dirigenza amministrativa di quel poco di autonomia dalla politica che ancora conservava. E nella prossimità troppo accentuata tra amministrazione e politica si annida sempre il germe della corruzione.La riforma Brunetta è stato un’incompiuta. Molte promesse mirabolanti all’inizio, pochi fatti, anzi quasi nessuno, alla fine. Certi suoi atteggiamenti aggressivi gli hanno reso ancora più difficile il lavoro. Perché una riforma amministrativa – ecco il punto – non può venire da fuori, frutto di un’élite estranea all’amministrazione ma deve coinvolgere gli oltre 3 milioni di donne e uomini che negli uffici ci vivono e ci lavorano. Deve convincerli e conquistarli. E che non è affatto detto che non possano essere loro la punta di diamante della riforma, se ne saranno convinti. Vede, l’amministrazione non è un optional. Non esiste Stato moderno senza un saldo apparato amministrativo. Ma come distribuire sul territorio questo apparato, a quali livelli e enti pubblici attribuirne la responsabilità, come farlo lavorare, con che metodi, obiettivi, criteri di valutazione, retribuzioni, questo è tutta materia da discutere. E’ molto importante – credo – che ciascuno faccia la sua parte. Nel mio sistema ideale politica e amministrazione collaborano. La politica stabilisce obiettivi e scenari generali, mettendo a disposizione le risorse. L’amministrazione, dotata di una sua reale autonomia e responsabilità, garantisce i risultati. Per far funzionare questo sistema ideale ci vogliono però due condizioni: una politica capace di capire i problemi dell’amministrazione (mentre spesso i ministri non sanno cosa è l’amministrazione) e una amministrazione realmente indipendente (quindi prima di tutto fuori dallo spoils system) capace di tradurre in attività amministrativa gli obiettivi della politica. L’Italia, oltre alla crisi economica che speriamo possa essere superata dall’impegno del governo Monti, presenta un tasso allarmante di corruzione. Come affrontare questo problema? Sì, siamo al top delle classifiche mondiali dei paesi corrotti, o giù di lì. Con effetti gravissimi sulla stessa economia, perché la corruzione scoraggia gli investitori. La prima cosa da fare è eliminare quello che è l’ambiente della corruzione amministrativa, e cioè la lentezza e macchinosità delle procedure, la poca trasparenza dell’amministrazione, il dominio incontrollato delle burocrazie abituate a ragionare sulla carta. La corruzione prospera se l’azione amministrativa è lenta, farraginosa, priva di principi certi e conosciuti. Se io, funzionario, blocco tutte le pratiche poi posso dire a te, imprenditore che stai sulle spese, “se mi paghi metto la tua pratica in cima alla pila da esaminare”. Quindi dobbiamo imporre verifiche di tempi e costi, standard medi, ispezioni, monitoraggio dell’attività degli uffici, specie di quelli a contatto con i grandi interessi. La seconda cosa da fare è ripristinare le ispezioni. Questa è una lunga storia, che affonda negli anni della prima Repubblica. Noi avevamo, sia pure non tanto come la Francia, dei corpi ispettivi adeguati, capaci di intervenire tempestivamente, prima del giudice penale e talvolta anche in sostituzione dell’inchiesta giudiziaria, al primo sentore di corruzione. Ebbene, dagli anni Settanta in poi, li abbiamo sistematicamente demoliti. Oggi li troviamo talvolta sulla carta, ma la loro composizione non è adeguata, perché i loro funzionari sono prevalentemente dei laureati in giurisprudenza, abituati a un controllo formale sull’applicazione delle norme, mentre dovremmo dotarci di esperti nelle materie sulle quali insiste concretamente l’attività amministrativa. E questo è il corollario che ne deriva: ci sono troppi avvocati, nei nostri uffici pubblici, e troppo pochi ingegneri, tecnici, aziendalisti, economisti, esperti del mercato ecc. Persino le amministrazioni tecniche di una volta, come erano i lavori pubblici, sono piene di laureati in legge. Sicché se io, Stato, devo controllare un grande appalto su un’opera mi manca la competenza per poter entrare nel merito del capitolato e mi devo affidare a una expertise esterna non sempre efficace (mentre i grandi appaltatori sono dotati del fior fiore dei tecnici del loro settore e sono in grado di darmi scacco matto).Ci vuole insomma più competenza tecnica specifica, più esperti a difesa dello Stato. E poi, naturalmente, più attenzione e coraggio nel colpire i corrotti. L’idea balzana che per allontanare un impiegato infedele dal suo posto occorra una sentenza del giudice penale, magari di terzo grado, mi pare inaccettabile. Si prenda l’amministrazione le sue responsabilità, faccia la sua brava inchiesta e poi proceda, coi mezzi che ha, senza attendere il giudice. E i sindacati evitino di difendere (come talvolta hanno fatto) oltre la stessa decenza il dipendente infedele.Alcuni studiosi sottolineano il rischio di penetrazione dell’economia criminale, la quale rappresenta oggi l’unica organizzazione illegale che detiene liquidità. L’attuale Governo come può affrontare questa emergenza?Esistono leggi, anche recenti, sul contrasto alla grande criminalità in campo economico. Vanno applicate con rigore. Ma soprattutto va perfezionata la rete degli avvisatori, cioè quell’azione – già oggi in atto – per segnalare tempestivamente la penetrazione criminale e contrastarla sul nascere. Più che leggi nuove, mi pare occorra molta buona amministrazione. E risorse adeguate. Uno dei punti critici del precedente governo è stato che, nella politica dei tagli lineari, si è lasciata la polizia senza benzina per le macchine e con organici incompleti.La trasparenza è indicata come fattore indispensabile per contrastare le organizzazioni che basano il loro successo sulle bugie (esempio il crollo dei mercati finanziari). Quando è importante questo fattore e come può incidere sulla gestione delle organizzazioni e della pubblica amministrazione in particolare? La trasparenza amministrativa è la condizione fondamentale perché i cittadini possano controllare l’amministrazione, e dunque, democraticamente, la stessa attività del governo. Dalle mie parti, in Sardegna, c’è un detto popolare che suona più o meno così: “la casa della giustizia deve essere di vetro”. Se la casa della giustizia non è di vetro, se il cittadino non vede da fuori cosa vi accade dentro, allora si sentirà lontano e magari sarà portato a cercare altrove le sue risposte alla domanda di giustizia. La stessa metafora potremmo impiegarla per l’amministrazione. Grazie specialmente all’azione di Bassanini molto si è fatto su questo terreno (il responsabile del procedimento, ad esempio, è stata una buona riforma), ma non abbastanza. Naturalmente una amministrazione più trasparente è anche più responsabile di quello che fa (quindi non può essere etero-diretta dalla politica sin nei minimi movimenti) ed è autoconsapevole del suo ruolo.
Profitto di questa ultima battuta per introdurre un cenno alla dirigenza: noi abbiamo avuto in Italia, dal 1972 in poi quando fu istituita la dirigenza, un eccesso di dirigenti, con effetti perversi sull’esercizio stesso della funzione (come nell’esercito dei ragazzi della via Pal, un romanzo che leggevamo da ragazzini: tutti generali, un solo soldato semplice). Dobbiamo restituire alla dirigenza prestigio, autonomia dalla politica, responsabilità. Ciò vale per i ministeri ma anche per le regioni e gli enti locali in genere. Una buona dirigenza amministrativa, autonoma dalla politica, competente e preparata, capace di assumersi le sue responsabilità è la condizione fondamentale senza la quale non c’è riforma amministrativa che tenga.