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Intervista a Livia Ferracchiati – Una giovane promessa della regia italiana di Nausica Hanz

Creato il 18 gennaio 2016 da Wsf

Livia Ferracchiati

Livia Ferracchiati

Mi ricordo ancora il giorno che ho conosciuto Livia, ci trovavamo a Bologna, all’Università e aspettavamo che il prof arrivasse a lezione. Faceva freddo e io, che se ho qualcuno seduto di fianco, non riesco proprio a stare zitta, mi misi a farle domande, a chiederle cosa l’attirava del teatro e cosa voleva fare in futuro. Parlammo e senza esitazione Livia rispose che voleva fare la regista, creare e inventare scene, poi mi parlò dei suoi miti e di come avrebbe voluto fare le cose…
…dopo qualche anno in un articolo di teatro ho trovato il suo nome associato alla parola regista e lì ho capito che il suo sogno si era realizzato.
Ora non siamo più all’università, non siamo più sedute una di fianco all’altra, ma la curiosità e le parole non hanno confini e quindi ciao Livia e ben ritrovata.

1. Per iniziare parlaci un po’ di te, del tuo background e dei tuoi interessi.
Sono diplomata in regia teatrale presso la Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano e mi sono laureata in drammaturgia all’università “La Sapienza” di Roma, nella facoltà di Lettere.

2. Perché hai deciso di fare la regista?
Intendi: di questi tempi? “Già non c’è lavoro, anche questo? E non sei nemmeno di famiglia agiata!”
Scherzi a parte, posso rispondere articolando una risposta complessa, oppure posso dire la verità: perché mi diverte farlo, provo piacere, mi preserva dalla noia e dalla routine.
Ho dichiarato di voler fare questo mestiere a 12 anni, era il mio modo di giocare. Mi ricordo che ho tentato di mettere in piedi uno spettacolo a quell’età, ma l’esperimento fallì perché i genitori dei miei amici non portavano i figli alle prove.
Il passo avanti rispetto ad allora è che adesso gli attori si presentano alle prove autonomamente.
Fare la regia di uno spettacolo ti permette di creare spazi, atmosfere, situazioni, di esplorare le dinamiche tra i personaggi, in sostanza ti permette di indagare, attraverso segmenti di finzione, i meccanismi della vita.

3. Raccontaci dei tuoi lavori. Di che cosa parlano, che tematiche trattano, chi sono i suoi protagonisti.
Ogni volta sono lavori diversi, anche dal punto di vista dei linguaggi usati. Questo perché parto dalla volontà di trattare un tema, non da un’idea di spettacolo precisa o da un testo. Ad esempio, da un punto di vista puramente registico, è accattivante prendere un classico e interpretarlo attraverso la propria chiave personale e, quando mi capiterà, mi cimenterò volentieri in un esperimento del genere, ma, tendenzialmente, non è quello il teatro che voglio fare. Per me si parte da un tema che, per qualche ragione, vale la pena di trattare, lo si studia, si fa ricerca, si leggono libri, saggi, si vedono film, si fanno interviste a persone reali che sono coinvolte nell’argomento e poi, capendo quanto materiale c’è, si capisce se questo dà vita ad uno spettacolo, a due , a tre, forse a quattro. Non è importante se la formula è commerciale o meno, se è più vendibile un prodotto a due attori e di un’ora, piuttosto che uno a sette attori di tre ore. Credo si debba fare quel che serve al “racconto”.
Le tematiche possono quindi variare, ma ho notato che mi coinvolgono spesso quelle che sono oggetto di mistificazioni o poco conosciute: un esempio è il tema dell’identità di genere, sto da lavorando da tre anni ad una “Trilogia sulla transessualità”. Il primo capitolo, “Peter Pan guarda sotto le gonne”, dopo l’anteprima al Ternifestival, debutterà in forma completa a Milano a Campo Teatrale il 26 gennaio prossimo.

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(dal Peter Pan guarda sotto le gonne. In scena Alice Raffaelli nella parte di Peter Pan. Foto di Luna Cesari)

4. I titoli delle tue opere sono molto emblematici e simpatici, penso ad esempio a Ti auguro un fidanzato come Nanni Moretti o Sex Workers, come ti sono venuti in mente?
I titoli dei miei spettacoli spesso sono lunghi, è vero. D’altronde, non ho mai avuto il dono della sintesi. Sex Workers è uno spettacolo sul concetto di vendere volontariamente e consapevolmente il proprio corpo. Il titolo si rifà alla dicitura voluta dalle organizzazioni delle/i sex workers (ossia le lavoratrici e i lavoratori del sesso) che si sono battuti per eliminare dal linguaggio comune i termini più stigmatizzanti.
Ti auguro un fidanzato come Nanni Moretti invece è legato al protagonista maschile del testo, IO (la protagonista femminile è TU), il quale, per certi comportamenti e certe ossessioni, ricorda alcuni tratti del Michele Apicella dei primi film di Nanni Moretti (Io sono un autarchico, Ecce bombo, Bianca). Nanni Moretti è un autore cinematografico che stimo molto.
Posso dire che questo spettacolo sarà al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 16 al 23 marzo 2016? Nel caso qualcuno volesse venire a vederlo, intendo.

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(dal Peter Pan guarda sotto le gonne Linda Caridi nella parte di Wendy. Foto di Luna Cesari)

5. Ti va di parlarmi di un tuo spettacolo? Quale ad esempio senti più vicino a te in questo momento?
Credo che il lavoro più vicino al momento sia “Peter Pan guarda sotto le gonne”, lo spettacolo che stiamo portando ad una forma più o meno definitiva proprio in questi mesi. È la storia di un bambino di 11 anni e mezzo, nato in un corpo femminile che non sente come suo e che lo mette fortemente a disagio. In sostanza si parla di bambini transgender, un argomento molto delicato e poco conosciuto. Non si riflette mai sul fatto che le persone transgender e transessuali non sono sempre state degli adulti. Il parallelo è con il romanzo di Barrie “Peter Pan nei giardini di Kensington”, dove Peter vola via dalla finestra dopo aver sentito parlare i propri genitori del suo futuro e si rifugia nei Giardini di Kensington. Non sentendosi però pienamente parte della comunità degli uccelli, né di quella dei bambini “veri”, si rivolge al governatore dei giardini: il Corvo Salomone. Sarà lui a spiegargli come la sua natura sia quella di “mezzo e mezzo”: non esattamente un uccello, ma neppure completamente un bambino. La natura di “mezzo e mezzo” è diventata per noi una questione di identità di genere, facendo riferimento proprio alla dicotomia tra mente e corpo.

6. Quando metti in scena uno spettacolo qual’è la tua relazione con gli attori e in base a cosa li scegli?
Dipende dal contesto in cui si lavora. Ad esempio, per quanto riguarda gli interpreti della compagnia che ho appena fondato, The Baby Walk, credo non ci sia stata una scelta a senso unico, è stato piuttosto uno scegliersi reciproco per affinità.
Certamente c’è di mezzo il talento, non a caso attrici e danzatori della compagnia, così come gli altri componenti, sono molto promettenti, ma oltre alla bravura, per creare qualcosa deve avere in comune il modo di guardare al teatro e alla realtà. A riprova di questo basta vedere il logo di compagnia che abbiamo scelto: un quadrato composto da 9 tasselli, ognuno di questi raccoglie un particolare del volto di un componente della compagnia, formando una sorta di decima faccia.
Per concludere, quando posso evitarlo, cerco di non lavorare con un attore che lo fa per la paga o per una qualche prospettiva di prestigio, mi interessa che ci sia un’adesione intellettuale ed emotiva. Non è sempre possibile lavorare così, ma quando succede ne guadagna la qualità.

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(Logo della compagnia The Baby Walk)

7. Che importanza hanno le musiche e la scenografia nei tuoi lavori?
In alcuni casi, un regista può anche non dare nessuna indicazione ad un attore se lo spazio è ben ideato, perché ha già in sé delle regole. Intuire uno spazio “giusto”, a volte, significa portarsi a casa il progetto.
Purtroppo, molto spesso, le produzioni sono così povere che la scenografia è l’elemento dello spettacolo che ne risente di più. Non amo lo spazio “pieno”, mi piace ci sia del vuoto sul palco, ma spesso la creazione di un’atmosfera è limitata a livello estetico proprio dalla mancanza di mezzi. C’è chi dà più importanza all’attore sul palco dando poco rilievo alle scene e, viceversa, chi dà molta importanza alle scene mettendo l’attore a servizio o alla pari di queste, per me è importante un equilibrio. L’attore è vivo, ma deve muoversi in uno spazio ben delineato. Quindi per fronteggiare l’approssimazione data dalla mancanza di soldi non rimane che farsi venire delle buone idee “fattibili”, come si dice.
Per quanto riguarda le musiche, io ne faccio un cospicuo utilizzo quando serve. Hanno quindi un ruolo fondamentale nel risultato dello spettacolo, ma per me lo hanno anche e sopratutto nella fase creativa. Una musica può suggerire o chiarire uno snodo drammaturgico, dettare il ritmo di una scena o chiarire un’atmosfera, addirittura esplicitare il mood di un personaggio.
Quella stessa musica poi può anche non comparire mai nello spettacolo, ma è stata uno strumento per comporlo e schiudere l’immaginario.

8. Durante la tua carriera hai vinto dei premi, hai avuto dei riconoscimenti? E cosa hai provato in quel momento?
Non amo molto i premi. Spesso, per forza di cose, presentano delle modalità che non sono consone allo sviluppo di una ricerca teatrale. In più, un prodotto artistico è un qualcosa che ogni fruitore vive attraverso la sua specifica intimità, credo non esista un metodo oggettivo e sempre valido nella scelta del vincitore, senza contare che, va detto, non sempre le scelte sono in buona fede. È così dai secoli dei secoli, non è di certo una scoperta recente. È chiaro comunque che un premio fa sempre piacere e che le giovani compagnie, la mia compresa, sono costrette a partecipare continuamente a bandi e concorsi. Spesso è l’unica via per sperare di trovare fondi e spazi e date. Forse però, più che dei premi, ci sarebbe bisogno che teatri e produttori aprissero alle nuove compagnie, rischiando e producendole, magari andando a vedere davvero gli spettacoli nei teatri off e appuntandosi i nomi dei gruppi emergenti.
Senza dare per scontato che gli sconosciuti non siano validi e i suggeriti sì.

9. Puoi dirci qualcosa sui tuoi progetti futuri?
Attualmente sto lavorando principalmente a quattro progetti. Il primo è sulla mia città d’origine: Todi. È meno ovvio partire da un luogo per raccontare una storia, quindi, se vogliamo, anche più complesso. Vorrei raccontare la realtà di una cittadina di provincia e indagare come, se è vero, la vita delle persone venga limitata dalla paura del giudizio degli altri. Questa paura porta in alcuni casi all’ignoranza, alla chiusura verso l’altro. Una storia di una cittadina in particolare, ma, in questo momento, credo riguardi l’Italia come il mondo intero.
Il secondo progetto è un testo scritto dalla drammaturga con cui collaboro da qualche anno, Greta Cappelletti, che è arrivata in finale al Premio Tondelli. Il testo si intitola “Camera oscura” ed è una graffiante riscrittura della Fedra, in questo caso io curerò la regia.
Il terzo progetto è il secondo capitolo della “Trilogia sulla transessualità” e sarà firmato dai The Baby Walk. Si intitola: “Stabat Mater” e la drammaturgia è mia, racconta di un ragazzo transgender alle prese con tutti gli aspetti della vita e in più con un corpo con il quale deve continuamente fare i conti. Andrea è un personaggio pieno di vitalità e di impulsi che tanto più si fanno sentire quanto più si libera e ritrova la sua vera identità. Su tutto questo, come si intuisce dal titolo, incombe la figura della madre.
Infine, c’è “Sul principio di precipizio” di Irene Petra Zani, di cui inizieremo a Gennaio le prove ospiti del Teatro di Sacco a Perugia.

10. E prima di salutarci svelaci, se si può, il segreto della tua ironia
Ho un ghostwriter.

Intervista di Nausica Hanz


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