“Storia di Adam, l’adolescente, l’insonne, l’Uomo alla ricerca della verità. Il rifiuto delle istituzioni educative canoniche (la famiglia e la scuola) lo conduce alla scoperta di altri mediatori: un vecchio libraio cieco e l’amante Chloé. E’ grazie a loro che si apriranno le porte di un Mondo Altro, nuovo ma antico quanto la cultura: quello della metafora e della mitologia. Adam riconoscerà la Tebe degli uomini ciechi e scoprirà Itaca, il paese del desiderio, metafore delle città e delle scelte degli uomini; Edipo e Ulisse, i paradigmi dell’esistenza e ciò che rende un istante eterno: il Bacio delle Pupille.”
La copertina de “Il Bacio delle Pupille (Macchione Pietro Editore, prezzo 15€). La copertina è di Vincenzo Ferrara
E’ questa la quarta di copertina de “Il Bacio delle Pupille”, dell’esordiente scrittore luinese, Lorenzo Mandelli. La redazione de “Lo Stivale Pensante” lo ha intervistato e sono stati molteplici gli spunti interessanti che hanno affrontato le tematiche del libro in un modo più eterogeneo possibile: l’eterna condizione dell’uomo, la ricerca della verità, l’amore, le relazioni umane e, soprattutto, il fascino della mitologia con tutte le sue peculiarità. Indistintamente il protagonista del libro, Adam, vive la sua vita affrontando questi problemi in maniera profonda ed idealizzata, nonostante gli errori e le “mezze” verità che lo hanno accompagnato empiricamente. Il libro è un omaggio alla mitologia greca e a tutto quello che ha lasciato nelle mani dell’essere umano.
Alle 18 di venerdì 6 giugno, alla Feltrinelli di Corso Moro a Varese, ci sarà la presentazione de “Il Bacio delle Pupille” con l’autore stesso. Modererà l’incontro Davide Di Giuseppe, insegnante e scrittore, mentre le letture saranno a cura dell’attore Silvano Melia. Lorenzo Mandelli è nato a Varese nel 1993. Attualmente vive a Londra dove frequenta il corso di Letteratura e Scrittura Creativa a Goldsmiths, University of London.
Perché hai scritto “Il Bacio delle Pupille”?
Perché avevo qualcosa da dire e trovavo che la forma del romanzo ospitasse al meglio la mia idea. Era un’idea che non si poteva sviluppare né nei toni troppo astratti della poesia e né concentrare in un racconto breve. Mi sembrava che il romanzo potesse essere la forma adeguata.
Quando è iniziata quest’avventura che ti ha portato a scrivere “Il Bacio delle Pupille”?
Avevo 16 anni, ero in vacanza in Sardegna, nel 2010. Una mattina mi sono svegliato e avevo negli occhi l’immagine della prima scena. Da quella mattina poi ho iniziato a riempire, a scrivere le prime scene. Non sapevo cosa stavo scrivendo, però avevo l’impressione che fosse qualcosa di più lungo del solito, che non era un racconto breve. Così ho iniziato a scrivere questa prima scena, dopodiché ho trascorso alcuni giorni a riempire dei fogli con solo domande: ma chi sono? Perché sono qui? Una volta tornato dalla Sardegna, dovevo iniziare la quarta Liceo, quindi ho fatto due anni a non scrivere. Portavo avanti un po’, ma era una cosa confusa ed arrancavo da un certo punto di vista. Inoltre io a sedici anni non sapevo scrivere bene, non che ora dico di sapere scrivere bene, però senz’altro non sapevo scrivere bene, a mio avviso. Di conseguenza dopo questo ho finito le scuole superiori e sono andato a Londra per qualche mese e lì ho iniziato a riscrivere qualcosa. Fatto sta che sono arrivato a novembre 2012, dopo 2 anni e mezzo che lo avevo iniziato, riuscendo a collezionare un’ottantina di pagine. Avevo dato da leggere queste pagine a due, tre persone ma già con toni sconsolati come per dire non è finito, non so dove mi trovo, non so come andare avanti. Così ho deciso, mentre preparavo l’iscrizione all’università in Inghilterra, di abbandonarlo totalmente per qualche mese e quando l’ho preso in mano di nuovo nel febbraio 2013 ho deciso di tranciare, sul posto, 40/50 pagine. Me ne sono rimaste una trentina che ho riscritto interamente ed a marzo, quando ero a Londra, ho iniziato a lavorarci più seriamente tutti i giorni. Da aprile a maggio sono andato a Madrid, per due mesi, ed è lì che è stata veramente una benedizione, perché a Madrid ero veramente solo. Questo ha fatto in modo che scrivessi ogni sera praticamente.
Per quanto riguarda la forma, invece, ce l’avevi già in mente oppure è un’idea che ti è venuta spontaneamente?
Arrivando da un periodo per me prolifico di poesie, quando lo scrivevo, pensavo sempre che ogni frase fosse un verso. Pensavo sempre con una certa ritmica, che non è ovviamente scansionabile in endecasillabo, ma è una ritmica più profonda, come un lungo poema, in prosa.
A cosa ti sei ispirato?
E’ un’ispirazione mitologica. Per me la mitologia è sempre stata un punto di riferimento imprescindibile. La mitologia mi è venuta in mente più tardi, però, perché per esempio nei primi due anni avevo in mente di ambientarlo a Bologna, negli anni di piombo, oppure di ambientarlo a Belfast, durante i “troubles” irlandesi. Dopodichè sono andato verso la mitologia, grazie alla lettura di Jung, cioè ho iniziato a leggerlo e mi ha colpito molto parlasse di archetipi e quindi ero affascinato dalla mitologia, che è il depositario dell’archetipo umano. Così ho deciso di ambientarlo in due archetipi, due idee che sono Tebe ed Itaca. Volendo Tebe è molto, dal mio punto di vista, sull’immagine di Madrid, per le sensazioni che ho avuto lì, ma penso comprenda in toto la “città europea”.
Quando hai deciso di intitolare il racconto in “Il Bacio delle Pupille? Cosa significa?
Il titolo è arrivato subito, è l’unica cosa che è rimasta tale e quale dall’inizio, oltre la prima scena. All’inizio questo bacio delle pupille era collegato alla cecità e alla verità. Era imprescindibile, non potevo vedere separate le due cose, pur non sapendo cosa fossero, era solo una nozione senza regola, come avere il nome della legge senza avere la legge. Dopo ho dovuto dargli un senso io, però quando gli ho iniziato a dare un senso il titolo, tanto il tempo che era passato, era diventato già un oggetto estraneo, qualcosa che mi era stato suggerito, perché poi ne ho scritto due anni dopo de “Il Bacio delle Pupille”. Mi pareva molto strano. Però quando ho iniziato a scriverne, della scena precisa del bacio delle pupille, credo che sia stata un’eruzione spontanea di parole. Credo anche che ci sia stata una mia doppia reazione: una di estraniazione ed una di riconoscimento.
L’autore del libro “Il Bacio delle Pupille”, Lorenzo Mandelli (photo © Michele Stroppa)
Quando è nata la tua passione per la scrittura?
Io ho scritto alcune poesie quando avevo 8 anni, ma le ho abbandonate perché poi ho iniziato a dedicarmi al teatro. Verso i tredici anni, però, è ritornata questa mia predisposizione e ho iniziato a scrivere per un annetto, ma io non avevo mai letto. Di fatto c’era stato il processo inverso: se molti sono portati alla scrittura dalla lettura, di solito quelli che scrivono meglio, io ho iniziato a scrivere e poi mi sono subito reso conto, per fortuna, che non potevo farlo senza leggere e quindi è stato, da un certo punto di vista, importante per la mia formazione. A Londra, al corso di scrittura creativa che sto frequentando ti insegnano a leggere come uno scrittore. Come diceva Eliot: “I grandi poeti rubano”, e quindi io ho sempre letto con l’idea che avrei rubato qualcosa a questi maestri, e quindi dopo è stato così. E’ venuto naturalmente.
Quanto di autobiografico c’è nel libro?
Io credo che alla fine ogni romanzo sia autobiografico. Con questo però non intendo dire l’evento biografico preciso, credo che ogni romanzo sia autobiografico perché tutto può essere filtrato solo attraverso l’esperienza. C’è una grandiosa frase di Kundera, ne “L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere”, in cui dice che i personaggi per lui sono prolungamenti del suo io e che non si sono realizzati completamente nella sua vita. Quindi volendo io sono la madre, sono il padre, l’amante, e posso anche essere il sasso che Adam calpesta. Però credo che uno scrittore dopo aver parlato a lungo di sé stesso, deve uscire dal suo io, per non rimanere ancorato sempre all’incomunicabilità, nel caso in cui si parlasse solo di sé stessi.
Come hai costruito i personaggi? Ne potresti solo accennare, usando per ognuno una breve descrizione?
I miei personaggi li ho visti in termini molto archetipici e cercavo il modo in cui loro potessero assurgere a simbolo più che rispecchiare una condizione individuale. La madre è amore incondizionato ed infedeltà, un bipolarismo, Jan è il pensatore, ma l’inetto, James è il lottatore, ma il perdente, il padre direi che è l’autorità, ma è anche l’infedeltà, invece il nonno può essere la forma, ma non il contenuto. E poi c’è Chloé… Di fatto in tutti i personaggi c’è una doppia identità perché tutti covano in loro il proprio segreto. Tutti i personaggi sono irrimediabilmente assorbiti dalla proprio battaglia interiore.
Fondamentale, però, all’interno del racconto è il personaggio di Siùl. Quali aspetti caratteriali sono importanti in Siùl e, per il significato che ne si deduce, anche in sua moglie?
Siùl è la mitologia. Siùl non vive questa vita, è al di fuori del mondo. ‘Quella in cui ci trovavamo era un’altra dimensione. Era la dimensione delle cose immortali, la dimensione dell’animo umano nella sua antica purezza.’ Siùl è leggendario, è Tiresia in Edipo, in tutto il ciclo tebano. E’ un personaggio che è uscito dal mondo dei morti e viene a dire la verità. Volutamente lui è in una purezza quasi divina, ma senza connotazioni, divina in senso greco. E’ ovvio che sua moglie, un personaggio quasi accennato, porta l’eco della storia di altri personaggi all’interno del racconto. Siùl in un certo senso è Borges, il grande poeta cieco e scrittore argentino.
Cosa lega tutti i personaggi?
I personaggi hanno un intreccio circolare, un segreto che non conoscono nemmeno loro, un mistero che li caratterizza.
Partendo dal presupposto che, personalmente, reputo tutti i tuoi personaggi, quando li vai a presentare, di una purezza accecante, c’è qualche tratto comune che li porta tutti al cambiamento all’interno del racconto?
In realtà nessun personaggio cambia, tranne Adam. Ma dato che la storia è narrata attraverso i suoi occhi – o le sue pupille – direi che allo stesso tempo tutti cambiano.
Come hai costruito i luoghi mistici nei quali si svolgono la maggior parte delle azioni del racconto? Sono i personaggi che ti hanno portato a descrivere questi luoghi o viceversa?
Io credo che il libro è una finzione ed io ho avuto la possibilità di portare i miei personaggi e trarli dentro un mondo che assomiglia loro. Questo, in parte, è uno dei procedimenti che ho seguito: se il personaggio doveva assurgere a simbolo allora anche il luogo doveva esserlo in parte. Detto questo credo che il luogo si sviluppi attorno come un processo quasi inevitabile nel momento in cui la narrazione è armonica; cioè, il luogo scaturisce dal personaggio ed è quasi una propagazione del personaggio stesso. Detto questo il personaggio può anche emanare un paradosso: nel momento in cui il luogo che lo circonda potrebbe anche essere in contrasto con lui. I grandi personaggi della letteratura hanno luoghi che sono inscindibili, come per esempio l’albero di “Aspettando Godot” di Beckett. Io vedo i miei personaggi, quelli che ho amato come Raskol’nikov in “Delitto e Castigo”, che lo posso vedere solo in quella stanza ormai. Non possono separarsi, anzi credo che si evolvano insieme. Se il personaggio è vero e ti cresce dentro, anche il luogo cresce dentro con una certa consequenzialità, ma non devono avere per forza una relazione reale. Io del luogo cerco più di trarre la sensazione, l’impressione di esso, a me non importa di scrivere descrizioni innumerevoli di tovaglie e di sale alla Balzac. Io voglio un luogo che prima di tutto mi dica qualcosa. La cosa più importante è questa ed allo stesso tempo nel libro ci sono dei posti che sono descritti oggettivamente, così come li ho visti e che ho vissuto. Immagini chiarissime, sempre con il senso di quello che il luogo stesso mi ha emanato.
A me sembra, inoltre, che in questo libro tu affronti alcune delle tante tematiche più importanti dell’uomo: la vita, il futuro, l’amore, la morte, il lavoro… insomma a quello che ci circonda. Partirei da una cosa fondamentale però: mi sembra che questa autenticità della condizione eterna dell’uomo sia presente non solo in Adam, ma in tutti i personaggi, nel senso che tutti cercano stimoli, si pongono obiettivi, e alla fine sembra che non se li facciano mai bastare. In relazione al libro cosa ne pensi? E rispetto alla tua vita quanto si discosta questa tua opinione dal libro stesso?
E’ facile discostarsi perché il libro stesso si discosta dal libro, dato che apre delle lunghe digressioni a proposito di questi temi. Se i personaggi hanno questa purezza è perché io volevo che fosse tutto poesia e tutto simbolo e le due cose non sono così lontane. Di conseguenza la storia è fatta apposta per dar modo a me di parlare di qualcosa di più universale. Io volevo che ogni personaggio riuscisse a sfuggire all’unicità della propria esperienza e della propria personalità per rivelare un senso più profondo e universale di sé. Perciò è ovvio che tutti tendono e tutti lottano, anche Adam lo dice: tutti sono irrimediabilmente assorbiti dalla propria lotta interiore. E c’è questa profonda solitudine, profonda frammentazione dell’uomo, che cerca di raggiungere qualcosa: ma cosa? E soprattutto: che parte di lui sta cercando di raggiungere quella cosa? Il motivo è perché tutti vivono una frammentazione irreparabile. E in questo senso sembra che l’uomo inizia a frammentarsi fin dalla nascita. A Tebe la menzogna sembra quasi una necessità per continuare a vivere. Se quindi questi fini che i personaggi si pongono sono da un certo punto di vista irraggiungibili, dall’altro lato sono segreti, ovvero la coscienza di non poter guardar in faccia nessuno, sopratutto la verità, per raggiungere questi fini. Ed io questo l’ho sentito sopratutto a Madrid, e a Londra: tutti sono terribilmente assorbiti dalla propria battaglia interiore. Si sa che tutti stanno tendendo verso qualcosa, però si sanno anche due cose che sono poi le più dolorose: la prima è che perderanno, e la seconda è che non lo diranno. Ecco quello che percepisco in queste grandi città.
Secondo te per quale ragione si fa fatica in questa società, proprio per la mancanza di sicurezza, a parlare delle proprie sconfitte, o dei propri sentimenti? Perché, come dici anche nel libro, siamo una società piena di maschere e non si riesce a parlare delle proprie sconfitte?
In questo credo che giocano un ruolo centrale due sentimenti: la vanità e la vergogna. Lermontov diceva: Archimede voleva sollevare il mondo con la vanità. E poi la vergogna. C’è un senso di colpa tangibile nel romanzo, un senso di colpa che nessuno ci ha descritto meglio di Kafka. Sarebbe così bello se riuscissimo veramente a credere nel destino. Ma non ce la facciamo, ci sentiamo sempre in qualche modo coinvolti. La sconfitta porta sempre il nostro nome, porta sempre la nostra faccia.
L’autore del libro “Il Bacio delle Pupille”, Lorenzo Mandelli (photo © Michele Stroppa)
Cos’è, prima del cambiamento, questa Tebe per Adam?
Da un lato è la pura finzione, l’essere frammentati. Questo è intollerabile per lui. Vedere che una dopo l’altra persone sempre più vicine a lui si scoprono frammentate e che celano il proprio segreto. Quindi, Tebe è un luogo in cui gli uomini si vedono, si parlano, ma non si conoscono. E lui lo dice infatti: “uno di fianco all’altro nella lotta.” Ma non solo: “tutti soli uno di fianco all’altro”. E’ questo che lui pensa di Tebe: da un lato la finzione e dall’altro il segreto: sapere che è finzione e non confessarlo, né agli altri né a noi stessi.
E infatti lui non vuole essere né Edipo né Giocasta… quindi secondo te, la terza strada, la terza via per salvarsi qual è? L’amore?
No. Infatti quello che volevo specificare sul titolo è che non è un romanzo d’amore. Anche se il titolo lo può suggerire, non è un romanzo d’amore assolutamente. Quindi la terza strada non è l’amore secondo me. Il bacio delle pupille è più un incontro con la verità. Le pupille sono le pupille della verità.
Ora ti chiederei ti rispondere ad una domanda che Adam si pone nel libro: “c’è colpa dove non c’è volontà?”
Beh questa chiaramente è la grande domanda di Edipo. Ma è irrisolvibile, io sono pronto a tacere di fronte a questa domanda. Posso anche sviluppare un discorso. I Greci sono stati grandi perchè hanno evidenziato paradossi irrisolvibili dell’uomo. Ci sono infatti altri paradossi nel ciclo tebano di Sofocle. Il caso di Antigone per esempio. Lei seppellisce il fratello e per questo viene condannata a morte. Però gli dei non permettevano che un corpo fosse lasciato senza sepoltura. Ma dall’altra parte Creonte, suo zio, dice: si ma tuo fratello è un traditore. Quindi anche qui, non si capisce come il paradosso può essere risolto. Eliot infatti scrisse: Antigone fece la cose giusta per la ragione sbagliata. Ed è simile al paradosso ‘c’è colpa dove non c’è volontà?’ Non puoi, secondo me, dipanare la matassa. Si arriva alle ideologie… parlando di questo puoi solo arrivare alle ideologie. Ed io quello che ho cercato di fare nel mio libro è stare alla larga dalle ideologie. Nei capitoli riflessivi infatti ho cercato di essere oggettivo, ovvero di non parlare di niente se non di ciò che potevo veramente vedere, toccare e appurare, quasi empiricamente sulla natura umana. Quindi non credo che si possa giungere ad una soluzione del paradosso. E’ un labirinto nel quale dobbiamo accettare di essere perduti. Infatti, uno dei temi importanti del libro è l’accettazione. Adam dice: “chi crede che la rinuncia condivida la stessa natura della accettazione si sbaglia, perché si rinuncia a ciò che si potrebbe cambiare, mentre si accetta ciò di fronte al quale non possiamo nulla. Non si scende a compromessi con l’inevitabile, esso si prende tutto e allora bisogna dire di si e forse solo dicendo di si, si diventa liberi.” Se vuoi questo punto di vista di accettazione delle cose è nietzschiano.
Insieme all’accettazione e alla verità, quali sono secondo te le altre tematiche portanti del libro?
Un altro tema che a mio avviso è legato indissolubilmente alla verità è il tempo. La prima frase del libro è di Borges, da Elogio dell’Ombra: ‘Democrito di Abdera si strappò gli occhi per pensare; / il tempo è stato il mio Democrito’. E va bene che per Borges è vero che il tempo è stato il suo Democrito. I Borges, infatti, era da sei generazioni che diventavano ciechi con l’avanzare dell’età. Però vuol dire anche, da un certo punto di vista, che il tempo ci rende ciechi? Questo è quello che posso suggerire o domandare. Nel libro infatti non ero capace e non volevo neanche mettermi a dare delle soluzioni. Io voglio che un lettore, finito il libro, si trovi con delle domande, non con delle soluzioni, perché la letteratura, secondo me, è una grande domanda.
Se i libri dessero solo delle soluzioni, a mio avviso, non avrebbero senso.
Appunto. Il fatto del tempo comunque è importante perché Adam è andato dentro sé stesso, nel suo passato, dove trova le finzioni. Quindi è come dire: più vivi e più è difficile essere vero. E’ come se il presente fosse menzogna e nel passato puoi scoprire la finzione. Ma il passato è anche verità. E quest’idea mi è venuta leggendo Sándor Márai, uno scrittore ungherese. E nelle Braci, un romanzo del ’42, in cui lui dice che l’uomo, al di là di tutte le menzogne, alla fine, con la totalità della sua vita dirà la verità. Quindi non si può sfuggire per sempre. Puoi sfuggire per un anno, due, trenta, a nasconderti e a mentire ma con la somma della tua vita dirai una verità. Quindi il passato nella sua totalità è verità. E infatti il libro non è strutturato in maniera lineare, tutto funziona secondo flash-back. Tutto funziona secondo il principio che il passato ritorna e non ci si può nascondere sempre. Come dice Adam all’inizio del libro: “perché il passato è come una grande marea che ci riporta a riva tutto ciò che abbiamo gettato”. Da un lato la verità è contenuta nell’istante e nella somma totale. Però con istante non intendo tempo. Con istante intendo un’unità di misura dell’anima, è un unità di misura umana, diversamente dai secondi. E quindi la verità, paradossalmente, è contenuta o nell’unità più piccola o nella totalità.
Per te cosa sono la memoria, i ricordi e il tempo stesso?
Adam dice: “perché noi siamo la nostra vita, la somma degli eventi, la moltiplicazione dei ricordi.” Noi il tempo, nel senso di avvenimenti, lo viviamo e ne siamo una somma, perché è irriproducibile, è unico, accade. Ma nei ricordi il tempo si moltiplica. Il dialogo dei ricordi, che dialogano tra di loro e si cercano e si dimenticano l’un l’altro e poi si richiamano l’un l’altro. E quindi è questo grande movimento in cui il passato non è una somma di nulla… il passato è un’equazione che non si può scrivere, è una moltiplicazione impossibile, dove uno per uno per uno per uno… fa un numero infinito. Questo secondo me è la differenza tra il tempo dei ricordi e il tempo stesso. E Siùl lo dice: “non c’è oggi che non cambi la nostra immagine di ogni singolo ieri”. Perché il passato è imprescindibilmente legato al presente e viene con noi e continua a plasmare il nostro presente e noi con il nostro presente continuiamo a plasmare il nostro passato. Se tu hai vissuto dei momenti incredibili con una donna e dopo ti sei lasciato, beh quei ricordi sono contaminati per sempre, ma saranno già contaminati il giorno dopo. Quindi, secondo me, c’è un dialogo e un plasmarsi a vicenda tra il fatto e il ricordo. E come dice Siùl: il ricordo non è il fatto, è piuttosto la nostra immagine del fatto.
Ora alcune curiosità. Prima di leggere il finale del libro la cosa che mi sono chiesto è: come ti vedi tra dieci anni?
Io stesso mi vedo assolutamente a scrivere ancora. Sento che questo è un punto… ma non è neanche un punto di partenza: vedo questo romanzo come parte di uno spontaneo riversarsi di pensieri e del loro concretizzarsi in immagini e storie. Camus, che studiava filosofia, disse che lui iniziò a scrivere perché trovava che con le immagini e le storie poteva rendere più potenti i suoi concetti filosofici e le sue idee sul mondo. Io la storia la devo sempre vedere in relazione a qualcosa che non interessa solo me o che non interessa solo l’intelletto a livello di piacere: deve assurgere a simbolo secondo me. Io tra dieci anni mi vedo ancora a scrivere. Adesso ho iniziato a scrivere in inglese quindi, è chiaro, cambia un po’. Però sto lavorando tuttora su dei racconti e quest’estate voglio scrivere un pezzo per il teatro tratto da un mio racconto. Direi che questo romanzo non mi ha saziato per niente.
Per te, che hai scritto il libro a Madrid, in solitudine, cos’è la capitale spagnola? Come mi hai detto prima è solo Tebe o anche un po’ Itaca?
Madrid è Tebe, senz’altro.
Solo un’altra Tebe quindi?
Tebe che, come tutte le Tebe, porta in seno la possibilità di un’altra Itaca.
Dove hai scritto materialmente il libro?
Per la gran parte in camera mia. E alcune pagine al Parco del Retiro a Madrid, in un certo bar, di fronte al lago artificiale. Andavo a scrivere in mezzo alla gente perché volevo sentire che la solitudine la stavo scegliendo e non era imposta su di me.
E per il resto sempre in camera tua?
Si. Avevo una camera piuttosto grande, ma completamente bianca, credo che questo mi abbia aiutato moltissimo. Per chi scrive, penso che il posto di lavoro sia molto importante, nella misura in cui finisci per proiettare le immagini e le storie contro i muri. Quindi io, consciamente o meno, avevo dei capitoli in qualche angolo preciso: magari il capitolo 17 nel comodino, il 32 in un certo punto del soffitto. In qualche modo proiettavo fuori da me la storia. Ed è per quello che non ho arredato minimamente la stanza e l’ho tenuta sempre bianca. Perché questo bianco della stanza mi aiutava, senz’altro. Era un posto quasi neutro, come una sala operatoria.
L’ultima domanda: per essere uno scrittore, sei molto giovane. Quando sei andato dall’editore a portargli il tuo manoscritto, data la tua giovane età, che faccia ha fatto?
Chiaramente al telefono mi dava del lei. Poi io mi chiedevo quando sono andato da lui se, una volta che mi avesse visto in faccia, avrebbe continuato a darmi del lei. E lui ha continuato a darmi del lei, quindi… qualcosa vorrà pur dire.