Intervista a Marco Buticchi, autore del romanzo “La voce del destino”, finalista al premio ...

Creato il 27 agosto 2012 da Ilibri

Grazie Marco per aver accettato questa intervista. Ti confesso che ho letto in un paio di giorni “La voce del destino”: un romanzo complesso, articolato e ricco di riferimenti alla drammatica storia del secolo scorso. Cosa significa scrivere un’opera così complessa per un autore? Immagino che richieda grande serietà e un impegno titanico

“Impresa titanica” è portare a termine ogni romanzo (e ormai ne conto una decina). Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, ovvero allo scrittore ammaliato dal tramonto, travolto dall’ispirazione, coi capelli arruffati e lo sguardo perso nel nulla e che magari ogni tanto “cicchetta” per stordire l’anima; scrivere è lavoro, dedizione, fatica, ricerca, attenzione quasi maniacale…. Io la chiamo “sindrome da Scipione l’Africano”, ricordate? Nel famoso kolossal mussoliniano un centurione della Roma delle guerre puniche indossava un… cronografo da polso! Chi scrive correndo lungo la Storia deve approcciare l’argomento con rigore: “Scipione” è sempre in agguato e ci vuol poco a far mangiare a un antico etrusco un bel pomodoro maturo o una patata bollita duemila anni prima che Colombo scoprisse l’America…

Partiamo dal fondo, ossia dalla “nota dell’autore” posta a conclusione dell’opera. Lì dichiari: “La domanda più ricorrente che mi viene formulata è relativa a quanta invenzione ci sia in un romanzo e quanto appartenga alla Storia.” Senza tema di apparire dozzinale, ti attesto che, leggendo il romanzo, mi sarò chiesto almeno una ventina di volte: “Ma sarà vero?” Questo è un effetto voluto o soltanto casuale?

Un “certo” Manzoni Alessandro riteneva la commistione tra vero e verosimile indispensabile al romanzo storico-avventuroso. Dato che non sono Manzoni, mi sento in dovere, alla fine dei miei romanzi, di chiarire alcuni fatti ricordando quelli, inseriti nella trama, accaduti realmente. Credo che questo rafforzi da un lato la mia convinzione di aver seguito un percorso “corretto” (è troppo facile, con la penna dalla parte del manico, sparare su tutti e tutto); dall’altra spero che ne tragga beneficio anche il piacere del lettore nel leggere.

Nonostante la tua “nota”, non rinuncerò a porti alcune domande specifiche sul rapporto tra romanzo e “verità” (!) storiche. Uno dei temi più forti delle vicende che narri riguarda le complesse connessioni tra potere ecclesiastico e potere politico. In particolare ci sono chiari riferimenti ai rapporti tra Vaticano, tutela dei criminali nazisti e massoneria. La tua analisi romanzata coinvolge papa Montini, il clero croato, il cardinal Marcinkus, l’enigma della morte di papa Luciani…

Il Vaticano, e più precisamente alcuni suoi alti esponenti e alcune fondamentali istituzioni, hanno rivelato connivenze impensabili per una Santa Sede. È storicamente appurata la “benevolenza” di alti prelati dell’epoca verso criminali nazisti in fuga, così come è appurato il transito nelle casse dell’Istituto Opere di Religione, di capitali che di religioso non avevano nulla.

Altrettanto vero è che, all’interno della Santa Sede esistano pressioni, correnti lobbies che possono assumere anche connotati pericolosi…

Altro cardine del romanzo è la relazione tra peronismo e accoglienza dei criminali nazisti in Argentina. Vi è poi uno splendido affresco di Evita, la vera eroina dell’Argentina di quegli anni…

Juan Domingo Peròn saluta in Piazza Venezia l’Italia fascista che entra in guerra. Le sue simpatie filo nazifasciste non sono segreto. Sono gli alleati i primi a meravigliarsi quando, a un mese dalla fine del conflitto, l’Argentina si schiera a fianco degli alleati stessi. Non so quanti colpi d’arma da fuoco abbiano sparato i militari argentini, ma per certo lo stato sudamericano si è seduto dalla parte dei vincitori al tavolo delle trattative di pace… mentre 50,000 (lo scrivo anche in lettere come negli assegni cinquantamila) criminali di guerra nazisti, ustascia e fascisti, raggiungevano l’Argentina con la “fedina” della coscienza ripulita e vergine.

Eva Duarte Peròn fu una donna pragmatica, abile, di grande carisma, ma schiacciata dagli eventi e dalla brama del marito di collocarsi tra i Grandi.

Nelle note bibliografiche, ho visto anche qualche riferimento alla Callas. Il personaggio di Luce de Bartolo, la cantante lirica protagonista di tante avventure e tragedie, si ispira a lei?

Sì, potrebbe essere una Callas per le capacità canore e artistiche. La differenza è forse nel destino: Maria Callas, a differenza della mia protagonista Luce de Bartolo, non aveva demoni che le volevano divorare l’anima sino al punto di costringerla a diventare una senza tetto per sfuggire loro. Quei demoni agivano sotto il simbolo del terrore: la croce uncinata.

Alcune pagine – quelle che descrivono alcuni sistemi di tortura e quelle che narrano le brutali, violente gesta di Glauco Soriano – fanno rabbrividire, anche se la tua scrittura è sempre garbata e misurata. In quei passaggi volevi inscenare quanto può essere abietta “la belva umana”?

Sono volutamente crude per non dimenticare. Non è vero che non è successo nulla e che si trattava solo di pochi isolati “cattivoni”. Nel campo di concentramento croato di Jasenovac uno studente sgozza in una notte e con le sue mani più di mille internati innocenti per conquistare il titolo di “sgozzatore dell’anno”. Questo è accaduto veramente e ogni “rabbrividente descrizione verosimile” di un autore è riduttiva dinanzi alla verità. Solo ricordando ciò che è accaduto (anche in un romanzo d’avventura) si può tenere lontana la barbarie.

La formula “misteri del Vaticano – sette segrete – leggenda - caccia al tesoro” si è rivelata vincente in molti romanzi che possono essere classificati nel genere “thriller storico”. Com’è nata la tua idea di scrivere questa storia, nella quale la leggenda riguarda la lancia di Longino e il tesoro è quello dei Peròn? Hai avuto qualche remora nel comporre alcune pagine scomode o di chiara denuncia?

Non sono un cronista d’assalto e neppure un morigeratore di costumi. Io scrivo romanzi collegati alla storia. Se poi dai miei scritti si traggono insegnamenti o riflessioni, questo mi gratifica.

Un romanzo non nasce a tavolino o seguendo “filoni” di successo, almeno per quanto mi riguarda. Ma da una scintilla capace di accendere un falò di emozioni.

(Ndr: dopo questa risposta ripenso per un attimo alle emozioni che il romanzo ha suscitato in me. Quindi proseguo con le domande.)

Per un lettore è inevitabile riscontrare analogie. La neonazista “base 211” nell’Antartide mi ha evocato alcune atmosfere del padre della fantascienza, Jules Verne, e il “Gordon Pym” di Poe… Ma l’Antartide rappresenta le nostre paure inconsce?

Anche il marinaio più esperto teme il blu delle profondità. E questo perché si tratta di un elemento sconosciuto. L’Antartide è un continente sconosciuto. E lo sapevano anche i nazisti che spesero molto tempo in ricerche sui territori ricoperti dai ghiacci. I risultati di quelle spedizioni sono ancora oggi sconosciuti.

In generale, com’è stato accolto un romanzo così “esplosivo”?

In maniera … “esplosiva” appunto: a quasi un anno dall’uscita siamo alla sesta edizione e la richiesta non accenna a diminuire.

Avrei molte altre curiosità su “La voce del destino”. Ma mi limito e passo ad alcune domande su di te. Ti abbiamo apprezzato in versione satirica in “Scusi bagnino, l’ombrellone non funziona”. Come si concilia l’anima che lì riveli, da “Forattini della penna”, con quella seria e impegnata de “La voce del destino”?

Scusi Bagnino…” fu un divertissement d’autore che riscosse notevole successo di pubblico. Amo comunque scrivere romanzi corposi e documentati. Anche se, ogni tanto, un po’ di “kazzeggio” fa solo che bene.

La tua casa editrice (Longanesi) ti ha collocato, primo autore tra gli italiani, nella collana “I maestri dell’avventura”. Ricordando che hai un passato di trader/manager (dico bene?), ci puoi parlare dell’impulso che ti ha indotto ad abbandonare una carriera più “tracciata” per avventurarti nell’impervio campo della letteratura? La scelta è stata sofferta?

No, è stata impulsiva: mi sono svegliato in un posto convinto fermamente di trovarmi in un altro e mi sono interrogato se fosse corretto quel modo di vivere. E, cambiando vita, mi sono accorto che riuscivo a coltivare le mie due passioni: scrivere e cucinare.

È vero che “hai fatto” il bagnino? Oppure anche questa è una leggenda?

Non “ho fatto”, ma ancora faccio: gestisco da molti anni uno stabilimento balneare in Liguria e “fare il bagnino” è il mio mestiere. E ne vado fiero.

Ci parli brevemente della tua Liguria?

Sai, la gente di Liguria nasce coi monti alle spalle e il mare di fronte. Per campare dobbiamo valicare - o domare - la montagna o prendere il mare. Quello stesso mare che ci regala voglia di conoscere, piacere della scoperta, aperture impensabili in gente per tradizione chiusa e diffidente. E poi i colori. Quelli sono importanti e te li porti appresso ogni volta che ti allontani. Pensate alle case arroccate delle Cinque Terre, al Golfo dei Poeti. Il mondo intero ha pianto quando l’alluvione ha cercato di sciogliere un bene dell’Umanità. Ma, in meno di nove mesi, la voglia di rinascere di quella gente ha fatto il miracolo…

A quale opera della tua produzione letteraria precedente ti senti particolarmente legato e per quale motivo? So che è difficile scegliere …

Sono tutti figli miei e ognuno di loro ha caratteristiche uniche e irripetibili. Non ho preferenze: ognuno dei miei romanzi mi ha regalato soddisfazioni irripetibili. Non ultima quella di venire nominato dal Presidente Napolitano Commendatore della Repubblica per aver contribuito alla diffusione e alla conoscenza della lingua italiana nel mondo.

Copiando la formula di Marzullo, sono solito chiudere le mie interviste con la “domanda a piacere”, dopo che ho constatato che gli scrittori formulano domande e rispondono in modo decisamente più stimolante di quanto facciano “trampolieri, nani e ballerine” che affollano il deserto culturale della nostra TV (mi rendo conto, non è un grande complimento. Ma credo di averti attestato la mia stima in altro modo) …

Domanda a piacere: “che cosa vuole fare da grande?”

Risposta a piacere: Qualche anno fa avrei detto il pompiere, anni dopo il poliziotto e infine lo scrittore, ma adesso mi sento confuso … se qualcuno intercede con lassù (dopo quello che ho scritto su IOR e Vaticano ho la sensazione che non mi vedano tanto di buon occhio) e mi fa ricominciare tutto daccapo e regalare giornate da 72 ore, provo a farli tutti e tre contemporaneamente e poi ve lo scrivo …

Ringrazio Marco, oltre che per l’interessante romanzo che ha scritto, anche per la disponibilità e per la simpatia con la quale ha affrontato quest’intervista di …

Bruno Elpis

“Grazie a voi”, replica Marco.

 

 

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