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Intervista a Marco Gualazzini

Da Collettivowsp @collettivowsp
 “Marco Gualazzini – Getty Images Grants for Editorial Recipient 2013”

“Marco Gualazzini – Getty Images Grants for Editorial Recipient 2013”

Marco Gualazzini Headshot
Nato a Parma nel 1976, Marco Gualazzini ha iniziato la sua carriera come fotografo nel 2004, con il quotidiano locale della sua città natale, Gazzetta di Parma. I suoi lavori più recenti includono la fotografia di reportage sulla microfinanza in India, sui media in Laos, nonché sulla discriminazione dei cristiani in Pakistan. I suoi reportage sono stati pubblicati in pubblicazioni nazionali e internazionali, tra cui Internazionale, Io Donna, L’Espresso, M (Le Monde), Newsweek Giappone, Sette (Corriere della Sera), The New York Times e Vanity Fair tra gli altri.Ha vinto quest’anno il prestigioso premio Getty Grant for editorial photography 2013 con il reportage M23 – Kivu: A Region Under Siege da cui sono tratte le foto in questa intrevista.

 “Marco Gualazzini – Getty Images Grants for Editorial Recipient 2013”

“Marco Gualazzini – Getty Images Grants for Editorial Recipient 2013”

  1. Cosa significa vincere un premio come il Getty Grant for Editorial Photography e cosa comporta, secondo te, per la tua professione e per il tuo progetto?

Penso che il Grant di Getty Images sia uno dei riconoscimenti più prestigiosi, e al tempo stesso, più utili per chi fa il mio mestiere. Perché non è solo un premio, ma è anche un supporto concreto all’attività di reportage.
Faccio tutt’ora fatica a realizzare che io, Mr. nessuno, lo abbia vinto. Poi però, se faccio un passo indietro, mi rendo conto che il grant non è per alimentare il mio ego di fotografo, ma mi è concesso perché io possa essere un ponte tra voi e quello che mostro. In questo paradigma io sono un semplice nunzio. L’importante è la testimonianza, la storia, il messaggio. I soldi mi aiuteranno a ritornare in Africa a cuor un più leggero, e a portare avanti il mio progetto. Ma l’Africa che vive in queste condizioni, per chi vuole fare il mio mestiere, è estremamente cara. Adesso so solo che alla mie spalle adesso ho uno dei migliori partner che un fotografo potrebbe desiderare, Getty Images,  e questo mi permetterà, per la prima volta di concentrarmi maggiormente sulle fotografie sul campo, piuttosto che la distribuzione o la presentazione di queste.

Su di me il Congo ha sempre esercitato un grande “fascino”. Ho deciso di tornarci dopo una prima esperienza perché ho là dei legami affettivi. Missionari ai quali sono profondamente legato. Una terra sconfinata, con una storia estremamente tragica, di conflitti irrisolti, che si ripropongono in un qualche modo a cadenze quasi regolari da mezzo secolo, dai primi massacri tra Hutu e Tutsi degli anni 60 in Ruanda. Oltretutto quando mi avvicinai al fotogiornalismo, erano gli anni del genocidio, e i fotografi che più mi hanno ispirato, come Nachtwey o Gilles Peress, stavano lavorando proprio a Goma. Nachtwey dice in un’intervista, che dopo aver documentato il genocidio, si spostarono a Goma perché era appena scoppiata un’epidemia di Colera. E vittime e carnefici, erano mischiati tra loro, agonizzanti e morenti. Per lui fu come prendere un ascensore per l’inferno. Le foto di quel periodo sono scioccanti, e visto che furono proprio quelle le foto che mi fecero avvicinare a questo mestiere, sento di avere un obbligo morale nei confronti del Congo. Di base dal 2009 ad oggi non è cambiato praticamente nulla. Prima c’era il generale Nkunda, ora Kagame. Prima i ribelli si chiamavano CNDP, ora M23. Prima avevano gli anfibi, ora hanno scarponi di gomma. Cos’è cambiato? Il loro look, e i loro nomi. Ma hanno sempre le stesse facce.

  1. Quali sono le maggiori difficoltà che hai incontrato nel realizzare questo progetto e come pensi possa proseguire?

Non è facile muoversi in queste situazioni, non è facile muoversi in Africa, quindi parlerei innanzitutto di difficoltà logistiche. Sono stato fortunato però, ho incontrato persone che mi hanno notevolmente aiutato perché hanno sperato, sperano che attraverso la nostra testimonianza la loro situazione non venga dimenticata dall’opinione pubblica internazionale.

  1. Dalla tua biografia si legge che non hai frequentato nessuna delle famose scuole di formazione che ci sono in Italia ma hai fatto la gavetta. Pensi esista un percorso migliore rispetto a un altro?

Non saprei, non credo. Ognuno ha il suo percorso, non credo ce ne sia uno migliore di un altro. Sta a noi sapere cogliere le occasioni che ci si presentano davanti. Penso sia praticamente impossibile, se si chiedesse a due fotografi, come siano arrivati a pubblicare sullo stesso giornale, o a realizzare un servizio nello stesso posto, ottenere da entrambi la stessa risposta.

  1. Vale la pena raccontare tutte le storie che incontriamo? O ci sono delle storie che, anche se potenziali e belle, è meglio non raccontare? Quali potrebbero essere, a tuo parere, i motivi per non raccontare una storia?

Non credo ci sia motivo per non raccontare una storia che ci affascina o nella quale crediamo. L’unico ostacolo potrebbe essere un discorso etico d’approccio. A mio parere l’approccio etico ad una storia è l’unica cosa che ci legittima o meno a fotografarla. Poi però ognuno, dal fotografo al photoeditor, al lettore, ha la propria coscienza.

 “Marco Gualazzini – Getty Images Grants for Editorial Recipient 2013”

“Marco Gualazzini – Getty Images Grants for Editorial Recipient 2013”


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