Come è nato il tuo interesse per la chitarra? Con che strumenti suoni e con che strumenti hai suonato?
Il mio interesse per la chitarra è nato e si è sviluppato assieme al più generale interesse per la musica, proseguendo nel mio percorso di studi in Conservatorio, dove affiancai allo studio della chitarra classica quello della composizione. La chitarra è stata dunque il primo e il principale strumento con cui mi sono avvicinato alla pratica musicale.
Possiedo diversi tipi di chitarre, che impiego a seconda delle necessità e delle circostanze; quelle che uso con maggiore frequenza sono: una chitarra classica dal liutaio Luigi Locatto, una Gibson Les Paul Custom e una Ovation con corde in nylon.Quali sono state e sono le tue principali influenze musicali?
Direi il ‘900 musicale nel suo complesso e nei suoi molteplici aspetti e generi: dalla musica colta al rock, al jazz, alla musica elettronica; più in particolare potrei indicare il minimalismo, l’ambient music e la musica sperimentale. Ritengo però che anche diverse suggestioni mutuate dalle arti figurative e dalla letteratura contemporanee abbiano influito sul mio modo di intendere la musica.
Come è nata l'idea di registrare un disco come Minimalist Guitar Music? Hai avuto contatti con Glass e Reich durante la sua realizzazione?
Da molto tempo mi occupo della cosiddetta minimal music e più recentemente ho fatto parte di Timegate, ensemble specializzato in questo repertorio. È stato pertanto un passaggio piuttosto naturale quello di ripensare al lavoro di questi anni, arrivando a definirlo per mezzo di una registrazione.
Quando trascrivo un pezzo di un compositore contemporaneo, cerco sempre di mettermi in contatto con l’autore per avere l’autorizzazione a procedere e per eventualmente sottoporgli l’adattamento realizzato; così è stato anche per i brani di Minimalist Guitar Music. Nel 1993 mi rivolsi a Steve Reich tramite il suo editore, l’Universal Edition di Londra, per un suo parere sull’eventuale esecuzione di Piano Phase con due chitarre; Reich mi autorizzò a procedere, a condizione che l’altezza dei suoni venisse mantenuta nell’ottava originale. Parlai invece con Philip Glass della possibilità di suonare Two Pages con la chitarra nel 2003, in occasione di un suo concerto in solo a Rovereto; anche in questo caso il parere fu favorevole. Infine, nel 2011 mi misi nuovamente in contatto con Glass, questa volta tramite la sua casa editrice Dunvagen Music, per sottoporre la mia trascrizione di Music in Similar Motion per quartetto di chitarre. Quando poi mi trovai a chiedere l’autorizzazione per l’eventuale pubblicazione su disco, mi venne detto che, poiché l’Orange Mountain Music (l’etichetta discografica di Philip Glass) detiene i diritti di prelazione sull’incisione delle opere di Glass, per ottenere l’autorizzazione alla pubblicazione avrei dovuto prima sottoporre loro copia del master dell’album, che nel frattempo stavo ultimando. Così dunque feci, ma invece che semplicemente autorizzarmi alla pubblicazione, mi proposero di fare uscire il disco nella loro collana.Come mai hai scelto questi tre brani? Hai mai pensato di registrare anche il più famoso Electric Counterpoint?
Ho in repertorio Electric Counterpoint di Steve Reich da quando nel 1992 lo suonai in concerto per la prima volta; in effetti da principio avevo preso in considerazione un programma di musica minimalista per chitarra che avrebbe potuto prevedere anche un altro repertorio, più eterogeneo e con composizioni originariamente concepite per il nostro strumento, quali Ripples di Nicky Hind o gli Alexandrins di Tom Johnson. Con l’avanzare del progetto però valutai l’idea di proporre un programma più definito, optando così per i due principali esponenti della scena minimalista di New York, ovvero Steve Reich e Philip Glass, e limitando la scelta del repertorio, cronologicamente e stilisticamente, ai loro primi lavori minimalisti.
Piano Phase è un brano del 1967, nel quale Steve Reich applica per la prima volta a degli strumenti dal vivo la tecnica del phasing, precedentemente sviluppata nei suoi lavori per nastro magnetico It’s Gonna Rain e Come Out, e che in seguito caratterizzerà la maggior parte della sua produzione musicale, almeno fino a Drumming. Two Pages del 1968 presenta il primo uso rigoroso dei processi additivi e sottrattivi da parte di Philip Glass; mentre si può considerare Music in Similar Motion, composta nel 1969, come un punto di svolta nella produzione minimalista di Glass, per l’introduzione di un ‘sistema aperto’ di sviluppo e per il ‘senso di drammaticità’ provocato dalle entrate successive delle quattro voci che compongono il pezzo, come ebbe modo di precisare Glass stesso. Dunque ho scelto quelli che a mio parere possono considerarsi tre brani fondamentali nella produzione di Philip Glass e Steve Reich, composti a distanza di un anno soltanto l’uno dall’altro, in un momento cruciale dello sviluppo del repertorio minimalista.Qualche anno fa, nel 2005, Dominic Frasca ha inciso Two Pages nel suo disco Deviations, hai mai avuto modo di valutare la sua trascrizione?
No, non conosco la versione di Two Pages di Dominic Frasca, di cui ho invece presente Electric Guitar Phase, il suo adattamento per quattro chitarre elettriche di Violin Phase di Steve Reich.
Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?
Suono da molti anni con il gruppo d’improvvisazione libera Monte Analogo, un ensemble con organico variabile che comprende musicisti di diversa formazione, interessati a confrontarsi fra loro attraverso la pratica dell’improvvisazione. Inoltre, mi dedico da tempo a creare con la chitarra elettrica dei loop ‘aperti’ in tempo reale, stilisticamente riconducibili ai Frippertronics che Robert Fripp sviluppò fra gli anni ‘70 e i primi anni ‘80, nei quali l’improvvisazione è una componente imprescindibile e vitale. Entrambe queste esperienze musicali mi hanno stimolato al dialogo con altre forme espressive quali la poesia, il teatro, la danza, il video e le arti figurative, e ritengo che questa disponibilità al confronto sia intimamente correlata con l’apertura, l’immediatezza e l’azzardo impliciti nelle pratiche improvvisative.
È noto che l’improvvisazione non trova correntemente molto spazio all’interno della formazione e della vita professionale del musicista classico, che di conseguenza resta solitamente spiazzato di fronte alla richiesta di rapportarsi con questa pratica musicale. Relativamente alla mia esperienza, credo di potere dire che improvvisare mi ha aiutato a sviluppare un rapporto più diretto con lo strumento e con il testo musicale; dunque riconosco a questa pratica un importante valore formativo, oltre che artistico.La tua tecnica è davvero eccellente, quanto è ancora importante avere una ottima tecnica per un chitarrista o un bassista? Te lo chiedo perché mi viene in mente un aneddoto: negli anni ’70 Robert Fripp, pesantemente contestato da alcuni punk che lo consideravano ormai un dinosauro rispose serafico “chi è più schiavo della tecnica? Chi ne ha troppa o chi non ne ha?”
Credo che rifarsi a una definizione più generale di tecnica quale capacità di operare al fine di raggiungere uno scopo, possa aiutarci a rivolgere l’attenzione a ciò che al tempo stesso dovrebbe essere la ragione e il fine della tecnica strumentale, ovvero la corretta espressione di un pensiero musicale. Dunque, a mio parere, lo studio della tecnica dovrebbe essere finalizzato alla migliore resa possibile della propria visione musicale; pratica che può rivelarsi una ricerca avvincente, oltre che una responsabilità. Vorrei proporre un esempio concreto, facendo riferimento al repertorio del mio disco di cui parlavamo prima, Minimalist Guitar Music. Io ho una formazione classica, basata sugli esercizi tecnici fondamentali dello strumento e sviluppata attraverso lo studio del tradizionale repertorio chitarristico classico. Quando mi sono trovato ad affrontare per la prima volta lavori come Two Pages, che sostanzialmente è un brano monodico della durata di circa 23 minuti costituito da un’ininterrotta successione di crome su sole cinque note, si sono presentati problemi inediti di uniformità di suono, di precisione ritmica, di tenuta, di fraseggio, ecc., che ben poco avevano a che fare con lo studio del repertorio classico tradizionale e che mi hanno portato a riconsiderare a fondo alcuni aspetti della mia tecnica strumentale; il punto diventa allora non soltanto ‘quanta’ tecnica, ma anche ‘quale’ tecnica occorre. Vorrei ricordare pure io una frase di Robert Fripp, che mi è capitato di citare durante le mie lezioni, incontrando un alunno in difficoltà per un problema di natura strumentale: “Se sei in dubbio, consulta la tradizione. Se sei ancora in dubbio, consulta la tua esperienza. Se sei ancora in dubbio, consulta il tuo corpo.”
Grande Fripp! Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?
Penso che il rischio, se di rischio si tratta, di indifferenziazione e di globalizzazione nella nostra epoca sia più complessivamente di natura culturale e antropologica, piuttosto che unicamente cronologica. Molte produzioni artistiche del nostro tempo si contraddistinguono per il rifiuto di dicotomie quali tradizione e modernità, autentico e falso, cultura d’élite e cultura di massa, che avevano caratterizzato i periodi storici immediatamente precedenti. Ritengo che ciò sia indicativo di quella abolizione della distanza critica, tipica della condizione contemporanea, nella quale, come giustamente notavi, “il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili”. Comunque, credo che alla fine sia compito degli artisti cercare di dare una risposta creativa, e possibilmente convincente, a questo problema; diversi musicisti - fra i tanti esempi che si potrebbero fare mi vengono in mente Robert Ashley, Jon Hassell, Michael Nyman, Laurie Anderson, Brian Eno, John Zorn - lo hanno fatto.
Che consigli daresti oggi a un giovane che vorrebbe incidere un suo disco o iniziare una attività di musicista professionista?
Oggi la realizzazione di un disco può essere molto diversa rispetto a un tempo. Grazie ai costi sempre più accessibili dei componenti necessari per l’allestimento di un buono studio domestico, è ormai possibile registrare con una spesa relativamente ridotta un album di eccellente qualità audio. Inoltre, la stampa, la distribuzione, e magari la relativa promozione, di un supporto fisico - compact disc o vinile - non sono più l’unica strada percorribile per realizzare un disco: i file musicali nei vari formati digitali, compressi o non compressi, e la loro diffusione attraverso gli innumerevoli canali che propone Internet, offrono un’alternativa estremamente diversificata e sempre più frequentata. Tenendo conto inoltre delle differenti modalità di fruizione che inevitabilmente implica un panorama così composito, ritengo sia essenziale nell’accingersi a realizzare un disco valutare cosa si intende proporre, in quale formato, a chi ci si vuole rivolgere e per quale tramite. Comunque, non credo di essere la persona più adatta per dare questo genere di consigli; solitamente sono io che chiedo consiglio agli amici musicisti più giovani!
Ultima domanda: qualche anno fa , nel corso di una sua intervista con Bill Milkowski per il suo libro “Rockers, Jazzbos and Visionaries” Carlos Santana disse “Some people have talent, some people have vision. And vision is more important then talent, obviously.” Io credo che abbia un grande talento, ma… qual è la tua visione?
La costante ricerca di nuovi punti di vista
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