Interessante e piacevole l’intervista ai due giovani cineasti Samuele Sestieri e Olmo Amato, autori di I racconti dell’Orso, loro film d’esordio, presentato in concorso al Torino Film Festival nel 2015 e prossimo ad approdare a Rotterdam, dove parteciperà al Rotterdam International Film Festival.
Dall’intervista, incentrata volutamente sui contenuti del film e su quanto vi sia effettivamente della loro personalità nel frutto del lavoro che li ha visti coinvolti per circa due anni, emergono una grande umiltà, la spontaneità di due persone genuine e autentiche, e soprattutto la necessità di mantenere sempre vivo un nucleo puro e infantile, che poi è l’anima del loro film, ciò che probabilmente comunica in maniera più incisiva, di non crescere mai abbastanza da perdere la meraviglia, la magia, la gioia di lasciarsi andare alla tenerezza e al gioco, la stessa prerogativa che gli ha consentito di trovare il coraggio e la forza d’animo necessari per andare così lontano con pochissimi mezzi, l’audacia e quella disinibizione tipici della vitalità di chi, come un bimbo, crede soprattutto a quello che sente, trascinati da un sogno e dall’amore per quello che fanno, la stessa che fa sì che abbiano la determinazione di credere nel loro lavoro e in un futuro che con questi presupposti ha tutta la probabilità di riservare loro tante soddisfazioni e di regalare agli spettatori nuove e appaganti visioni.
La scelta di dividere il racconto in capitoli risponde a esigenze tecniche, narrative o era semplicemente un’opzione non particolarmente ponderata?
SAMUELE: L’idea dei capitoli, come molte cose nel film, è nata a montaggio. Risponde a esigenze di ritmo, prima di tutto: i capitoli sono quell’elemento letterario che scandisce il tempo, riportandoci continuamente al viaggio stesso della bambina. E’ un po’ il mantra del film, quasi ad ammonire lo spettatore che, da un momento all’altro, la bambina potrà svegliarsi. D’altronde siamo tornati a casa con un mare di materiale pronto a essere montato. Abbiamo sentito subito un bisogno incredibile di strutture. E in un film dove la struttura nasce a posteriori, l’elemento dei capitoli ci sembrava indispensabile ai fini narrativi: ci permetteva di lavorare in completo contrasto con l’atmosfera onirica del film.
Quanto c’è nella vostra personalità, della magia e dell’innocenza presenti nel film?
OLMO: La magia, l’innocenza e il perenne stato di meraviglia di fronte alla natura sono l’anima del film e anche la nostra. Per quanto mi riguarda è il motore stesso della mia creatività. Quando creo, che sia un video o un fotomontaggio, l’idea che ho in testa non è mai chiara in partenza. E’ proprio nelle fasi di realizzazione che mi rendo conto di stare sulla strada giusta. E il “work in progress”, il non avere tutto ben definito dall’inizio, com’è stato in questo film, è la forma che più sento vicina. Quando riesco a meravigliarmi, a stupirmi di quello che ho sotto gli occhi mentre prende forma, ho la certezza della giusta direzione e la spinta a proseguire.
SAMUELE: Ne I Racconti dell’Orso ho riversato tanti miei sogni, tanti miei segreti, tante mie piccole, carissime ingenuità. Ho sempre creduto molto nel potere immaginifico dei bambini, nella loro capacità di meravigliarsi, come dice giustamente Olmo. Il fatto è che il nostro film, in realtà, non è altro che un diario di viaggio, rispecchia perfettamente il nostro sguardo di fronte a tutto ciò che non avevamo mai visto. Ho sempre considerato filmare un po’ come l’avventura di un esploratore… E, tutto sommato, i protagonisti del film non sono altro che esploratori di un mondo che pare esistere solo per loro.
Al di là delle esigenze imposte dai limiti pratici, come il fatto di essere soli , è un caso che abbiate scelto un soggetto fantastico?
SAMUELE: Ma in realtà non ci siamo mai chiesti a che genere appartenesse il film finché non l’abbiamo dovuto definire per le iscrizioni ai festival e cose simili. Noi volevamo semplicemente raccontare una storia d’amore e di cura un po’ diversa dal solito. Più che il fantastico eravamo interessati poi alla struttura della fiaba. Del resto tra fantastico e fiaba scorre un filo sottilissimo…
OLMO: D’altronde già l’espediente delle maschere, nato dalla necessità di camuffarci non essendo nessuno di noi attore, ci spingeva in quelle direzioni…un po’ la voglia, un po’ il caso e un po’ la necessità…
Una delle cose belle del film è che da molto spazio alla mente dello spettatore, che si presta a tante interpretazioni. Immagino questo valga anche per i suoi creatori.
SAMUELE: Sono sempre stato abituato a pensare che un film sfugga ai propri autori e diventi di volta in volta di chi lo vede. Per questo credo che l’oggetto filmico più interessante sia quello aperto a più interpretazioni. Abbiamo cercato di liberare il più possibile il nostro film, di “aprirlo” a chiunque volesse vederlo. L’importante, diciamo, è stare al gioco.
Posto che ve ne sia uno, avete la stessa visione sul significato del film o ognuno di voi ha la propria? E in questo caso, vi va di svelarla?
SAMUELE: Penso che esistano tanti piccoli significati nel film e sia difficile trovarne uno onnicomprensivo. Ovviamente Olmo ed io ci siamo confrontati spesso su ciò che stavamo raccontando, eppure, anche tra noi, rimangono dei segreti. E forse è proprio questo il bello.
OLMO: Di sicuro eravamo entrambi interessati al tema dell’elaborazione del lutto, a cosa significhi la morte per un bambino, alla perdita come condizione inevitabile della crescita (che sia la perdita di un peluche caro o di un famigliare). Di questo abbiamo parlato molto spesso.
SAMUELE: E’ chiaro che questo tema alimenti il sogno stesso della bambina. L’omino rosso e il monaco meccanico si sfiorano, si toccano, si meravigliano per ogni cosa che li circonda, sono alla perenne ricerca di qualcosa d’invisibile. E’ come se volessero ricostruire un mondo perduto, come se avessero bisogno di un nuovo ordine, una nuova famiglia. Eppure c’è sempre qualcosa che manca, che non riescono a possedere, che sfugge fuori dai margini dell’inquadratura. Come un richiamo lontano…ci piace chiamarla nostalgia.
Una sensazione che si potrebbe avere tra le tante possibili interpretazioni è che le due figure abbiano un’età diversa, che il monaco sia in qualche modo la figura più matura, e in un certo senso anche più rassegnata, mentre l’omino rosso sia una figura più infantile, innocente, ma anche più spregiudicata e creativa. Voi come li vedete da questo punto di vista?
SAMUELE: In realtà non avevamo mai pensato a una differenza di età tra i due personaggi, ma è interessante che tu dica questo. Li abbiamo sempre pensati come bambini, ma il monaco è sicuramente più rassegnato, come giustamente dici tu. Per noi è un bambino cresciuto troppo in fretta. L’omino rosso, che sembra più fragile e innocente, è però quello che, se ci pensi, tiene in mano le redini del gioco. E’ lui a allontanarsi dal monaco, è lui a tracciare nuovi percorsi. Il monaco non fa altro che cercarlo.
Una cosa che ho pensato, è che la presenza della luce elettrica, di un frigo acceso o di altri elementi, potessero far presupporre che la scomparsa della specie umana non fosse poi così lontana nel tempo. E’ una cosa voluta?
SAMUELE: L’idea, fin da subito, è che della specie umana non rimanessero che tracce. Tutto è rimasto al suo posto: automobili, attrezzi vari, cartelli stradali. L’uomo solo è scomparso, come se fosse evaporato da un momento all’altro. In realtà a noi bastava sapere di questa scomparsa, non ci siamo mai chiesti da quanto tempo l’uomo non ci fosse più. E’ come se l’assenza dell’uomo fosse la condizione basica, il grado zero della nostra narrazione. Che poi gli uomini siano spariti da due giorni o duecento anni non fa differenza. L’importante è che un tempo ci siano stati.
Una curiosità, dove avete trovato quella chiesa meravigliosa? Era già così o avete fatto delle modifiche per adattarla alla scena?
OLMO: La chiesa che appare nel film si trova a Paateri, in Finlandia. E’ un’opera bellissima, realizzata interamente in legno dalla scultrice finlandese Eva Ryynänen. Come tutti i set del film l’abbiamo trovata lì, non abbiamo avuto bisogno di fare alcuna modifica. E’ successa la stessa cosa con il villaggio degli spaventapasseri. In questo senso diciamo che il nostro è stato un film costantemente aperto al caso e all’eventualità, dal primo giorno delle riprese all’ultimo di montaggio.
SAMUELE: Immaginate due amici a bordo di un camioncino che, con un po’ di sana imprudenza, frenano ogni volta che vedono una cosa bella e corrono subito a riprenderla. E’ andata sempre così.
Com’è lavorare in due? Più i vantaggi dal mettere insieme due teste, o più le difficoltà?
OLMO: Lavorare in due è un esperienza fantastica, questo film non sarebbe stato mai possibile altrimenti. Nonostante competenze diverse tra di noi c’è molta affinità, le capacità di uno hanno sopperito alle mancanze dell’altro, e viceversa. Il film, alla fine, rappresenta chiaramente la somma di queste visioni. Ogni tanto delle difficoltà ci possono essere state, ma, alla fine, ci siamo divertiti un mondo. Nessuno di noi ha mai voluto prevalere sull’altro, siamo due persone umili, questo è un lato del nostro carattere che ci ha aiutato a trovare la strada. Realizzare il film ha necessitato di due anni di lavoro, e per molto tempo siamo stati soli. L’essere in due, e in sintonia sul lavoro che stavamo facendo, ci ha dato la spinta motivazionale giusta, anche nei momenti di incertezza o nei quali il lavoro sembrava non essere mai prossimo alla fine.
SAMUELE: Aggiungerei solo una cosa: siamo attratti dall’idea che per girare un film non ci sia bisogno di chissà quali ingenti troupe o investimenti economici. Il nostro film è stata una sfida, fin dall’inizio. Non solo è possibile girare un film in due persone, è anche il modo più libero e bello per farlo.
Come è stato lavorare insieme, siete stati sempre d’accordo?
OLMO: Non sempre si va d’accordo al 100% e sicuramente ci sono stati momenti di incertezza durante lo sviluppo del progetto. Fortunatamente siamo due persone estremamente pazienti con un profondo sentimento di stima reciproca. Ognuno di noi conosce i propri limiti: quando abbiamo avuto dubbi ne abbiamo parlato e ne siamo venuti fuori insieme.
In futuro, sempre che le vostre intenzioni siano quelle di continuare a fare film, lavorereste ancora insieme o vi cimentereste in un’opera autonoma?
OLMO: Se sarà o meno un’opera autonoma o un’altra a quattro mani ancora non lo sappiamo con certezza, di sicuro I racconti dell’orso ci ha dato una bella spinta a continuare in questa direzione, e speriamo presto di realizzare un altro film insieme.
SAMUELE: Sicuramente, in un prossimo film, staremo lontani da renne e zanzare. A parte scherzi, sicuramente torneremo a collaborare insieme, ma l’idea che ci siamo fatti è che il prossimo progetto debba essere completamente differente da questo, sia come modalità estetiche che di realizzazione. E, personalmente, sto già iniziando a lavorare a una nuova idea, anche perché ho una voglia incredibile di ricominciare a girare.
Roberta Girau