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Intervista a sergio casagrande

Creato il 19 giugno 2013 da Paperottolo37 @RecensioniLibra

Nel nostro spazio riproponiamo un’ intervista  di  Rosalba  di Bona fatta al nostro caro amico Sergio Casagrande ricordando il suo ultimo romanzo “La casa dei ciclamini”

Qui sotto il link dove trovare la mia recensione http://ilibridiriccardino.wordpress.com/2013/03/30/la-casa-dei-ciclamini-di-sergio-casagrande/

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Intervista

Dal macchinista delle Ferrovie dello Stato allo scrittore, il

passo è breve?Ospite oggi , un amico discreto da me conosciuto ed apprezzato tra le pagine del social network Facebook . Una personalità che si distingue tra le tante e che si fa apprezzare per garbo e competenza. Sergio Casagrande nasce in una famiglia semplice ma dignitosa che lo guida con fermezza e amore lungo il percorso dei suoi anni. Fondamentale l’insegnamento cattolico nella sua educazione, dal quale riesce, nonostante la giovane età, a saper distinguere la religiosità bigotta da quella più prettamente cosmica. Legge moltissimo nel corso dei suoi anni e, pur avendo dovuto seguire studi tecnici, la lettura classica lo appassiona molto. Di carattere riservato ha però una forte attrazione, si può anche definire curiosità, per tutto quanto lo circonda, dimostrando di essere un grande osservatore. Questa sua natura lo porta sempre dalla parte dei deboli anche se, lui stesso si definisce “uno spirito libero”, tanto che lascia un lavoro tranquillo come impiegato di concetto in una ditta per fare il macchinista sui treni delle Ferrovie dello Stato, lavoro che gli permette di appagare la sua innata curiosità e di incontrare persone diverse che gli fanno vivere situazioni diverse ispirando e stimolando il suo già grande desiderio di scrivere storie. Di queste storie fa un uso molto personale, le rivisita e le modifica con ironia per mettere in risalto le ipocrisie del mondo che ci circondano, in questa nostra società dei così detti “sepolcri imbiancati”. Intanto continua a rileggere con interesse i classici dell’ottocento ed a scrivere su riviste locali. Pubblica romanzi e la sua sete di sapere e di offrire i suoi stessi interessi culturali non si ferma più.

Ciao Sergio, questa intervista sarà informale, come sempre faccio con i miei amici, per questo avrà il sapore confidenziale di una chiacchierata. Quindi benvenuto a nome mio e di tutti i miei amati lettori. Anche a te farò dieci domande più una di riserva.

E io confidenzialmente ti ringrazio, sia a nome mio sia a nome del mio burlone angelo custode che non mi molla un istante e da sempre mi dà una pizzicata ogni qualvolta cerco di svincolare da una domanda difficile preferendo una risposta diplomatica.

Nei tuoi romanzi la religione e la storia sembrano camminare a braccetto e hanno una corsia privilegiata. Parrebbe che tu dia loro molto rilievo. Dimmi quanto è importante l’educazione che hai ricevuto in tutto questo, e chi era il Sergio bambino?

Posso definirmi, in senso positivo, un ingenuo, un semplice, un candido? Oppure nell’altro senso uno sciocco o semplicione? Devo ancora comprendere se il fatto sia stato generato e alimentato da fattori genetici o da una particolare sensibilità. Da bambino ho fatto una scorpacciata di favole, e non c’era una fiaba che non mi trasportasse in un mondo popolato da belle fanciulle, principesse o contadinelle e da orchi e streghe cattive. Il più delle volte le novelle si riallacciavano alle storie sacre, a leggende, dove in un modo o nell’altro il buono, seguendo gli abituali schemi, aveva il sopravvento sul cattivo. Ciò mi aiutava a superare problemi familiari e dispiaceri dovuti a un’educazione per certi versi eccessivamente rigida. Anche i santi e le sante diventavano il mio rifugio: allora non comprendevo che questo affollato universo era inflazionato e nemmeno mi passava per la mente che la grandezza dei canonizzati era proporzionale al danaro che riuscivano a produrre ( santi con la medaglia d’oro, d’argento, di bronzo). Da adulto, merito di letture severe, sono diventato mio malgrado, e con qualche eccezione, un ironico tagliatore di aureole e un antidogmatico per eccellenza. Vorrei ricordare a tutti la straziante storia di Ipazia. Ed ecco un esempio di storia e di religione: quando l’Impero romano stava crollando i Padri della Chiesa esortavano il popolo alla verginità e non si davano la pena di preoccuparsi che gli eserciti difendessero le frontiere o di riformare il sistema di tasse. Il mio schema mentale ora è diverso: senza ricorrere a ispirazioni religiose o comunque ideali, vorrei aprire la strada all’utopia, a un mondo dove nessuno soffre la fame e pochi sono vittime delle malattie, dove il lavoro è gratificante e non eccessivo, dove i sentimenti come l’amicizia, la benevolenza e l’amore siano la regola e dove la mente, affrancata dalla paura, crea, per il diletto dell’udito, degli occhi e del cuore. Si tratta in fin dei conti di una conquista del futuro ma che già si è verificata in individui eccezionali spesso in contrasto con l’ostilità del gruppo. E non c’è motivo per escludere che, nelle epoche future, il tipo di uomo che ora è eccezione non debba diventare comune.

Sembra che, da sempre e dunque a livello caratteriale, tu ti sia schierato dalla parte dei deboli tanto da interessarti anche al volontariato. Si può dunque affermare che il tuo è amore per i più fragili. Cosa ha fatto scaturire questo in te, quale è stata la leva che ha sollevato questo tuo interesse?

È così. Alle elementari, al cinema parrocchiale, si proiettavano, oltre che i film di Ollio e Stanlio e racconti biblici, le tante battaglie tra gli indiani d’America e le giubbe blu. I primi erano selvaggi schiamazzanti, ornati di penne e armati di archi e lance; i secondi indossavano divise impeccabili e le loro armi erano precise ed efficaci. Mentre i miei compagni inneggiavano ai visi pallidi , io diventavo triste: che vittorie erano mai queste? Iniziavo già allora a comprendere l’importanza della propaganda e dei suoi effetti letali sulla psiche umana. Ho sempre provato una grande compassione per i deboli, per chi non è in grado di difendersi. Ricordo che un giorno, quando avevo poco più di otto anni, vedendo un passero al suolo mezzo assiderato di averlo avvolto nel cotone con la speranza che si riprendesse. Al mattino, trovandolo morto stecchito, piansi disperato e lo seppellii sotto una piccola croce di legno. Alle medie, leggendo il brano dell’Iliade del duello improponibile, seppur leggendario, tra Achille e Ettore, e i diari di Bartolomeo De Las Casas, confermarono e avvalorarono le mie tesi.

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Mi sembra di capire che in qualche modo l’amore è anche il motore della tua esistenza e lo trasmetti in maniera incisiva nelle tue opere. Ad esempio, nel romanzo “La casa dei ciclamini”, l’amore trasuda da ogni pagina, ce ne vuoi parlare e ci vuoi dire cosa ti ha ispirato?

Normalmente si esprime ciò che si ha dentro; talvolta capita che all’improvviso, come un vulcano in eruzione, la lava, i gas tossici devono uscire per portare la quiete nella tua anima. Riferirò una frase di Alessandro Valenti, il giornalista autore di testi teatrali, che ha curato la mia prefazione: “Come lo è stato per i libri precedenti, questo è un romanzo insolito, scomodo, tenero e appassionato, feroce e iconoclasta, da leggere con abbandono alla ricerca delle più segrete ragioni dell’amore e del nostro vivere quotidiano. Perché al di là di tutto è ancora quella dell’amore la spinta poderosa che ispira questo scrittore”. Sono certo che L’Amore sia l’unica energia salvifica dell’umanità, l’unico bene immobile( nel tempo) senza valore commerciale, che non so possa cioè comprare a nessun prezzo. La casa dei ciclamini è la storia, ironica e al tempo riflessiva, di una donna che ha vissuto tre volte in tre epoche diverse ( ai primi del Novecento, nel sedicesimo secolo, al tempo del Sacco di Roma e dell’Inquisizione spagnola e nel quinto durante le invasioni barbariche). La ritroveremo ai nostri tempi in una casa di ricovero insieme al suo compagno, che l’ha accompagnata nei secoli, messaggera di amore e di carità. Riporto qui sotto un brano del penultimo capitolo, potrei intitolarlo l’ossessione e la forza devastante di un amore perduto: un uomo ritrova il suo amore dopo quarant’anni di ricerche. La donna è diventata terziaria francescana, ed è stata appena violentata da un gruppo di lanzichenecchi spagnoli. Lui era stato un povero soldato, lei la figlia di un ricchissimo signore; non avevano fatto in tempo nemmeno di scambiarsi un bacio, una stretta di mano, e scoperto, il giovane si era dato alla fuga:

Tal vez no valiera la pena”( forse non ne valeva la pena). La soldataglia uscì inneggiando una vecchia canzone spagnola. La poveretta rimase a terra agonizzante. Poco dopo, Giovanni riprese conoscenza. A fatica, si trascinò accanto alla sua adorata. Si sollevò di un tanto, giusto per inginocchiarsi. – Amore, cosa ti hanno fatto?- I suoi duri occhi d’uomo si empirono di lacrime. – Ti ho amato tanto, per tutta la mia vita. Anche tu mi hai voluto bene, non è vero?- Francesca non poteva più rispondere, però non riusciva staccare gli occhi vitrei dal suo viso: lo fissava con l’espressione della colomba atterrita, spiando nei suoi qualche indizio del sentimento con cui l’avrebbe lasciata per sempre, e quasi supplicando per lui una seppur tardiva pietà , proprio quella pietà che a lei non era stata concessa. Dita scarne, piano, piano, raggiunsero le dita di lui, sino a sfiorarle: fecero timidamente conoscenza, si riconobbero, s’interrogarono, e finirono per riunirsi, intrecciate in quel gesto nel quale l’amore si promette con più certezza di un bacio, come se le mani d’entrambi si fossero unite in un’unica preghiera. Infine la sventurata ancella , piena ancora di fede, chinò il capo con un ultimo sussulto.

Sergio, la tua passione è la prosa, ma in essa avverto tanta poesia, quale è il brano che ti rappresenta meglio e che tu vorresti i lettori leggessero in questa rubrica?

Amo la prosa, ma nei miei racconti non mancano mai tratti poetici ,come crudeltà, fatti raccapriccianti e violenti. La vita dunque, nelle sue difficoltà e momenti felici. Come delle istantanee, gli sprizzi di allegria, le furbizie e le ipocrisie, tutto descritto in una perenne sospensione tra realtà e fantasia. Mille sfaccettature per raccontare l’amore. Eccone una e trina, presa a caso, violenza, pietà e amore,tratta dal mio romanzo: in ospedale, la vecchia Nina morente sogna il suo primo incontro con l’amore.

NINA E NINETTA

Nina sembrò percepire un lontano suono di tenui rintocchi di campane; poi, una voce la fece sussultare:

- Chi sei?

- Il padrone del ponte di Luce.

- Come ti chiami?

- Mi chiamo Sonno e conosco il passato di tutti gli uomini. Il mio potere è immenso e domino Sogno, un mio fedele e bizzarro servitore, che se serve di mille travestimenti nelle sue escursioni tra i meandri delle menti. Tra non molto conoscerai mia sorella , che conosce invece il futuro: lei però è taciturna e priva d’immaginazione. Ti ricordi del Poeta, il figlio dei tuoi padroni ? Avevi solo quindici anni…

- No, non so…

- Sì che lo ricordi. Gli hai voluto bene. Ti ha voluto bene.

- No! Lui no!

- E invece sì. Non ti ha mai dimenticato.

- Non mi prendi in giro?

- No. Te lo giuro.

Nina ricordò. Qualche cosa di più grande dell’esaltazione del vivere l’aveva solleva da terra portando con sé passi e pensieri attraverso un mondo seminato di miracoli. Le stelle avevano battuto le palpebre, la luna sorridente l’aveva rincorsa e teso le braccia. Col sole in gola aveva riso di meraviglia, il cuore aveva tintinnato un campanello d’argento. E per una goccia sospesa a un rametto di pesco le si erano riempite gli occhi di lacrime e di arcobaleni. Aveva imparato a ridere. Come ne godeva! Lo faceva in modo tutto suo. Rideva prima di gioia, fragorosamente, poi continuava a ridere del suo riso per celia, e la celia si mutava in ebbrezza; allora non sapeva più contenersi. Dimenticava il motivo del riso: rideva fuori di sé, per la felicità del ridere. Il riso le scorreva per tutto il corpo, per la bocca, per le gote imporporate, per gli occhi luminosi, per il tremito del petto e delle braccia, per le gambe da cerbiatta pressoché pronte al bacio; quasi convulso.

- Aveva scritto due pagine sul suo diario, Nina…

- Me le leggeresti? Lui era cieco, ma mi disse che non importa vedere, basta sentire.

- Sì, Nina.

25 luglio 1906

“ Ninetta, caro amore, avrò solo un rimpianto: di non aver

visto il lampo dei tuoi occhi. Sì, bambina, tra le tue braccia,

io ho rivisto l’amore della mia giovinezza. Su quel prato,

che al ricordo mi brucia la carne come vivo fuoco, io per la

prima volta ho conosciuto il piacere della colpa, col caldo

tuo corpo, col cocente sole sulla nuca e le spalle, coi tuoi

bramiti di ardente cerbiatta accordati all’immensa armonia

della terra. Che tu sia benedetta!”

-Solo Così?

- Oh, no. Questa è la seconda e ultima pagina.

“ Camminavo al tuo fianco, e ho percepito il volto tuo improvvisamente

impallidito. Dal lato, mi sei posta dinanzi.

Ho avvertito le tue manine sfiorarmi il corpo, dalle spalle

al bacino come di un tiepido liquido: sei diventata muta

con gli occhi sicuramente aperti; poi quegli occhi li hai

socchiusi ma non tanto che io non mi accorgessi che sotto

le palpebre vi era una lacrima. Ho sentito la bocca sui denti

bianchi in un respiro a fior di labbra. Le mie mani sono

corse su per le tue gambe sino al ventre piatto che, al tocco,

è rabbrividito e ai piccoli seni appuntiti: hai barcollato, e

ti sei sentita svenire. Avevi una camiciola ruvida e piccola

che ti arrivava appena alle cosce; ti ho denudato in parte,

leggermente, facilmente. Il tuo corpo era agile, flessuoso,

un po’ magro e lungo, cavo ai fianchi. Tra un seno e l’altro

ti è cascato un rivolo di capelli che io ho rimesso al suo

posto.

Ho bisbigliato: “Vorrei che il tempo si fermasse e i miei

occhi vedessero l’alba riflessa nel tuo volto.” Ti sei distesa

sull’erba. Mi è parso che tu fossi venuta meno, tanto il

tuo corpo si è abbandonato inerme. Mi sono piegato sul

tuo viso e ho sentito gli occhi sbarrati, senza sorriso, senza

sguardo, come i miei. Ti ho sentito sussurrare: “Signore.”

e mi hai avviticchiato le braccia al collo e mi hai premuto

sul tuo corpo. Ho gridato: “No, Ninetta. Non così: Enrico.”

“Enrico.” Le tue labbra hanno mormorato col mio

nome il desiderio della vertigine. Le mie mani esperte hanno

continuato a spogliarti fina ad arrivare là e a scostare

il mazzetto di quei piccoli fiori di bosco. Tu ti sei scoperta

il collo, il petto; braccia schiette, un po’ esili sul gomito

sono sgusciate come steli dalla guaina. Non si sono tese a

me, le hai ripiegate sotto il tuo capo. La tempesta mi stava

devastando l’anima…”

Nina e Ninetta non erano più. Nina si spense nel sorriso

come se avesse visto l’avvicinarsi di un astro che l’avrebbe

portata con sé; e col cuor di Ninetta, che batté ancora tre

colpi, appena in tempo prima che il fendente della sorella di

Sonno le rubasse per sempre la vita.

Cosa spinge un autore a pubblicare le sue opere e come definiresti il tuo stile?

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Molte possono essere le motivazioni. Per alcuni probabilmente il voler esprimere le proprie idee, l’ambizione, il desiderio di emergere, di raggiungere il successo, o semplicemente la realizzazione di un sogno. Nel mio caso la rabbia verso un mondo ipocrita, da un lato; la voglia di espandere nel mio piccolo una speranza, un’empatia, il gusto dell’amore, dall’altro. Riguardo il mio stile, rispondo con un’impressione di un insegnante di Filosofia e recensore veneto, un certo Gustavo Mattiuzzi, figlio di un bravo pittore: “… di questo tipo di scrittura ironica e graffiante si ha fortemente bisogno, dove gli umori sanguigni abbiano a colorire il linguaggio, dal momento che siamo travolti letteralmente da una narrativa esangue o cerebralizzata, ovvero minimale sotto ogni punto di vista, comunque avvincente.”

Secondo te c’è una connessione tra i tratti caratteriali dell’autore e la visione che esprime nei suoi racconti? E quanto sono determinanti le letture fatte nel corso della sua vita?

La connessione c’è indubbiamente: i miei tratti caratteriali sono ben presenti nei miei testi, anche se certamente non vi si notano tratti autobiografici evidenti: piuttosto il lettore si sente lui stesso coinvolto, tanto da immedesimarsi nelle storie e diventa in un certo senso volta per volta il protagonista. Del resto i miei personaggi non sono degli zombi ,ma persone comuni, talvolta lievemente deformate nell’intento di rendere le pagine più gustose e armoniche. Non determinanti, nel senso che non sono stato più di tanto condizionato, ma sicuramente importantissime le letture fatte nell’arco della mia vita. Nel mio caso specifico i libri sono stati strumenti straordinari per accelerare la mia autoeducazione. Ho sognato di parlare con Socrate, Galileo, Voltaire, Russell. Credo che poter leggere, seguendo i loro ragionamenti, i più grandi geni dell’umanità sia il desiderio di tutte le persone sensibili e animate da un’ autentica sana curiosità del sapere.

Qual è la vera fonte della creatività? L’insoddisfazione per quello che potrebbe essere il desiderio di dare un’impronta personale al mondo che ci circonda o un inesplicabile bisogno che è parte integrante della nostra umanità?

Ognuno vede coi suoi occhi il mondo e desidererebbe un mondo migliore, che tutto funzionasse a meraviglia, lo cerca a sua immagine, e soffre se ciò non accade. Molti grandi e piccoli uomini hanno cercato con l’esempio e le parole, il più delle volte a scapito della loro stessa vita, di raddrizzarlo, ma con miseri e a volte controproducenti risultati. “Il danaro e la gloria sono sempre stato tutto”, sembrano frasi di un vecchio cinico, invece sono parole che frequentemente vengono pronunciate da moltissimi giovani. Attualmente né la scuola, né la famiglia sanno offrire ( con poche eccezioni)un modello di vita moralmente sano e ricco di ideali. Eppure basterebbe in parte mettere in pratica quello che suggeriva il filosofo Bertrand Russell: “ Vuoi essere felice?Lotta per i problemi degli altri”.

Come si passa dall’essere un macchinista a diventare un affermato scrittore? In poche parole sei nato scrittore o lo sei diventato?

Onestamente non lo so quanto ha inciso la mia professione. Viaggiare e vedere sempre nuove persone però mi ha dato tanti spunti: non escluderei la sana curiosità che mi ha sempre contraddistinto, il vedere coi miei occhi drammi e sofferenze, lo spirito di osservazione che non mi è mai mancato. Scrittore lo sono diventato al pari con la vita vissuta. Il conoscere tante situazioni e persone diverse mi ha consentito di sdrammatizzare condizioni difficili con l’ironia. Ecco l’esempio di un vecchio che a suo modo aveva amato durante tutta la sua esistenza. Amore? Chissà. L’ho conosciuto attraverso gli occhi e le parole di mia madre, così gli ho dedicato un capitolo del mio secondo romanzo:

Giovanin Da Guiz

Rievocare quali fossero stati per Giovanin de Guiz ( l’ultimo e più famoso libertino della Strada del vino bianco) i suoi paradisi, prima di accedere all’ultimo, era cosa risaputa da tutti. Che fosse “ guizzato” sino all’età dei brontoloni, anche. Il figlio dodicenne della signora Marchesin, nascosto dietro la siepe che divideva la proprietà dei Pradal da quella dei Citron, aveva visto chiaramente l’ottantenne Giovanin in piedi , con le brache calate sugli zoccoli, che prendeva di tergo la vedova di Giulio Bortot, curva con il falcetto in mano in cerca di buon trifoglio per i conigli. Alla buon’anima di Giulio andava riconosciuto il merito di aver rifondato, con notevole spirito d’iniziativa, dieci anni prima della sua dipartita, la scuola cinica del pensatore Diogene da Antistene. I paesani più istruiti infatti avevano appioppato a Giulio, rifacendosi all’antico filosofo, il nomignolo di Diogene II. Non perché Giovanin negli ultimi anni fosse vissuto in una botte o avesse cercato durante il giorno l’uomo, ma perché aveva cercato ( e trovato )di notte il vino nelle botti degli uomini. La vedova si sarebbe più tardi raddrizzata, e all’indirizzo di Giovanin, fingendosi oltraggiata, spalancando gli occhi e inarcando le folte e bianche ciglia, avrebbe strillato:

-Porcon, te me a fata anche stavolta ( Porcone, me l’hai fatta anche questa volta ).-

E lui di rimando:

-Se vedemo stasera vecia cavaeona ( Ci vediamo questa sera vecchia cavallona ).-

Solo alcuni istanti dopo che che la donna col falcetto si era allontanata, il vecchio mandrillo si sarebbe rivolto al figlio della signora Marchesin:

- Vien fora, spion de un bocia ( Vieni fuori spione di un ragazzo ).

Ai tempi epici, Giovanin, le ragazze se l’era godute persino in bicicletta, percorrendo un sentiero scosceso che si snodava in discesa attorno alla collina che dal paese portava in città. Loro, sedute sul bastone con la schiena rivolta verso il manubrio aggrappate al batocchio a ridacchiare, lui imperterrito con una mano sul grilletto, la lingua del formichiere e gli occhi sbarrati solerti a schivare le buche. All’ospizio, sofferente di enfisema polmonare nel suo stadio più acuto, immobilizzato a letto dal catetere e da un febbrone da cavallo, gli ultimi minuti del suo alito vitale, spinto da un irrefrenabile desiderio ( complice il risveglio del colibrì ),Giovanin de Guiz scostò appena l’appiccicaticcio lenzuolo e sfiorò con lo scarno alluce valgo il lembo della corta gonna di Pierina, l’infermiera a pagamento che lo assisteva, barbugliando: “ Me basta un basin ( Mi basta un bacino ).” Non ricevendo risposta alcuna e giudicando ormai inderogabile l’appuntamento con la Signora della falce, quasi a volerla raddolcire ( o forse corteggiare? ), intonò per lei, accompagnato nella breve esecuzione da un fischietto catarrino, una canzoncina dei bei tempi lontani; “ E’ meglio far l’amor che pregar nostro Signor.” Gli estremi aneliti di vita li spese per fare il segno della Croce, poi, sposando l’ultimo lieve sussulto con un impareggiabile e malinconico sorriso, spirò.

Ci siamo conosciuti attraverso le pagine di Facebook, quanta importanza dai a questo social network e secondo te è una buona vetrina per un autore e quanto esso influenza la cultura del nostro paese?

Può rappresentare una discreta vetrina, specie per quelli come me che pubblicano romanzi considerati in parte scomodi e pubblicati da piccole case editrici. In questa centrifuga che è la Rete sociale, a volte anche i porci possono avere le ali e raccontare particolari della loro infanzia e dei loro amori impossibili. Cercherò di non essere tra questi. Nella maggior parte dei casi in un Social Network i rapporti sono del tipo “maschera”, cioè l’Ombra nostra che tendiamo a nascondere agli altri, per offrire la parte “sociale” , fattiva, non problematica, solare ( come i fidanzati all’inizio del loro rapporto amoroso).Non sempre però tutto fila liscio come si vorrebbe , poiché in discussione animate o in rapporti che si ritenevano amicali, la maschera può cedere per lasciare emergere le nostre parti in ombra, o quello che c’è dietro, vale a dire l’Anima. I cattolici si sono appropriati anche di questo termine , ma io intendo riferirmi a quella parte di noi non cosciente e poco nota che interagisce con l’aspirazione a congiungersi con l’altro per formare un unicum, che gli alchimisti medioevali chiamarono “ conjuctio”, la miscela di metalli ignobili per creare l’oro. Questa è la migliore delle ipotesi, perché quando la magia non riesce a dovere , la potenza dell’Anima agisce a distruggere i rapporti. Sì, credo che Facebook sia una vera rivoluzione, che sottraendo il primato ai tradizionali media , democratizza l’informazione e crea opinioni. È una magia della rete. Attenzione però: può favorire “espansioni di personalità” che non sempre si è in grado di gestire.

Quali sono i tuoi progetti futuri, ci sono sogni nel cassetto?

Da buon sognatore a occhi aperti ma coi piedi per terra, le mie aspirazioni future non possono che essere la pubblicazione di un prossimo romanzo, potente, ancora incentrato sull’amore, doloroso, perpetuo e vincente. Ironico, dolce e crudele, riflessivo, con cenni storici-religiosi, ambientato in parte nel presente e in parte nel passato. Tutto sotto il regno della Speranza, l’ultima dea immortale.

Sergio, l’intervista finisce qui, ma come promesso c’è una domanda di riserva, la stessa che rivolgo a tutti i miei amici in questa rubrica e con essa ti porgo i miei saluti e i miei ringraziamenti anche a nome di tutti i lettori di questa pagina. Quale domanda avresti voluto ti rivolgessi.

Mi sarebbe piaciuto che mi avessi chiesto che fossi io a porti una domanda, e visto che ci siamo eccola: Se Romeo e Giulietta fossero convolati a giuste nozze, se a Paolo fosse toccato di sposare Francesca, come sarebbero andate le cose? In sostanza, la parte migliore dell’Amore è prima, durante o dopo? ( si prega di non svincolare con la risposta).

L’amore ama giocare a nascondino, l’importante è fargli tana prima o poi.

01/03/2012

Autore: Rosalba Di Vona



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