Intervista ai giovani protagonisti dell’Amleto malostiano

Creato il 21 aprile 2013 da Retrò Online Magazine @retr_online

«I commedianti non son capaci di tener segreti; dicono tutto» (da “Amleto, principe di Danimarca” atto III, scena II). Non c’è due senza tre, ma pare che non ci sia neppure un tre senza quattro.  Si aggiunge infatti un altro mattone al prezioso cantiere di lavoro (nel senso debernardinisiano del termine) su Shakespeare del regista e attore Valter Malosti. Un evento scenico davvero ammirevole che, dopo la premiere torinese, si è spostato fra le alpi elvetiche; una messinscena cangiante per uno dei drammi più mefitici e insieme commoventi del teatro elisabettiano. «La vera struttura dell’Amleto – disse il compianto Testori –  è la totalità con cui esso ripropone il cuore del problema umano, è quella suprema domanda sul senso dell’esistere».

A più di un mese di distanza dalla prima nazionale al Gobetti di Torino, proviamo a ricomporre ed interpretare il contesto scenico di questa interessante rappresentazione. Uno spazio geometrizzante e claustrofobico, illuminato a tal punto da generare una certa inquietudine; un soffitto a cassettoni e un piano di calpestio (almeno apparentemente) un po’ inclinato, capace di offrire alle prime file di spettatori un senso di vertigine; porte scorrevoli che, chiudendosi rapidamente,  scandiscono un ritmo da incubo; tende terribilmente candide e agili; muri su cui svettano elementi schematici, quasi lesene ampiamente stilizzate. E poi gli attori: con un pizzico di crudeltà artaudiana svelano i complotti e le contraddizioni della vita, una vita carnale, sensuale e autentica, tratto – questo della corporeità – che non manca mai negli allestimenti malostiani. E infine le cromie spettrali che spaziano dal viola al verdastro – terra bruciata, impreziosite dai fasci di luce calda nelle scene frontali – quelle in cui “compaiono” gli attori della compagnia giunta ad Elsinore.

Guidano la vicenda sottili giochi di ponderazione: ironia e risse letali, delicatezza e deliri, amore e rifiuti.  Un po’ leziosa – forse – la lettura del Primo attore, che tuttavia si può interpretare come un invisibile fil rouge con la voce narrante de “Lo stupro di Lucrezia”. A conquistare la scena, al di là di tutto, i giovani diplomati alla Scuola del Teatro Stabile di Torino Leonardo Lidi (un Amleto ventiquattrenne) e Roberta Lanave (un’eccellente protagonista «proveniente dall’operosa Brianza», iconograficamente molto vicina all’Ofelia di Waterhouse), che ci hanno parlato della loro esperienza in questo delizioso “Amleto”.

In che modo è nato il progetto di Amleto?
Roberta: «Il progetto dell’Amleto nasce dalla reciproca fiducia che si è instaurata con Valter Malosti, direttore della scuola, il quale, in un periodo faticoso per tutti ma soprattutto per i giovani, ha deciso di investire sulle nostre energie, assumendosi un rischio che pochi hanno il coraggio di correre, preferendo talvolta nomi già noti nel panorama dello spettacolo (e quindi non del teatro) o la sicurezza di attori con anni di palco alle spalle».

Leonardo: «Il progetto di Amleto è nato grazie alla volontà di Valter Malosti di non arrestare un process artistico iniziato durante il periodo scolastico; un cantiere shakesperiano che iniziato con “Sogno di una notte di mezza estate” (spettacolo finale del triennio ), proseguito con “Lo stupro di Lucrezia” e giunto ora al nostro “Amleto”».

Che cosa ha significato confrontarsi con grandi attori come Valter Malosti (Re), Sandra Toffolatti (Regina) e Mariano Pirrello (Polonio)?
Leonardo: «Sandra e Mariano sono le persone giuste da inserire in un progetto “giovani”: sono sempre disponibili e propositivi; insomma, due persone eccezionali che spero di ritrovare nel mio percorso. Per quanto riguarda Valter Malosti, già mio Direttore nel periodo scolastico, non posso che ringraziarlo per l’opportunità e per la fiducia. In un periodo così difficile per il teatro italiano non è per niente scontato che un regista/attore si faccia in quattro per creare una realtà come questa. In pochi lo hanno sottolineato, ma trovo davvero unica la sua scelta di non interpretare il protagonista della tragedia, un bel segnale di una persona che crede nelle potenzialità delle nuove leve».

Ofelia smarrisce l’amore, il padre, il senno. Ma l’unica soluzione era davvero quel “suicidio per incidente” o avrebbe potuto provare a vivere ancora?
Roberta: «È vero, Ofelia perde tutto. Prima l’amore, anche se è un amore che Shakespeare quasi non fa vedere, perché da testo Ofelia viene subito messa in guardia, obbedisce all’ordine paterno di non vedere più Amleto e così assistiamo alla rottura di una relazione mai sbocciata davvero. Nel nostro lavoro invece si  aprivano delle finestre di senso su questa relazione, accostando la disobbedienza di Ofelia ad alcune scene in cui si esprime, anche concretamente, carnalmente, la loro passione. Da qui, è più facile capire perchè l’allontanamento improvviso di Amleto funga da primo cedimento per i nervi (secondo me già fragili) di Ofelia. Le manca la chiave, non capisce, avverte che sta succedendo qualcosa, ma non sa dov’è esattamente il marcio. E infatti, nello smarrimento, si affida ai giochi di corte, forse sottovalutando quello che ha attorno. Ma d’altronde Amleto non l’ha ritenuta degna di essere messa a parte del suo segreto.  Poi, naturalmente, il grande dolore della morte del padre, oltretutto per mano dell’amato perduto. A questo punto è sempre più chiaro che Ofelia sia lo specchio di Amleto: come lui perde il padre per mano di una persona amata – è infatti la regina ad aver assassinato Amleto-padre. Ed è paradossalmente proprio qui che i due giovani si dividono: Ofelia assume su di sé il peso della ferocia, della barbarie e di tutto il sangue che ha già imbrattato i pavimenti di Elsinore e che poi diventerà un mare nel finale. La sua morte arriva come un martirio, come un macabro avvertimento, come una tromba apocalittica. Direi che è qualcosa di più di un “insano gesto”, di un “suicidio per incidente”: è il simbolo del sacrificio femminile (si pensi oggi a Lars Von Trier, che l’ha assunto come poetica), laddove l’uomo invece, in questo caso Amleto, rimane immobile, incapace di agire: finge per tutto il dramma di essere pazzo e lei diventa pazza sul serio; fa un monologo di un quarto d’ora su quanto sarebbe bello «togliersi di mezzo con un semplice pugnale» e poi è lei a cancellarsi davvero, ed è proprio la sua morte a far detonare la tragedia, a farla esplodere in qualcosa che se non altro assomiglia alla verità, dopo l’eterno indugio nella menzogna. Perciò no, non poteva provare ancora a vivere. Altrimenti l’Amleto non sarebbe mai finito».

Una dimensione interessante dell’opera shakespeariana è il canto. Qual è il tuo rapporto con la musica in scena?
Roberta: «Nel canto viene sublimata la sofferenza di Ofelia, come se, ormai superato l’essere umano, non si esprimesse più con il suo linguaggio, con la parola, ma con una forma che appartiene a un altro paese, forse quello “inesplorato da cui nessun viaggiatore è mai tornato”, a cui lei si sta avvicinando e per questo ne sente gli echi e li riporta come può a questo mondo barbaro, il quale non la capisce, la chiama pazza, perché sordo alla bellezza e cieco alla verità, chiuso nella sua caverna che continua a guardare dal lato sbagliato. In quel canto c’è Cassandra, una profetessa che non viene ascoltata.  Io non ho mai studiato musica, ma cantare mi apre delle visioni sempre inedite e lo faccio con un istinto che mi stupisce ogni volta. La musica è certamente un mezzo suggestivo, ma in teatro diventa vero e proprio elemento drammaturgico, una forma di dialogo con il pubblico, che si serve di una piattaforma di ricezione viscerale, così come l’immagine, e non mentale, come la parola».

Pensieri “a freddo”, ad alcune settimane dalla chiusura a Torino?
Leonardo:  «Spero che tutto ciò abbia un seguito. Da parte mia posso solo dirmi riconoscente e pronto per le prossime avventure. Un’ultima parola vorrei spenderla per i miei compagni, i miei amici, con i quali sono fiero di aver condiviso il palcoscenico. E sono convinto che questo sia solo l’inizio. Un ringraziamento particolare a Jacopo Squizzato (Orazio) per il suo aiuto durante la preparazione dello spettacolo».

Lo spettacolo è stato dedicato alla costumista Federica Genovese, scomparsa lo scorso febbraio: per omaggiarla, gli attori hanno indossato gli abiti di scena allo stato di definizione cui l’artista 41enne li aveva lasciati.

Articolo di Matteo Tamborrino.


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