Intervista al Direttore della Fotografia Ed Lachman, Presidente di Giuria del Biografilm 2013
La nona edizione del Biografilm festival di Bologna ha avuto l’onore di avere come Presidente della Giuria Internazionale il grande Direttore della Fotografia Ed Lachman, che nella sua carriera cinematografica ha lavorato con registi del calibro di Robert Altman, Sofia Coppola, Steven Soderbergh, Ulrich Seidl e Todd Haynes. Il festival bolognese dedicato al racconto di vite straordinarie e ordinarie, ma comunque interessanti e affascinanti, ha dedicato quest’anno un’intera retrospettiva a questo mago delle immagini, proponendo alcuni dei suoi film più importanti tra cui Il Giardino delle Vergini Suicide, Erin Brockovich, Lontano dal Paradiso, Io non sono qui e la trilogia di Seidl, Paradise Faith, Paradise Love e Paradise Hope, reduce dalla scorsa edizione del Festival di Venezia.
Abbiamo incontrato Lachman durante il festival e ci ha raccontato le caratteristiche del suo lavoro, tra alti e bassi, tra la pellicola e il digitale e la collaborazione con i vari registi che hanno richiesto la sua professionalità nel corso degli anni.
Come ha iniziato il suo percorso professionale nel ruolo di Direttore della Fotografia?
Frequentavo una scuola d’arte quando mi sono collegato all’idea che le immagini possono raccontare la storia. Ho fatto un corso e ho visto per la prima volta i film di Vittorio De Sica. In particolare si trattava di un film che raccontava la storia attraverso le immagini; parlava di un uomo anziano che perdeva il suo cane che era l’unica cosa che lo rendeva ricco nella sua vita. Quindi veniva mostrato sullo schermo il significato della vera miseria umana. Mi sono reso conto per la prima volta che le immagini vanno sullo schermo secondo uno schema ben preciso e non in modo casuale. Per quanto concerne la letteratura è facile esprimere con le immagini come ti senti ma non dove sei, cosa fai etc… nel cinema accade l’opposto: puoi mostrare dove sei in una semplice inquadratura, ma entrare nella mente del personaggio è molto più complicato. Io con i registi cerco di entrare nel mondo interiore del personaggio perché il linguaggio del cinema per me è fatto di immagini e non di parole e molte volte i film muti sono i film più puri sotto questo punto di vista. Quello che fanno i registi e i Direttori della Fotografia è entrare nella mentalità di un personaggio per raccontare la storia.
Come si svolge il suo lavoro e quali sono i limiti professionali all’interno della lavorazione di un film?
Per prima cosa ricevo il copione dal regista, lo leggo e mi faccio un’idea visuale per raccontare la storia. Poi lo incontro e parlo con lui delle varie possibilità visive del copione. Ho trovato alcuni registi che approvavano l’idea di lavorare insieme, altri meno, però molti di loro apprezzano di lavorare in sinergia perché in fondo tu devi parlare della loro storia e questo è il modo migliore per instaurare un buon rapporto di lavoro. Molti registi invece sono minacciati perché si sentono quasi come derubati della loro storia, ma non è così.
Lei ha lavorato per la realizzazione di film di stile diverso. Cosa ci può dire su questo?
Molti film oggi sono girati con uno stile documentaristico perché si parla di ‘realismo emozionale’, ma anche nei film commerciali c’è questo realismo emozionale anche se più nascosto. Gli stili spesso sono confusi e noi dobbiamo considerare che vengono manipolati. Se è fatta bene tale manipolazione, il film risulta efficace per il pubblico. Io credo che le immagini siano una musica e come la musica, esse sono forma di una comunicazione non verbale. Per questo possono essere molto forti e di impatto e non tutti i registi sono capaci di questo.
Ha lavorato con il regista austriaco Ulrich Seidl, conosciuto come un artista fuori dalle righe, che realizza i propri film con modalità originali e insolite. Come si è trovato a lavorare con lui?
Ho lavorato con lui per la trilogia Paradise Love, Paradise Faith e Paradise Hope, che deriva dal documentario, anche se la sua forma intera è parte del suo stile. Sono mescolati la gente comune e gli attori, e abbiamo girato in vere location e non in luoghi fittizi, sviluppando storie fuori dalla realtà di cui stava parlando e questo viene fuori dall’idea del realismo italiano. Lui usa uno stile chiamato ‘dogma’ in Scandinavia, secondo cui non conta quello che dici ma come esprimi l’idea e il modo in cui è raccontata la storia.
In particolare per Paradise Love in termini tecnici come è stato realizzato?
Il lavoro si è concentrato sul copione e il regista ha permesso ai personaggi di mantenere la loro essenza e i luoghi erano scelti nella realtà e non costruiti. Per esempio l’albergo in cui la donna incontra gli amanti è un luogo esistente. Il copione nei film di Seidl non è basato sul dialogo, ma su una descrizione dettagliata della storia, per raccontare la storia in un modo efficace al pubblico. Abbiamo portato in Africa le attrici del film e abbiamo fatto delle riprese preliminari per vedere come recitavano in un primo impatto, anche se questo modo di lavorare richiede più tempo e denaro. Il regista ha cercato di girare le scene poche volte, le guardava diverse volte e decideva poi la direzione della storia. E’ un diverso modo di girare meno efficace e richiede più energia, ma dà un senso più realistico e con questo sistema spesso si girano i documentari. Con la macchina da presa egli fa sì che il pubblico entri nel vivo della scena da fuori. Usa la macchina da presa a mano per entrare meglio nel vivo della performance, avvicinandosi e allontanandosi in continuazione. E se un attore gli chiede cosa deve fare, lui dice di fare quello che farebbe normalmente in maniera diretta. Gli attori devono portare se stessi sulla scena.
Trova delle differenze tra il modo di lavorare dei registi europei e i registi americani?
Assolutamente. E’ molto diverso lavorare in Europa e in America, sia per i budget a disposizione, sia per il lavoro vero e proprio. Ma nello stesso modo in cui è diverso girare un film indipendente rispetto ad un film commerciale. L’unica cosa importante è trovare un linguaggio adatto e personale per fare una storia. Nel cinema europeo è importante il linguaggio cinematografico personale, mentre a Hollywood si lascia meno spazio al dialogo rispetto alle immagini.
Tra i registi statunitensi per esempio ha lavorato con Todd Haynes e Sofia Coppola, cosa ci può dire su questa esperienza?
Nel film di Todd Haynes Io non sono qui si racconta la storia attraverso le immagini. La cosa interessante di Haynes è che nel film si riferisce molto alla cultura e al linguaggio cinematografico dell’epoca, non solo per ragioni stilistiche, ma per cercare di trovare un linguaggio adatto per il pubblico che possa capire cosa sta dicendo. In Lontano dal Paradiso per esempio, egli si ispira al fumetto e romanzo fatto in occasione dello spostamento di Douglas Sirk dalla Germania agli USA. Quando è arrivato in Usa, Sirk ha trovato difficoltà per lavorare nel cinema statunitense, scriveva copioni per melodrammi e quando ebbe l’opportunità di fare il regista di uno di questi, scoprì la forte atmosfera di critica sociale nei confronti della classe media americana. Dovette trattare di pregiudizi sessuali, razziali etc… nei suoi film. Dovette usare mezzi visuali, con diversi tipi di macchina da presa con riprese che durarono 18 giorni. Oggi Todd Haynes lavora ancora sulla repressione, soprattutto della donna come attrice, che non riesce ad esprimere quello che prova a causa della società. Questo film mostrava il sogno della classe media americana con colori vivi, sfarzosi che fanno sognare il pubblico, mostrando loro cose che difficilmente potrebbero ottenere, distanziando la macchina da presa dal personaggio e mostrando quello che vuole essere e non quello che è realmente. Sofia Coppola invece lavora molto bene e per me è stata una bella esperienza. Lei scrive il film, dirige gli attori con molta cura, ma soprattutto ti rende partecipe del progetto e quindi anche io ho lavorato molto bene e mi sentivo a mio agio durante le riprese.
Che ne pensa del cinema italiano? Le ha dato ispirazione in qualche occasione? Le piacciono per esempio Sorrentino o Garrone?
Mi piacciono molto. Mi è piaciuto molto Il Divo per esempio , ma credo che in Italia sia molto difficile fare un film, sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista politico.
Tuttavia per Io Sono Qui ho preso ispirazione dal cinema italiano del passato per esempio. Bob Dylan per ogni album che faceva si reinventava sempre e lui e la cultura pop si influenzavano reciprocamente. Ha viaggiato attraverso diversi stili di musica e come artista dandy rinnegava il passato per reinventarsi qualcosa di nuovo ed Haynes ha reso Bob Dylan in sei diversi personaggi e ci siamo chiesti: come possiamo comunicarlo con le immagini? Con il cinema degli anni ‘60 e ‘70 e in un certo modo volevamo distanziarci dal documentario Don’t Look Back che era stato fatto sempre su Dylan. Così lo abbiamo fatto come il cinema di Fellini e Antonioni che si distaccavano dal documentario semplice e Dylan per un certo verso può essere paragonato al Mastroianni di 8 e Mezzo, quando si distacca dal folk per andare verso la musica elettronica e questo passaggio lo abbiamo ripreso in bianco e nero. Il personaggio di Heat Ledger che è il Bob Dylan attore, nella scena di My Life to Live, parla del problema della sessualità e dei suoi rapporti nella vita. Haynes ha usato la telecamera in modo più dialettico che naturalistico, distanziandolo dal personaggio per un approccio più polemico che politico.
Le nuove tecnologie digitali che ormai stanno invadendo il cinema, come influiscono sul suo modo di lavorare?
Io personalmente preferisco la pellicola, adoro il digitale per girare i documentari perché il documentario minimizza l’approccio al racconto della storia. E quindi in quel caso è meglio il digitale, perché non si usano luci ed è più semplice come ripresa. Spesso sposto una luce fluorescente. La pellicola è fatta da tre strati, verde, rosso e blu. La grana piccola per le luci basse e la grana grossa per le luci alte e le immagini nascono dalla luci come un’azione mentre la grana si muove da inquadratura ad inquadratura. L’immagine digitale invece è su un piano solo. Ombre, colori, e fuoco dell’immagine sono sullo stesso piano. C’è quindi una mancanza di profondità e manca il senso organico della grana che si muove. Per questo preferisco la pellicola, perché ho sempre lavorato con quella e spero di farlo anche in futuro. I colori inoltre non rendono nello stesso modo e misura.
Cosa ne pensa del Biografilm?
Il cinematografo potrebbe sapere come raccontare la storia, ma il regista dovrebbe sapere perché vuole raccontarla. Devi avere una vera ragione per raccontare una storia e questo festival è una grande opportunità per farlo e con l’avvento del digitale le opportunità sono anche maggiori.
di Letizia Rogolino