Intervista al gruppo: “Sì al Nucleare”

Creato il 10 maggio 2012 da Eurasia @eurasiarivista
:::: Andrea Fais :::: 10 maggio, 2012 ::::  

Sì al nucleare. Più che un slogan, di questi tempi in Italia, parrebbe una dichiarazione di guerra. Eppure, questo è il nome di un gruppo composto da diverse persone ben informate sui temi relativi all’energia atomica, e determinate a diffondere ogni possibile analisi e disamina in materia nucleare. Hanno deciso di aprire una pagina omonima su facebook, incontrando favori e immancabilmente molte critiche. L’Italia è un Paese particolare, uno Stato in cui è sempre più difficile parlare di energia nucleare in modo distaccato e scevro da pregiudizi di tipo ideologico e “morale”. In realtà, anche la loro è una “missione politica”, se vogliamo. Anzi, in mezzo al qualunquismo e al disastro dilagante nel nostro Paese, un gruppo di comuni italiani che cercano di ragionare in modo scientifico sui fondamentali ambiti delle fonti energetiche e della ricerca dei fattori necessari ad un autentico benessere economico e sociale, senz’altro spicca per merito e segna un’importante inversione di tendenza. Tuttavia, essi preferiscono non darsi etichette, al di là del loro status di cittadini italiani che pretendono, legittimamente, una politica seria, diversa, coerente e realmente intenzionata a realizzare sul serio gli interessi nazionali della nostra cara e bistrattata Penisola. Li abbiamo incontrati per sentire cosa vogliono e cosa chiedono alla politica.

 

D: Da diverso tempo avete aperto una pagina sul popolare social network occidentale facebook, per innescare una discussione aperta e scevra da dogmatismi ideologici in merito all’energia nucleare e a tutti quelli che sono i vantaggi in termini economici e geopolitici che ne deriverebbero, qualora l’Italia dovesse decidere di riprenderne in considerazione lo sviluppo. Il vostro gruppo si è col tempo espanso, sino a diventare una fonte di regolare aggiornamento scientifico su tutto ciò che riguarda la ricerca atomica in Italia e nel mondo, e state addirittura organizzando una manifestazione pacifica per il prossimo mese di settembre, dedicata proprio ai temi del nucleare. Chi siete e come vi proponete dinnanzi all’opinione pubblica?

R: Siamo in primo luogo un gruppo di cittadini seriamente preoccupati per la situazione energetica italiana; essa rappresenta uno dei problemi economici più gravi che il nostro Paese si trova ad affrontare e sta rapidamente assumendo un peso sempre maggiore, specialmente se le scelte che verranno attuate nel presente non saranno oculate e lungimiranti. Fra noi ci sono anche tecnici specializzati nel settore che forniscono il dovuto supporto scientifico, uno dei quali lavora nel settore della ricerca nucleare all’estero.

Ci sono inoltre persone professionalmente estranee all’argomento, ma accomunate dall’intento di informare il più correttamente possibile il vasto pubblico sulla tematica, di per se estremamente complessa e vasta. Pensiamo infatti che il pubblico sia poco e male informato. Del resto, ripetere acriticamente uno slogan è molto più facile che studiare una tematica complessa, alla lunga siamo certi che questo approccio non paghi, per questo è necessario promuovere un dibattito informato e scevro da ideologie e preconcetti. Ci pare invece che la stampa e i mass media in Italia siano tutti ideologicamente schierati, e questo ci preoccupa molto. La manifestazione del 30 settembre, che stiamo organizzando in occasione dell’anniversario della nascita di Enrico Fermi, si propone di far conoscere alla gente il nostro punto di vista sinora distorto ad arte dagli oppositori al nucleare.

D: Il tema del nucleare, come visto ampiamente, è quasi un tabù ideologico nel nostro Paese. Le campagne mediatiche operate dalle principali sigle ambientaliste ed ecologiste hanno ormai trasformato qualunque dibattito sul filone in una rissa verbale, virtuale o reale, al bar o in televisione. Tuttavia, dimentichiamo che nel nostro Paese sono presenti diversi ordigni nucleari della Nato dislocati all’interno di alcune delle più note basi militari del nostro territorio nazionale, e che a pochi chilometri dai nostri confini, la Francia e la Slovenia ricorrono quotidianamente all’utilizzo di energia nucleare. In un contesto del genere, il nucleare per l’Italia sarebbe un pericolo reale o invece potrebbe rappresentare un’opportunità per integrarsi in un sistema internazionale che vede ricorrervi praticamente quasi tutti i Paesi industrializzati e addirittura anche alcuni in via di sviluppo, come l’India, il Sud Africa o il Pakistan?
 
R: Chiariamo una cosa: il nucleare militare c’entra poco o niente col nucleare civile. La confusione fra le due tecnologie è il cavallo di battaglia degli antinuclearisti, mal informati o in malafede checché ne dicano. Qualche esempio? La Francia, come la Cina o l’India svilupparono i loro programmi militari molto prima ed indipendentemente dai programmi civili. Ad esempio il primo test nucleare francese, la Gerboise Bleue, risale al 1960, mentre il massiccio sviluppo dell’industria nucleare civile si ebbe solo nella seconda metà degli anni ’70, in seguito alla crisi petrolifera del 1973 come risposta per dare maggiore sicurezza energetica.

Parlare di nucleare in Italia è tabù, non si può mai fare un discorso serio in merito senza arrivare alla rissa verbale, non mancano purtroppo gli esempi. A questo tipo di meccanismo non intendiamo sottostare. Non si affronta così, in un Paese moderno e civile, una tematica tanto importante e complessa. Nel Regno Unito sono state effettuate diverse trasmissioni che spiegano al cittadino la tematica legata all’energia – ad esempio come si gestisce una rete elettrica, che tipo di difficoltà sorgono e come vengono affrontate. Secondo noi, chiunque voglia intervenire sull’argomento ne ha pieno diritto, ma solo dopo essersi debitamente informato. Non vediamo come possa farlo in Italia, vista la mancanza di questo tipo di programmi di documentazione. Altro esempio: recentemente l’ente elettrico olandese ha inviato una lettera ai suoi clienti spiegando che si trovava costretto ad aumentare le tariffe, e ne spiegava i motivi, fra cui citava la chiusura di alcuni impianti nucleari tedeschi, che hanno avuto l’immediato effetto di aumentare il prezzo dell’energia nella borsa elettrica. Risulta a qualcuno che gli enti elettrici italiani abbiano fatto la stessa cosa?

Ricordiamo che attualmente, nel mondo, sono in funzione 436 reattori nucleari, e ben 62 sono in costruzione. A parte Germania ed Italia, con le loro decisioni basate sull’onda emotiva ampiamente montata ad hoc da una stampa schierata e spesso deontologicamente scorretta, le altre nazioni del mondo, dopo un periodo di verifiche per adeguare gli standard di sicurezza in seguito all’incidente di Fukushima, hanno deciso di continuare su questa strada. In particolare è sintomatico che, anche dopo l’incidente giapponese, negli Stati Uniti l’NRC (ossia l’ente di controllo preposto) ha approvato ad inizio 2012 la costruzione di quattro unità nucleari (del tipo Gen.III+) di modello AP-1000: due nell’impianto di Vogtle in Georgia e due nell’impianto V.C. Summer nella Carolina del Sud. Un fatto che di per se dovrebbe far riflettere.

Ci teniamo a dire che noi non stiamo proponendo il nucleare come unica fonte, bensì come una delle fonti del mix energetico assieme a tutte le fonti in funzione delle rispettive capacità di generazione.

Infine, il fatto che i Paesi in via di sviluppo stiano considerando la fonte nucleare, contraddice radicalmente la linea della sua antieconomicità propugnata dagli oppositori (specialmente dopo aver esaurito gli argomenti).

Si pensi poi al fatto che l’adozione di adeguati sistemi nucleari consentirebbe anche di desalinizzare l’acqua del mare, garantendo riserve di acqua dolce in certe particolari zone del pianeta. Tale opzione è già stata studiata in passato: si pensava di utilizzare delle unità mobili che avrebbero dovuto fornire energia ed acqua potabile – fatto rilevantissimo se si considera che le prossime guerre potrebbero avere luogo per il controllo delle fonti idriche.

Vogliamo, inoltre, qui solo citare il fatto che l’energia nucleare potrebbe essere utilizzata efficacemente per la produzione di idrogeno da utilizzare quale combustibile per l’autotrazione che – ricordiamolo – è un vettore energetico, non una fonte, e non si trova libero in natura in quantità significative. In Giappone, ad esempio, ne è stata studiata la fattibilità industriale (processo IS).

D: In Italia, uno dei tecnici più apprezzati ed odiati allo stesso tempo in materia nucleare è Fulvio Conti, amministratore delegato di ENEL. Da almeno vent’anni, strenuo sostenitore di un ponderato ritorno all’utilizzo dell’energia nucleare per finalità domestiche ed industriali, Conti ha illustrato in più di un’occasione quali sarebbero i vantaggi di un piano di diversificazione nell’approvvigionamento energetico, in termini ambientali, economici e logistici. Denigrato da più parti, ma anche molto stimato per le sue conoscenze e il suo approccio scientifico e distaccato, ha dovuto rivedere e frenare i piani presentati a Villa Gernetto nel 2010, nel quadro di una cooperazione italo-russa tra ENEL e InterRaoUes, dopo il brusco stop stabilito dal referendum dello scorso anno e dopo il definitivo crollo del governo Berlusconi sotto i colpi del fatidico spread. Questo ha dimostrato non soltanto la debolezza in materia strategica ed energetica del nostro Paese, ma anche l’endemica ideologizzazione pubblica su temi che invece dovrebbero essere affrontati con un approccio del tutto scientifico. Come pensate di integrarvi in questo ancora minuscolo fronte nuclearista e quali possibilità realisticamente esistono per il ritorno al nucleare nella Penisola?

R: La nostra è solo una battaglia per la verità. Nessuno di noi vende impianti nucleari o di altra natura, e la nostra passione è puramente civile. Non riceviamo fondi né finanziamenti e sappiamo bene che nel confrontarci col cosiddetto fronte “ambientalista”, ben finanziato e supportato, assumiamo il ruolo di Davide contro Golia. Le parole di Schopenhauer recitano “Tutte le verità passano attraverso tre stadi. Primo: vengono ridicolizzate; secondo: vengono violentemente contestate; terzo: vengono accettate dandole come evidenti“.

Non intendiamo convincere nessuno, non è il nostro fine, e non ci interessa. Desideriamo solo far capire al massimo numero possibile di persone che prima di disquisire di qualsiasi argomento, specie se complesso e di importanza strategica per il futuro del Paese, bisogna ben informarsi da fonti affidabili. Questo dovrebbe essere un concetto già acquisito da ognuno a scuola, purtroppo così non è affatto; secondo, cerchiamo di fornire a chi desideri informarsi il materiale per farlo, niente politica, ideologia o quant’altro.

Sono del resto argomenti tecnici, governati da leggi fisiche e matematiche, quindi difficilmente opinabili. Nulla a che spartire coi sentimenti o le ideologie. L’energia non ha ideologia o colore politico.

Fare il nostro “mestiere” dopo il secondo referendum in merito (sulle cui modalità preferiamo non esprimerci) è diventato oltremodo complesso: speriamo che un giorno qualcuno se ne assuma la responsabilità per le conseguenze future. Siamo però ben consci che i politici non pagano praticamente mai per i loro errori.

D: Il ritorno al nucleare produrrebbe tutta una serie di ripercussioni in ambito geopolitico. Basti pensare alla dipendenza di Roma dalla Russia, dai Paesi del Golfo e del Nord Africa e dalla Francia nel mercato degli idrocarburi lungo gli ultimi anni, per capire come l’Italia sia sempre stata fortemente condizionata da altri Stati nelle sue scelte di politica estera. Dopo la devastante guerra in Libia e dopo le sanzioni che l’Unione Europea ha deciso di comminare ai danni dell’Iran, il ritorno al nucleare appare l’unica scelta possibile per supplire alla domanda energetica in un Paese dove le stesse tariffe di consumo sull’energia elettrica stanno aumentando spaventosamente. Credete che vi siano forze politiche o gruppi di pressione economici che cercano di cavalcare la paura sociale ed il terrore mediatico per impedire che l’Italia si doti di nuovi impianti nucleari e dunque di una sua sovranità energetica?

R: Diciamo alcune cose, tanto per rispondere a qualche sciocchezza di quelle che vanno di moda: Italia e Francia, nonostante quest’ultima sia il Paese più nuclearizzato del mondo, consumano quantità simili di petrolio. Vero. Tuttavia non si dice che i due Paesi usano il petrolio primariamente per l’autotrazione. Non si dice inoltre che, al contrario della Francia, l’Italia produce oltre metà della propria energia elettrica col gas, consumandone oltre 82 miliardi di metri cubi all’anno, cioè più di Francia, Svizzera, Portogallo, Danimarca, Romania e Finlandia messe assieme! Questo fatto, dovrebbe far riflettere.

Ricordiamoci la storia dello sviluppo energetico del nostro Paese, dall’omicidio di Enrico Mattei all’incriminazione di Felice Ippolito (la centrale Enrico Fermi di Trino Vercellese fu costruita in soli 3 anni, dal 1961 al 1964, a dispetto dei 20 anni che ci vorrebbero secondo i detrattori del nucleare), passando per Tangentopoli – come non ricordare l’articolo di Giangiacomo Schiavi “Il gas uccise l’atomo” apparso sul Corriere della Sera nell’aprile del 1993, li si dimostrava che l’abbandono dell’atomo fu dovuto alle tangenti elargite dalle lobby del gas metano al PSI…

I soli ad avere un tornaconto da questa situazione sono stati coloro che avevano interessi nel mondo del petrolio e del gas; nel frattempo i movimenti “ambientalisti” nostrani intrattenevano con l’ENI e la SNAM rapporti a dir poco idilliaci.

Ricordiamoci di cosa successe a Trecate, in provincia di Novara, il 28 febbraio 1994! Ebbene il tappo di un pozzo di trivellazione sito nel bel mezzo del parco naturale del Ticino saltò, scaturendone una eruzione di petrolio, gas ed acido solforico; andò avanti per ben tre giorni. Ci fu la paralisi dei trasporti in quella zona, e fu chiamato addirittura un tecnico da Houston, già al lavoro come esperto nei pozzi kuwaitiani. Molte persone dovettero lasciare le proprie case e il sindaco di Trecate proibì la vendita ed il consumo di prodotti agricoli. Alla fine il flusso incontrollato si interruppe solo per il crollo delle pareti del pozzo, ma il fortissimo inquinamento da idrocarburi si estendeva per 40 chilometri quadrati. Furono fermate tutte le attività agricole asportando strati di terreno per un’area di 5.000 metri quadrati, proprio come a Chernobyl. La tragedia ambientale ha interessato i media nazionali per non più di tre giorni. E oggi, grazie anche all’impegno “ambientalista” dell’Agip, non se ne ricorda più nessuno.

I movimenti “ambientalisti” che si oppongono allo sfruttamento dell’energia dell’atomo rappresentano la parte emersa di un insieme di interessi di aziende che operano in regime di monopolio: quelli petroliferi e metaniferi per esempio, quelli elettorali dei partiti politici che hanno ottenuto facili consensi sfruttando il terrore e la disinformazione seguita al tragico incidente di Chernobyl prima ed il più recente di Fukushima poi; quelli dello Stato che non vuole rinunciare alle accise sul petrolio e sul gas; quelli delle correnti politiche e di potere che hanno prosperato per anni grazie ai finanziamenti occulti delle lobby petrolifere (almeno tre processi negli ultimi anni hanno tentato di far luce in merito). Come crede possa trovare spazio il nucleare in tutto questo?

Oltretutto, i media nazionali sono sponsorizzati direttamente o indirettamente, da persone o gruppi che hanno interessi prominenti nel mondo del petrolio e del gas; ben pochi vivono delle informazioni vendute al pubblico (anzi, talvolta tale componente dei bilanci è secondaria). Un sistema così squilibrato di sicuro non può fare informazione in modo obiettivo ed ha contribuito senz’altro in maniera molto importante alla capillare diffusione della radiofobia presso la popolazione, come evidentemente pianificato da qualcuno.

D: Proprio in vista di un possibile ritorno al dibattito in materia di energia nucleare, l’ENEL aveva diffuso meno di due anni fa un cd interattivo a carattere divulgativo realizzato assieme a EDF, dove – in un linguaggio facilmente comprensibile al pubblico – veniva descritto il funzionamento di una normale centrale nucleare, dalle norme di sicurezza per la realizzazione del sito sino allo stoccaggio e al deposito delle scorie, con riferimenti anche a ciò che avviene all’estero. Tecnicamente in cosa consiste e come funziona una centrale nucleare?

R: La tecnologia nucleare è una cosa complicata purtroppo, per essere capita a fondo richiede senz’altro anni di studio. Tuttavia noi promuoviamo ed alle volte produciamo dei documenti tecnico-divulgativi esposti nella maniera più semplice possibile, documenti per tutti. Naturalmente, è necessaria la volontà di volersi informare.

Sinteticamente: una centrale nucleare funziona in maniera molto simile ad una tradizionale centrale termoelettrica (a carbone ad esempio): si ha una fonte di energia termica che genera vapore il quale a sua volta muove una turbina collegata ad un alternatore generando energia elettrica, analogamente alla dinamo di una bicicletta, che poi viene immessa in rete.

Nel caso di un impianto nucleare la fonte di questo calore è appunto l’energia sprigionata dall’atomo per fissione nucleare, ovvero quel processo che spezza l’atomo di uranio in due atomi più leggeri liberando energia. Ricordiamo che di uranio nel mondo ce n’è un quantitativo non trascurabile: sulla crosta terrestre è tre volte più abbondante dello stagno. Fra risorse convenzionali e non convenzionali si stima ci siano riserve per circa 40 milioni di tonnellate nel mondo, escludendo l’acqua di mare, naturalmente. Col consumo attuale, circa 65.000 tonnellate annue, dunque basterebbe per almeno 6 secoli.

Prevedendo un aumento vertiginoso della domanda di energia entro i prossimi decenni (altro punto su cui si medita ben poco nonostante istituti specializzati se ne occupino da anni, come la IIASA tanto per citarne uno) le risorse totali di uranio si esauriranno più rapidamente ma non prima di 1 secolo e mezzo.

Riciclando il plutonio nei reattori di quarta generazione le risorse si moltiplicherebbero di 100 volte, quindi potremmo disporre delle necessarie risorse energetiche per i prossimi secoli, nonostante la crescita della popolazione e dei consumi.

Per il cosiddetto “problema delle scorie”, il loro trattamento non è banale indubbiamente: tuttavia esistono già delle soluzioni adeguate quali lo smaltimento in siti geologici, come hanno deciso di attuare gli svedesi (a Forsmark) ed i francesi (a Bure), ad esempio. Abbiamo visitato personalmente alcuni di questi siti, parliamo per conoscenza diretta. Non dimentichiamoci delle tecnologie in corso di studio sulla trasmutazione nucleare, quella tecnologia che consente di trasmutare le scorie in elementi a vita molto più breve, incenerendo gli elementi più pericolosi.

Vorremmo ricordare quanto sta avvenendo col progetto “MYRRHA” ad opera dell’SCK-CEN (l’ente belga di ricerca preposto, con sede a Bruxelles): é un impianto sperimentale per provare la fattibilità di un reattore sottocritico alimentato da un acceleratore di particelle (grossomodo l’idea del Prof. Rubbia), che dovrebbe venire realizzato a Mol, proprio nel Belgio. L’impianto servirà a studiare varie tecnologie, fra cui quella della fattibilità tecnica della trasmutazione delle scorie citata sopra ma non solo: anche ricerche sui materiali per i reattori di quarta generazione, sulla tecnologia della fusione nucleare, produzione di silicio per applicazioni rinnovabili per irraggiamento neutronico, radioisotopi per la medicina nucleare, importantissimi per certe applicazioni mediche ma settore a rischio data la graduale uscita fuori servizio dei reattori dedicati alla loro produzione per giunti limiti di età. Il governo belga ha promesso di finanziare il 40% delle spese se si trovano i finanziatori che coprono la restante parte delle stesse. Il totale ammonta ad 1 miliardo di euro circa – bei soldi di sicuro, ma se si confronta con le centinaia di miliardi spesi per l’installazione dei pannelli fotovoltaici (anche nella sola Italia), che producono una parte irrisoria dei nostri bisogni, appare una cifra relativamente modesta. Ebbene a trovare i finanziatori pare si stiano trovando grosse difficoltà. Ecco la tecnica degli antinuclearisti: far seccare un ramo, e poi tagliarlo con la scusa che è secco. Noi a questi giochi non ci stiamo e intendiamo fare da osservatorio su questi fatti e denunciarli pubblicamente.

D: Avevate accennato alla condizione di difficoltà in cui si trova il settore della produzione di radionuclidi per la medicina nucleare. Potreste spiegare meglio questo aspetto per renderlo meglio comprensibile al pubblico?

R: Non solo la medicina nucleare. I radionuclidi vengono usati anche in molte applicazioni della ricerca (anche ambientale), in progetti di ottimizzazione di processi produttivi, o nelle misurazioni.

Come accennato, la produzione mondiale di tali radionuclidi è affidata a pochi reattori, alcuni dei quali vicini al decommissionamento.

In un’intervista di qualche anno fa, Christopher O’Brien, direttore della Canadian Nuclear Medicine Society, parlò delle drammatiche conseguenze dello spegnimento forzato, nel novembre 2007, del reattore di Chalk River canadese che, pur essendo una macchina di oltre 50 anni di età, produceva il 40% della quantità mondiale di molibdeno (da cui si estrae il tecnezio – uno dei radioisotopi maggiormente utilizzati in medicina nucleare e non solo) e, a distanza di poche ore, si è trovata a produrre zero. Tutto ciò, per questioni “burocratiche”. Non per un malfunzionamento o un incidente.

Non mancano conseguenze “positive” a questo eccesso di burocrazia. Una di esse è l’introduzione di un criterio aggiuntivo a cui la decisione di spegnimento forzato deve sottostare: la considerazione delle scorte e delle fonti di approvvigionamento alternative. Un altro è la presa di coscienza della necessità di una maggiore coordinazione e cooperazione a livello mondiale tra i gestori dei reattori. Consideriamo anche che in Europa, il reattore di Petten (Olanda) soddisfa circa il 35% della domanda mondiale di molibdeno. Per cui, tirando le somme, i tre quarti della produzione mondiale sono affidati a due singoli reattori in funzione da oltre 40 anni. L’installazione di un simile reattore ha, in generale, delle ricadute positive quali una diminuzione della dipendenza dall’estero, una maggiore occupazione di tecnici altamente specializzati e, più importante, un accesso più semplice e diffuso alle tecniche diagnostiche e curative della medicina nucleare.

Un esempio sul caso italiano: pur non essendo noi in grado di dire, con esattezza, quanto del tempo di attesa per una scintigrafia tiroidea o per una diagnosi tumorale sia dovuto alla scarsità (che si traduce in un maggiore costo) dei radioisotopi necessari, non c’è alcun dubbio che l’aumento della quantità di essi prodotta permetterà un maggior numero di servizi ad un costo più basso per il Sistema Sanitario.

Per cui, rimanendo esclusivamente nell’ambito delle applicazioni mediche e tralasciando gli altri pur importantissimi effetti positivi summenzionati, si tratta di mettere a confronto i costi derivanti dalla messa in opera di tale struttura con i benefici derivanti dal salvataggio di vite umane. Lasciamo il lettore libero di riflettere e di decidere da quale parte penda l’ago della bilancia.

D: Nel mondo, diversi Paesi industrializzati – come la Cina o il Canada – stanno sperimentando nuove soluzioni, e già si parla del nucleare di quarta generazione. La domanda energetica va di pari passo con lo sviluppo economico, tecnologico ed infrastrutturale, ed è logicamente in continuo aumento. Dati alla mano, le energie rinnovabili sembrano non essere minimamente in grado di supplire al fabbisogno. In Italia, la bozza di progetto pre-referendum prevedeva lo sviluppo decennale di alcune centrali nucleari di terza avanzata. Una delle argomentazioni di punta dei critici del nucleare era ed è quella relativa alla morfologia del territorio italiano, in buona parte sismico. Quanto è reale questo pericolo in relazione alla costruzione di impianti nucleari in Italia e quali misure di sicurezza potrebbero venire incontro ai requisiti tecnici del caso?

R: I reattori di quarta generazione si basano su concetti innovativi, la ricerca è oggi attivissima in questo settore, dacché qualcuno di noi si dedica per lavoro a questo argomento. Tuttavia si parla di macchine che saranno commercialmente disponibili non prima del 2030-2040.

Approfittiamo poi di questo spazio per dire una cosa ben nota negli ambienti tecnici, ma che non riesce proprio ad arrivare alle orecchie dell’uomo comune: i reattori di quarta generazione necessiteranno di un certo tipo di combustibile, e l’ideale sarebbe poter disporre di plutonio. Ora, il plutonio non si trova in natura, bensì si genera per irraggiamento dell’uranio nei reattori attuali. Morale: per poter attivare efficacemente i reattori di quarta generazione occorre prima aver attivato i reattori di terza (o III+, come quelli che si volevano fare in Italia o come quelli che si stanno facendo in Cina, America, ecc …). Infatti è esattamente quello che i francesi stanno facendo, dopo essersi dotati di opportuni codici di calcolo per lo studio degli scenari, appunto. Del resto qualcuno si è chiesto (ammesso sempre ne sia informato!) perché i francesi si stanno prendendo prima le nostre scorie per poi restituircele fra qualche decennio? Semplice: ne estraggono il plutonio (e noi li paghiamo pure!) e ci restituiscono gli altri elementi radioattivi (attinidi minori e prodotti di fissione, per i “ben informati”) di cui non possiamo fare nulla e per i quali abbiamo comunque bisogno di un deposito geologico. Gran bella pensata dei nostri politici, non trovate? Badate che anche in questo caso non parliamo per sentito dire: qualcuno di noi ha visitato di persona l’impianto di riprocessamento di La Hague in Normandia, all’interno del quale si separano i vari elementi radioattivi, e si è ben informato sui fatti.

Ma veniamo ai pericoli, veri o presunti, in merito alla realizzazione di impianti nucleari nel nostro territorio. Intanto diciamo subito che gli studi di localizzazione dei possibili impianti sono molto complessi e dettagliati, e tengono conto della distribuzione della popolazione, delle aree sismiche, della distribuzione delle risorse idriche necessarie per il raffreddamento della centrale e delle montuosità del territorio. Ottenute le tavole che indicano questi aspetti esse vengono incrociate e si vede quali sono i siti idonei risultanti. Crediamo che la procedura sia adeguata, se fatta con criterio e competenza. Peraltro questi studi furono già fatti in passato ed i risultati sono ben noti.

Costruire una centrale nucleare in zona sismica non significa correre maggiori rischi, significa maggiori costi per rispondere ai requisiti di sicurezza (obbligatori per legge!). Ricordiamo che a Fukushima le centrali hanno retto al sisma anche se progettate per accelerazioni di poco inferiori a quelle effettivamente sostenute e la causa scatenante dell’incidente nucleare è stata il maremoto. Le norme di costruzione stabilite dallo Stato sono basate sulle serie storiche all’atto della costruzione della centrale. Successivamente vengono aggiornate in base ad eventi più gravi.

Il terremoto dell’11 marzo 2011, oltre ad essere tra quelli storicamente più forti di tutta la serie storica del Giappone, ha generato un’onda di maremoto superiore a quanto si poteva prevedere persino per un sisma di questa scala. In particolare, l’onda di 15 metri al porto di Fukushima Daiichi è stata causata dall’interferenza costruttiva dei maremoti sviluppati da più terremoti, dovuti a distinte faglie e sviluppatisi a catena: più onde di maremoto a Fukushima Daiichi si sono sovrapposte. Così non è stato nella vicina Fukushima Daini.

Questo tipo di fenomeno non era ancora stato ben valutato dal punto di vista scientifico, mentre a posteriori esiste un’ampia simulazione che dimostra quello che è successo. Come sappiamo, i terremoti non sono prevedibili e le norme si sviluppano dalla conoscenza storica effettiva, con qualche margine aggiunto che in molti casi si è rivelato prezioso. Anche questi aspetti fanno parte delle lezioni che (quasi) tutto il mondo sta apprendendo da questo incidente.

La TEPCO, in fase di richiesta della licenza, aveva considerato, come base di progetto per Fukushima Daiichi, gli effetti del maremoto cileno del 22 Maggio 1960 consistenti in un livello storico di sollevamento di 3,15 metri nel porto di Onahama. Dopo la pubblicazione del documento Tsunami Assessment Methods for Nuclear Power Plants in Japan prodotto dalla Japan Society of Civil Engineers nel 2002, la TEPCO rivalutò volontariamente la sua base di progettazione stabilendo che un maremoto base di progetto avrebbe portato ad un livello d’acqua massimo di 5,7 metri. Successivamente, nel 2006, la TEPCO condusse uno studio sullo sviluppo dell’analisi probabilistica del pericolo di maremoto, utilizzando la costa di Fukushima come esempio. Tale studio stimò che la probabilità di subire, in quella zona, un maremoto superiore a 6 metri di altezza d’onda nei successivi 50 anni fosse inferiore ad un centesimo.

Teniamo presente, infine, che l’installazione di Fukushima risale agli anni Settanta. I nuovi stilemi si basano sui sistemi passivi, ossia si “difendono” da soli basandosi su principi fisici che entrano in funzione automaticamente in caso di incidente, senza bisogno di alimentazione esterna. Un principio molto diverso dai primissimi parametri. Noi in Italia abbiamo “buttato tutto in caciara” indicendo un vergognoso referendum, di cui, secondo noi, in futuro ci si pentirà. Lo definiamo così per il semplice motivo che siamo del tutto convinti che sia stato votato in massima parte da gente che non ha capito cosa ha votato, come la complessità della tematica che traspare dalle righe sopra potrebbe suggerire, o che ha votato per infimi motivi politici.

Per fortuna, nonostante il referendum, le attività operative e di ricerca nell’ingegneria nucleare in Italia non si sono fermate. A dimostrazione di ciò, ricordiamo brevissimamente il coinvolgimento della nostra Ansaldo Nucleare in varie collaborazioni che vanno dallo smaltimento dei rifiuti radioattivi a Chernobyl alla partecipazione, insieme all’ENEA, al progetto ELSY il quale mira alla realizzazione di un reattore al piombo (quarta generazione).

In conclusione, la scienza non è democratica, non si piega ai referendum; riunirsi e decidere che 2 + 2 = 5 è possibile, come anche decidere a maggioranza che da domani nelle bottiglie da 1 litro si devono mettere 2 litri di acqua, ma non funziona, ci può solo coprire di ridicolo. Forse siamo degli utopisti, ma ci auguriamo un giorno questi elementari concetti siano chiari a tutti.

D: Un altro pomo della discordia è quello relativo allo smaltimento delle scorie. Come sappiamo, esse vengono suddivise in tre categorie di radioattività: bassa, media e alta. Mentre le prime due decadono in un arco massimo di tempo che non supera i 300 anni, le scorie ad alta intensità (che costituiscono una minima percentuale nella fase di processo) decadono in migliaia di anni. I sostenitori del nucleare propongono varie ipotesi a riguardo, e sdrammatizzano la situazione, pur tenendo presente il rischio di contaminazione presente in una fase così delicata della gestione di una centrale. Quali sono le nuove frontiere nell’ambito dello smaltimento?

R: Come dicevamo sopra fondamentalmente ci sono due vie: una già disponibile ed in fase di attuazione da parte di Francia e Svezia ad esempio, ovvero quella dello smaltimento in siti geologicamente stabili, e l’altra in fase di ricerca, ma molto promettente, che è quella della trasmutazione nucleare nei reattori a spettro veloce, ovvero la Gen IV su cui si concentra la odierna ricerca nucleare.

Illustriamone molto sinteticamente i dettagli dicendo che le scorie in quanto radioattive decadono, ossia si trasformano, e col tempo smaltiscono la loro radioattività. Quindi in linea di principio basterebbe aspettare perché la radioattività diventi insignificante (ovvero paragonabile a quella ambientale), seppur tempi più o meno lunghi – si va dai microsecondi ai milioni di anni. Se si contengono le scorie in barriere tali da isolarle dalla biosfera efficacemente per tempi adeguati questa si può considerare una soluzione ragionevole.

I contenitori sono costituiti da acciai speciali dello spessore di alcuni centimetri, e le scorie vengono vetrificate: si usano vetri di tipo vulcanico sviluppati apposta. Il rischio potenziale, infatti, è che arrivi l’acqua, sciolga il tutto e lo trasporti nella biosfera, attraverso la quale i radionuclidi potrebbero nuocere alla vita sulla superficie terrestre. I test di lisciviabilità dimostrano che, anche se immersi in acqua, tali vetri rilasciano quantità irrisorie di radionuclidi nel tempo: pensate all’acqua fresca che deve sciogliere un vetro, tanto per intenderci. Prima, però, dovrebbero sciogliere alcuni centimetri di ferro, penetrare qualche decina di centimetri di bentonite, e penetrare nel sito geologico. Si usano ad esempio miniere di sale perché in esse l’acqua non arriva da milioni di anni. Quindi, li le scorie rimarranno probabilmente per molti milioni di anni indisturbate, e nel frattempo si saranno incenerite da sole per decadimento. L’argomento sarebbe molto complesso, ma qui si è voluto schematizzare il principio con cui vengono attuate queste cose.

Due parole poi le meritano le tecnologie della trasmutazione nucleare. Se invece di “rallentare” i neutroni, come si fa nei reattori attuali, li si usano alla massima energia con la quale nascono sulle scorie più perniciose, se ne riduce la tossicità di qualche migliaio di volte, facendo sì che nemmeno serva un deposito geologico a quel punto. Non si tratta di tecnologie fantascientifiche, ma di cose allo studio e ben realizzabili. Secondo quanto ci risulta, quello andato in onda qualche mese fa su un canale della BBC, è stato l’unico documentario sull’energia nucleare a citare la trasmutazione e spiegarne sommariamente i principi. Alla TV italiana queste cose non le abbiamo mai nemmeno sentite accennare.

D: Petrolio, gas e carbone non presentano simili rischi, ma generano enormi quantità di problemi legati principalmente all’emissione di CO2. In diverse aree del mondo, dagli Stati Uniti alla Cina, passando per l’Italia o la Gran Bretagna, l’inquinamento legato al settore estrattivo e minerario costituisce uno dei principali problemi degli ultimi cento anni. Premesso che le materie prime non stanno affatto finendo, come alcuni teorici avevano invece pronosticato negli anni passati, sembrerebbe tuttavia necessario ripensarne l’utilizzo. Possiamo dire dunque che il nucleare potrebbe essere la soluzione, o una delle soluzioni, ai problemi ambientali?

R: La fonte energetica nucleare è quella che, tra tutti tipi a noi noti, presenta la maggiore concentrazione di energia: 1 metro cubo di gas genera circa 4 kWh di energia elettrica, 1 kg di carbone genera mediamente 2 kWh, 1 kg di combustibile nucleare genera sui 400.000 kWh. Questa concentrazione comporta anche costi di generazione estremamente contenuti: ad esempio negli Stati Uniti nel 2010 la parte del costo del kWh dato dal combustibile di una centrale a carbone è stato di circa 3 centesimi di dollaro, nel caso di una centrale a gas di circa 5 centesimi di dollaro, mentre in una nucleare meno di 0,7 centesimi di dollaro.

Indubbiamente il nucleare presenta alcuni punti delicati, in merito alla sicurezza, la proliferazione, i costi di impianto, anche se molto inferiori a quanto sbandierato da certe lobby che hanno ingigantito ad arte alcuni aspetti. Crediamo, però, che un oculato e razionale uso di questa fonte possa sicuramente ridurre la pressione sulle questioni ambientali, sui costi, e soprattutto sulla disponibilità delle risorse, contribuendo forse a tentare di disinnescare la violenza che potrebbe risultare dalla volontà (forse dalla necessità) di doversi accaparrare le risorse energetiche. I fatti recenti indicano drammaticamente questa tendenza a nostro avviso.

Ed ecco perché riteniamo che rinunciare a priori, per beceri motivi ideologici, partitocratici, o peggio ancora per bassi calcoli di interesse personale, sia di fatto un crimine verso noi stessi e verso le generazioni future che, riteniamo, dovrebbero avere il diritto di disporre della stessa quantità di energia di cui noi abbiamo beneficiato. Naturalmente per farlo ci sarebbe bisogno non di politicanti che guardano alle prossime elezioni, ma di statisti che guardano alle prossime generazioni – una merce sempre più rara purtroppo al giorno d’oggi. E temiamo se ne vedranno facilmente le conseguenze.

 
Intervista a cura di Andrea Fais

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