Un intervista che ha toccato tanti e diversi argomenti è quella a Roberto Radice, professore ordinario di Storia della Filosofia Antica all’Università Cattolica di Milano. Non solo la passione per la filosofia, l’insegnamento, Aristotele ed il compianto filosofo Giovanni Reale, ma anche Luino, i luinesi, il provincialismo, la cultura locale e la società.
Roberto Radice, professore ordinario di Storia della Filosofia Antica all’Università Cattolica di Milano
Cosa significa per lei insegnare agli studenti?
Insegnare è complicato perchè richiede una visione doppia, di come sono le cose e di come si pensa che siano. Il momento della raccolta dati, dello studio e dell’apprendimento ed il momento in cui bisogna conoscere il destinatario e le persone a chi va questo messaggio. L’insegnamento è una cosa complicata e allo stesso tempo è ricca di significato, di solito il tecnico o colui che assume una scienza su di sé non ha il problema della comunicazione, ma tutt’al più ha quello della verità e dell’esattezza. Questo implica una certa psicologia e prima ancora un desiderio di servire agli altri con una sorta di carità intellettuale. E’ sostanzialmente uno strumento inconscio e di servizio.
Ha pubblicato numerosi scritti sui filosofi antichi e tutt’ora insegna, ma in che modo cerca di rendere “appetibile” la filosofia antica ai suoi studenti?
Io faccio lo storico di filosofia antica e questa è un’ulteriore complessità perchè implica conoscenze di lingue classiche, di filologia e di una biografia molto vasta. La filosofia antica ha un significato straordinario perchè in un certo senso è all’origine del modo di pensare di tutti noi. Le parole che usiamo sono nate in un contesto specifico, all’incirca 2700 anni fa, che sono arrivate a noi e ci condizionano. Il nostro ragionamento è condizionato dalle parole che usiamo, che non servono solo per comunicare, ma anche per pensare, o meglio per elaborare argomenti lunghi. Parole, significati e significati delle parole. Questi non sono una nostra scelta, ma sono significati ereditati. Fanno parte di quel fenomeno culturale immenso che è la tradizione. Queste sono state fissate in larga misura, con la sintassi e la grammatica giusta, per quanto concerne la civiltà occidentale in un determinato luogo e periodo, che tra l’altro è per il 50% italiano. L’Italia meridionale ha prodotto la maggior parte dei filosofi della prima generazione: i pitagorici, che hanno inventato i rapporti della matematica e i principi della matematica e della realtà, gli eleati, che erano quelli che hanno inventato il razionalismo allo studio. I primi erano a Napoli, i secondi a Cosenza, in linea d’aria si tratta di 100 km. Questo ha creato un’esplosione, una tradizione, che ha portato ad un linguaggio e ad un’attitudine razionale che abbiamo noi adesso. A confronto con civiltà diverse attualmente, vediamo quante differenze ci sono.
Ed in questo senso l’interesse degli studenti è insito al contenuto della materia?
Gli interessi degli studenti verso la storia della filosofia antica, che è piuttosto raro, va in due sensi: da un lato perchè imparano, metaforicamente parlando, quello che erano i loro nonni, facendo la genealogia del sapere. Dall’altro, invece, proprio perchè antica, sono costretti a ripercorrere con fatica tutto quel processo di riacquisto del linguaggio e della struttura sintattica. Non sono fuori dal circuito, ma lo devono ripercorrere. La loro attenzione è tale perché in università arrivano già persone selezionate e, nel caso della storia della filosofia antica, arrivano persone appassionate perché le prospettive lavorative che dà la filosofia sono sempre minori.
A cosa serve oggi la filosofia antica?
Aristotele diceva che non serve a niente e proprio perchè non serve a niente, non è serva di niente. Proprio perchè non è serva di niente è l’unica espressione culturale libera che all’uomo rimane. La filosofia antica funziona ancora adesso perchè in un contesto molto organico, coibente, unito, globalizzato, in cui tutti usano le stesse cose, tutti agiscono chiedendoti le stesse cose, pensano e parlano perchè sono informati sulle stesse cose, beh… l’unica vera alternativa, in un certo senso, è rifarsi a quando queste cose non c’erano, ma erano in gran lunga al di là da venire, ma contenevano i germi della razionalità. Si tratta di diventare i primitivi razionali. La filosofia antica ha dunque una funzione alternativa, contestativa, nel senso buono, non per distruggere, ma per riportare alla luce un nocciolo che sembra ormai perso.
Le capita di attualizzare quello che spiega ai studenti?
Io uso uno strumento molto semplice da capire, quello dell’esempio, oppure quando il tema lo permette uso i miti. I miti hanno un fascino considerevole, perchè non si capisce esattamente cosa dicono, c’è il lato oscuro e tenebroso dei miti che attira le persone. Il modo in cui si interpreta un mito è come quando a Natale si disfa un regalo per vedere cosa c’è dentro. Il gusto di vedere quello che sta dietro ai significati. Ulisse, ad esempio, era un personaggio di un’antichità e di stranezza incomparabile, cioè chi glielo faceva fare di sentire il “Canto delle Sirene”? Per quale motivo visto che doveva tornare a casa? Così lo smontare un mito di Odisseo è un’analisi psicologica e gli esempi sull’attualità non mancano mai nella filosofia antica, anzi ce ne sono fin troppi. Qualsiasi situazione antica diventa immediatamente attuale, sono per quella linea di pensiero che mostra la contemporaneità dell’essere umano.
Lei, invece, a quale o a quali filosofi del passato è più legato? Per quale ragione?
La filosofia di cui mi occupo io è un ambito ristretto perchè la totalità degli scritti e dei testi originali scritti di filosofi non sono molti. Metodologicamente l’esperienza di Aristotele, che quest’anno compie il 2400esimo compleanno, è sorprendente perchè se uno lo vive nella prospettiva storica adatta, si riesce ad avere un’idea particolare. Aristotele si occupava di logica quando ancora non esisteva, quindi ha inventato la logica. Si occupava di metafisica e prima di lui non c’era neanche il nome, quindi ha inventato la metafisica. Ha scritto un trattato che si chiama “Oeconomicus”, ed è stato il primo scritto di questo tipo in economia. Ha scritto dei trattati sugli animali, quindi ha inventato la zoologia, ha scritto trattati di etica filosofica, si è occupato di astronomia. E’ possibile ogni tema che studiava è riuscito ad inventarlo e a fare in modo che arrivasse fino ai giorni nostri? Sembra che nella forma embrionale abbia inventato tutto lui. Sì è possibile, nonostante abbia detto più cose sbagliate di chiunque altro, ma nei suoi errori che diceva c’era il sistema del pensiero che era matura. Per cui lui quando si occupava di qualcosa e oggettivamente sbagliava nelle conclusioni, è riuscito a darci il sistema per arrivare a trovare soluzioni, che è quello che c’è adesso.
Invece, attualmente, la filosofia moderna, contemporanea, in che modo legge il presente?
Il filosofo di una volta è quello che doveva occuparsi del tutto, non poteva occuparsi di una parte e non doveva neanche farlo. Poniamo il filosofo morale, che segue una disciplina universitaria… perchè deve essere il filosofo ad occuparsi di morale, quando ci sono psicologici, sociologici, politologi, studiosi di culture oppure religiosi che si occupano di questo tema? C’è una sola giustificazione originaria, chiarissima in Platone. Uno ha titolo di parlare di morale, e di dichiararsi filosofo perché riesce ad inserire la morale in un sistema universale in cui tutto il sapere si fonde. L’obiettivo del filosofo, così, è quello di fare tutta la cupola della realtà. Dopodiché può occuparsi di tutto, anche di culinaria, ma deve riuscire a fare una sintesi delle cose che dice, cosa che nessun’altra scienza può fare. Nessuna scienza può giustificare i suoi fondamenti. I principi non sono di competenza della scienza, in caso contrario non lo sarebbero più. Allora o noi troviamo la cupola in cui tutti i principi si fondono in un’unità qualsiasi, trascendente, logica o fisica che sia, e siamo certi alla fine che il nostro sapere è molto plausibile, o se, invece, ognuno va per i fatti suoi il discorso non va bene. Un esempio è quello della medicina dove ogni specialista cura la sua parte e intanto il paziente è morto da due giorni. Effettivamente smontando un organismo non si ottiene un organismo smontato, ma un cadavere.
Quanto incide questo discorso a livello italiano?
L’Italia è in una posizione privilegiata in questo senso, perché noi insegniamo la filosofia nei licei, cosa che altri non fanno. Tant’è che la produzione filosofica italiana è molto importante. I Festival della Filosofia che fanno in Italia, a Parma ad esempio, all’estero non hanno alcun senso, hanno provato solo a fare qualche esperimento in Brasile, dove andando in alcuni caffè si parla e ci si confronta. Anche Milano è piena di caffè filosofici. Quella italiana è una posizione privilegiata e saremmo una superpotenza pur essendo piccoli, ma non viene sfruttata.
Una tematica affascinante, a livello filosofico, è quello della satira. Con il passare del tempo sta via via svanendo, almeno dalla televisione. Quanto è importante in una società moderna il ruolo della satira? Fin dove può arrivare?
La satira credo sia un contrappeso al potere di una persona. Finchè una persona o un oggetto è suscettibile di satira noi avremo una garanzia che è più difficile andare oltre. Io ragionerei sui professionisti della satira, invece, perchè questo dovrebbe essere insito nella dimensione di ciascuno di noi, che dovrebbe usarla in primo luogo su noi stessi, l’autoironia. L’autoironia, infatti, è un prodromo della satira. Se uno per sistema, invece, ha e sa fare solo quello, cioè la professione di disfare gli eccessi degli altri, alla fine chi “distruggerà” il suo? Purtroppo i grandi satiri lo fanno per mestiere, su tutto e per tutto.
Che ricordo ha del grande filosofo Giovanni Reale?
La qualità migliore del professore Reale era quella di essere capace di comunicare entusiasmo. Era una dote innata. Se ti diceva che dovevi costruire il ponte sullo Stretto di Messina in due giorni, tu riuscivi ad uscire dall’ufficio convinto che ce la potevi fare. Ti affidava dei compiti enormi, sproporzionati sia per i tempi che per i mezzi. Riusciva a farmi immaginare che quella cosa che facevo, se non la facevo io nessuno l’avrebbe fatta. In questo caso secondo lui il mondo sarebbe crollato, che non è proprio vero, ma ne uscivo convinto. Era un comunicatore di entusiasmo. In secondo luogo aveva un concetto anti-filosofico alla base, lo stesso che possiedo io, cioè che la filosofia è una buona cosa però come dicevano i grandi “primum vivere, deinde philosophari“. Prima assicurati di vivere, poi fai il filosofo. Non aspettare che la filosofia ti nutra, o ti sviluppi. Terzo: sono le cose che misurano l’uomo, come filosofo, e non il contrario. Alla fine bisogna riuscire a fare un bilancio e dire “quante persone ho attratto a questo pensiero? Quanti libri ho prodotto? Quante persone hanno letto questi libri?”. La grande forza del professor Reale, dal punto di vista storico, è stata la capacità di organizzare l’editoria filosofica. Credo che lui, nella Collana Rusconi prima, nella Collana Bompiani seconda, nella Collana di Vita e Pensiero, nelle Collane delle riviste che ha diretto e guidato per molto tempo, abbia totalmente modificato l’assetto della cultura filosofica italiana. Questo è stato fondamentale, una quantità imponente di volume.
Il professor Reale è morto l’anno scorso proprio a Luino, dove lei risiede nonostante lavori a Milano. Qual è la prima parola che le viene in mente se dico Luino?
Il lago, spontaneamente. Io non sono nato a Luino, vengo da Busto Arsizio, non troppo lontano. Credo, però, di aver fatto molta strada a Luino dal punto di vista culturale. E’ una buona città, storica. Ci sono tantissimi storici di livelli diversi, il paese tiene abbastanza alle sue origini. Il problema di Luino è che è troppo piccola ed incapace di aggregarsi. Questo lo dico anche in base all’esperienza fatta con “Frontiera”, in cui per un periodo di diversi anni, avevamo avuto spesso dei buoni risultati. Ad un certo punto se fai delle cose che piacciono troppo, quindi che costano troppo da realizzare, hai sempre la questione delle presenze da analizzare e del fatto che una città di 15mila abitanti non può produrre, fisiologicamente, oltre 200 appassionati ad un qualsiasi tema. A mio avviso, però, Germignaga è su un’altra galassia, Maccagno anche, e non si è mai riusciti organicamente ad organizzare al meglio queste diverse realtà.
Per quale ragione questo accade? Quali potenzialità non vengono sfruttate secondo lei?
Noi abbiamo la fortuna di avere alcune scuole superiori, i vari plessi di scuola media, le scuole private, una massa considerevole di giovani. Credo ci siano riusciti bene a coinvolgere i giovani solo gli enti sportivi. Gli enti culturali meno. Luino è troppo piccola e troppo poco organica nei confronti del territorio circostante per riuscire a mettere insieme più aspetti.
Quando parla di storici a Luino, a mio avviso, un aspetto fondamentale per un paese piccolo come il nostro, sarebbe quello di riuscire ad unire turismo e cultura con un unico obiettivo, vale a dire quello di sviluppare maggiormente il territorio. Non faccio riferimento solo alle scelte politiche, ma anche ai cittadini ed al loro coinvolgimento culturale e al loro senso civico, ad esempio. Quale opinione ha in merito?
Il discorso legato alla trascuratezza del territorio, con l’ambiente che diventa sciatto è degradante. Questo amplifica una particolare situazione. Noi, in generale, ma a Luino in particolare, dobbiamo fondare la nostra convivenza tanto sulle virtù dei cittadini, perchè i cittadini non hanno virtù. Alcuni sono più controllati, altri più generosi di altri, ma non si può giocare su questo. Dalle nostre parti le persone sono eteroclite, vale a dire vengono da altri paesi, nazioni o altre culture. Sono quasi tutti frontalieri e sentono Luino come un luogo di transizione, non come casa loro. Inoltre non c’è sufficiente controllo. Mi diceva una volta un assessore che lo sviluppo delle strade di Luino è pari a quello di Gallarate, con la differenza che c’è di popolazione. Nei casi di mancanza di senso civico, più che la virtù dei cittadini, sarebbe importante il controllo. Molti luinesi sono più legati agli affari loro e meno al bene pubblico. Se io, invece, riuscissi a creare controlli tali per evitare dinamiche spiacevoli penso che ci sarebbero persone che avrebbero più rispetto del diverso, dell’ambiente e della convivenza.
Una cosa che mi interesserebbe approfondire è anche quella legata al termine “provincialismo” e mentalità provinciale. Ci spiega cosa sono per lei?
La collocazione geografica di Luino è molto importante in questo senso, legata alla tradizione avuta in tutti questi anni, come se fosse un dormitorio. L’oggetto dell’attenzione per i luinesi, molto spesso, è al di là del confine. Per quanto riguarda la chiusura della mentalità e alle novità penso che dipenda in larga misura dalla coscienza di chi si è. Sembra un paradosso: quanto più tu sai di essere qualcosa e hai coscienza di riuscire a trasferire nelle generazioni future quello che sei, tanto meno hai paura di chi potrebbe diluire il tuo messaggio. Questo avviene proporzionalmente: una persona radicata nel suo pensiero è molto più estroflessa, che non una che ha paura di perdere anche sé stesso. Se andassimo a parlare con una persona con tendenze xenofobe non è quello che odia, ma è colui che ha paura. L’elemento dominante, infatti, è la paura. La diversità è temibile quando è minacciosa, ma quando si tratta di una diversità che non causa rischi, perchè ci pensi tu a difendere la tua identità, è molto ma molto più facile da gestire. Così la diversità sembra essere una fantasia, un colore in più, ma il sentimento da battere è la paura di perdersi che è strettamente dipendente dall’insicurezza di quel che si è. Allora la cultura può avere un effetto diretto, nella misura in cui si ha rispetto per l’ambiente, per le persone e per chi è diverso. Il ritrovamento delle proprie radici può risolvere entrambe le questioni.
Questo potrebbe bastare per migliorare Luino sia dal punto di vista sociologico, ma anche politico e culturale?
Attenzione, il mio è un discorso astratto. Il problema nella realtà è che Luino ha perso e sta perdendo tutta la sua industrialità. Era pieno di fabbriche decenni fa, ora non c’è più nessuno. C’è un impoverimento pazzesco del territorio. Una cosa che con “Frontiera” avevamo analizzato ed osservato che si poteva e si dovrebbe fare è questa: non è possibile che ogni volta che chiude una ditta si distrugga tutto e venga costruito un supermercato, perchè penso ci vogliano dei luoghi che vengano offerti, al limite regalati o affittati, a chi vuole fare qualcosa di culturalmente rilevante. L’industria è come la sorgente, che continua a buttar fuori prodotti. Il supermercato, invece, è una via di passaggio, un’autostrada. La somma del supermercato è che qualcuno lascia giù qualcosa mentre va in un altro posto. L’emblema di una ditta, di un’impresa, è quello che qualcuno ti butta fuori dalla terra un prodotto, la creatività ad esempio è fondamentale ed è quello che permette di sviluppare la tecnica e la sua conoscenza. I supermercati, invece, che tecnica ti producono? Quale know-how? A mio avviso sarebbe un errore distruggere luoghi simbolo: su cinque due sarebbero un seme culturale per tutta la cittadinanza.
Come pensa potrebbe cambiare in meglio Luino? Come la vede tra vent’anni?
Io riscontro che attualmente non ci sia un luogo intermedio per l’aggregazione delle persone, che non sia il Teatro Sociale, 400-500 posti, oppure così piccolo come Palazzo Verbania. C’è la fascia dalle duecento alle duecentocinquanta persone che è possibile radunare su temi particolari, ma non ha una sede. Bisognerebbe trovare una soluzione per avere un nucleo culturale di questa capienza per coinvolgere e confrontarsi. E’ positiva l’idea della Biblioteca, strutturata bene, un incrocio tra una casa, un luogo di ritrovo allegro. Sarebbero necessari altri luoghi, ad esempio come la Colonia elioterapica di Germignaga. E’ una misura bella. A volte i luoghi belli, fanno venire in mente idee straordinarie.
Per quale ragione secondo lei c’è questa differenza tra Luino, Maccagno e Germignaga?
Questo è un dato di fatto. E’ come se Luino non abbia un punto di equilibrio. Era zona industriale ed è diventata zona turistica. Era zona turistica, ma come possiamo definirla tale se ha un solo albergo? E’ una zona di ville: ha il villaggio olandese, tedesco… sono tutti aspetti di disgregazione, non di aggregazione. Il residente in villa nel periodo estivo fa fatica a vivere il paese, sta nel suo. E’ difficile nonostante gli eventi. Mi chiedo ma un fruttivendolo a Luino dov’è? Ci sono cento bar, quello si. Non necessariamente deve essere un fruttivendolo comunque, visto che il mercoledì c’è il mercato, però la figura dell’artigiano o del rivenditore che prima faceva colore e prima era un punto di raccordo, ora è sparito. C’è un numero enorme di bar. Luino penso sia senza baricentro, nonostante le bandiere Chiara e Sereni.
Quello del professor Radice è un semplice punto di vista di chi ha sempre vissuto e continua a vivere la città di Luino, sia socialmente che culturalmente. Alcune affermazioni, però, non possono che essere condivisibili, non per partito preso, ma soprattutto per fare autocritica, analizzare i problemi del paese e provare a migliorarli sia dal punto di vista politico, sia da quello culturale e sociale.