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Intervista con piero schiavo campo

Creato il 13 febbraio 2014 da Nickparisi
INTERVISTA CON PIERO SCHIAVO CAMPOEcco il risultato la mia chiacchierata con Piero Schiavo Campo, il vincitore dell'ultimo Premio Urania con il romanzo L'Uomo a Un Grado Kelvin. Quest'intervista esce in contemporanea sia su Nocturnia che su IFET
Ringrazio il mio intervistato per tutto quanto.
Nick: Ciao Piero, benvenuto di vero cuore su Nocturnia, grazie per aver accettato quest'intervista. Ti andrebbe di presentarti ai lettori di questo blog?
Piero Schiavo Campo: Dopo la laurea ho avuto una borsa di studio del CNR, a Bologna. Mi occupavo di astrofisica. Nel 1981 ho lasciato la ricerca per passare al software. Detto per inciso: qualcuno ha scritto che sono uno “scienziato”. Non è vero. Uno scienziato è un signore che si occupa professionalmente di ricerca scientifica, cosa che io non faccio da più di trent’anni; però sono sempre un grande appassionato di scienza: l’unica rivista che compro tutti i mesi è “Scientific American”, e i saggi scientifici della mia biblioteca occupano quattro scaffali “Billy”. Forse ti domanderai come mai ho deciso di abbandonare la scienza attiva. E’ un discorso molto lungo, e anche difficile. Ti dirò che non rimpiango quella scelta. In fin dei conti sono stato un testimone diretto di quella che personalmente considero la più grande rivoluzione culturale che sia avvenuta nella storia (parlo della rivoluzione informatica). In questo momento la mia attività principale è l’insegnamento. Dal 2004 tengo un corso del primo anno della laurea triennale di Comunicazione e psicologia (qualche anno fa si chiamava Scienza della comunicazione), dove parlo ai ragazzi di Internet e del Web dal punto di vista mediatico.
Come lettore, sono sempre stato “onnivoro”. La fantascienza è stata una mia grande passione da ragazzo; non che mi dispiaccia quella di oggi, ma finisco col leggerne di meno. In particolare, devo confessare di conoscere poco gli autori italiani; sto cercando di recuperare!
Nick:  Cos'è per te la Fantascienza e quali autori e quali libri te l'hanno fatta amare? Naturalmente puoi citare qualsiasi altra forma espressiva dalla musica ai fumetti, passando per film e serie televisive.
Piero: La prima domanda mi mette in difficoltà, anche perché amo poco le classificazioni di genere. Quarant’anni fa la definizione sarebbe stata ovvia: fantascienza è qualsiasi fiction basata su presupposti scientifici o tecnologici in qualche modo “possibili” (o meglio “non impossibili”) sulla base delle conoscenze attuali: viaggi nello spazio, viaggi nel tempo, creature aliene, società futuribili ecc. Già a quei tempi, tuttavia, una definizione simile sarebbe sembrata un po’ “stretta”. Ci sarebbe stato dentro, ad esempio, un romanzo come “Cristalli Sognanti” di Sturgeon? Se non lo ricordo male (l’ho letto davvero molto tempo fa!) l’autore non spiegava affatto quale fosse l’origine dei cristalli e dei loro fantastici poteri, e il romanzo sembrava essenzialmente un’occasione per fare della narrativa: quasi più una storia fantastica che un vero romanzo di fantascienza. Poi sono venuti i cyberpunk, gli steampunk, le ucronie (non necessariamente in questo ordine), e i confini del genere si sono decisamente ampliati. Credo che in questo momento l’unica definizione possibile sia di tipo “culturale”: è fantascienza qualsiasi fiction che rientri in un genere considerato fantascientifico. Per intenderci, lo steampunk è considerato fantascienza, anche se non si basa (o non necessariamente si basa) su presupposti scientificamente “possibili”. Mi dirai che questa non è una definizione. Forse è vero, ma ha il vantaggio di rendere i confini della fantascienza molto ampi, e per così dire “permeabili”: ogni tanto qualcuno inventa qualcosa di veramente nuovo nel campo del fantastico, e l’opinione comune si orienta a considerarlo “fantascienza”. I veri innovatori del campo sono loro: gli autori capaci di imporre idee nuove grazie alla forza della loro capacità narrativa, come Jeter per lo steampunk (ma è stato davvero lui il primo?).
La seconda domanda è più semplice. Il mio interesse per la fantascienza deriva senz’altro dalla mia passione scientifica. Per me, da ragazzo, la fantascienza era un po’ l’anticipazione delle cose meravigliose che l’umanità, nella mia testa, era destinata a scoprire. Ti sto parlando dei primi anni ’60: un epoca in cui quella che oggi è considerata “fantascienza storica” era nelle edicole con Urania, veniva pubblicata da Einaudi con “Le Meraviglie del Possibile” di Fruttero e Lucentini, emergeva al cinema da capolavori come “Il Pianeta Proibito”. Autori molto amati? L’Asimov della prima trilogia sulla Fondazione (ma non i prequel e i sequel che ha scritto dopo), oppure quello di “Abissi d’acciaio” (anche nel caso del filone dei robot, secondo me dopo un po’ è diventato ripetitivo); il grande Arthur Clarke (come dimenticare “La Città e le Stelle”?); l’Herbert del primo “Dune” (i sequel non mi sono piaciuti); Robert Sheckley (un genio)... La lista sarebbe lunga. Voglio citare solo un titolo, che forse ti sembrerà buffo: “Il Cittadino Dello Spazio”, film del 1955. E’ stato il primo film di fantascienza che ho visto, da bambino, e mi fece un’impressione enorme. Mi è capitato di rivederlo, recentemente. A distanza di molti anni, devo dire che il background scientifico è del tutto inconsistente, gli effetti speciali fanno ridere, il ritmo è lento. Eppure trovo che ci sia ancora qualcosa di grandioso, perfino epico, in quegli alieni super evoluti che si rivelano incapaci di difendere il loro pianeta dalla distruzione finale.
INTERVISTA CON PIERO SCHIAVO CAMPO
Nick: Il tuo "L'Uomo a Un Grado Kelvin" è un romanzo con solide basi scientifiche e fantascientifiche che si sposano bene con l'elemento hard boiled, tuttavia hai sempre dichiarato di non aver mai pensato immediatamente di proporlo per il Premio Urania, come mai ?
Piero: L’idea de “L’Uomo a Un Grado Kelvin” è molto vecchia, risale addirittura agli anni novanta. Mi era venuto in mente un “incipit” che trovavo folgorante. Una grande kermesse scientifica a Milano. Un famoso scienziato europeo che deve tenere una conferenza. Attenzione mediatica alle stelle. L’evento si svolge in un teatro. Si alza il sipario, e al pubblico sbalordito appare il cadavere congelato dell’oratore, rattrappito su una poltrona... Naturalmente si trattava di una storia gialla! Cercai di capire come potesse stare in piedi una cosa simile. L’uomo era stato chiuso in un congelatore. Come potevano averlo trasportato nel teatro? Ovviamente bisognava fare in modo che non ci fossero accessi non controllati... Insomma, il “background” era complicato. Ne scrissi due o tre pagine, poi lasciai perdere. A quell’epoca facevo il consulente software a tempo pieno, e anche se scrivevo molto (per me) non avevo davvero intenzione di diventare uno scrittore. Dopo il 2004, per via della crisi del settore IT (che in Italia è stata drammatica), mi ritrovai a corto di lavoro (molti meno soldi, molto più tempo libero), e pensai di trasformare la mia passione per la scrittura in un’attività più strutturata. Scrissi varie cose, prevalentemente non pubblicabili, ma l’esperienza mi servi a capire l’enorme differenza che passa tra “scrivere” e “scrivere professionalmente” (o almeno provarci). Butti giù un pezzo, e ti sembra fantastico; lo rileggi dopo due mesi, e ti accorgi che non sta in piedi. Devi imparare a essere feroce con te stesso: secondo me uno scrittore diventa bravo solo quando è capace di trasformarsi nel peggior critico delle proprie stesse fantasie. A un certo punto mi tornò in mente il “professore congelato” (era il 2009). Nel frattempo era stato realizzato il teletrasporto quantistico (anche se solo di singole particelle), e questa poteva essere la soluzione dei problemi “di background” in cui mi ero imbattuto all’inizio. Cominciai a scriverlo davvero, e fu un’esperienza fantastica. Un romanzo, secondo me, è un oggetto complesso proprio perché racconta un mondo alternativo a quello reale. E il mondo reale è complesso. Mentre scrivi, i personaggi della tua storia diventano vivi. Te li immagini, e loro “fanno delle cose”. Tuttavia l’inesperienza pesa: ci misi due anni, con pagine e pagine scritte e poi buttate via. Alla fine il libro c’era, ma io non sapevo bene cosa farmene. Nella mia testa era pur sempre un giallo! Come ho già detto (sia a Marco Passarello che sul tuo blog) fu una mia amica a consigliarmi di mandarlo al premio Urania. Ci pensai sopra, e mi convinsi che in effetti poteva essere considerato un romanzo di fantascienza, anche se “di confine”.
Nick: Proprio riguardo all'elemento "Hard-Boiled", hai dichiarato che nel tuo romanzo questo aspetto è trattato in maniera sottilmente parodistica. Puoi spiegarci meglio ?
Piero: Dick Watson è “clonato” dal classico detective hard boiled; in particolare, il riferimento più diretto è Archie Goodwin. Non credo che sia possibile recuperare oggi l’hard boiled se non in chiave ironica. In effetti, gli elementi ironici sono molti, a partire dal nome del protagonista. Vorrei notare che tra i personaggi che ironizzano sul nome “Watson” non c’è solo l’onorevole Mencio, ma perfino quello “sfigato” di Israel Hands. Non credo che Bogart ne “Il Mistero Del Falco” avrebbe apprezzato che si facesse dell’ironia sul nome “Spade”, che comunque in inglese identifica un seme delle carte. Watson è’ costretto ad “associarsi” con John Silver, che lo prende costantemente in giro. Ad esempio, in ben due occasioni gli dimostra che ne sa più di lui di letteratura, quando si ricorda il nome del servo di Athos nei “Tre Moschettieri” e quando identifica a colpo sicuro il “conte Fosco” come un personaggio di Collins. Silver prende pesantemente in giro Watson anche sulle sue scarse abilità mimiche, quando gli suggerisce di “stare fermo” nel “Garden of Delights”. Amélie Blanchard è descritta come un’eroina dei fumetti. Il tenente Mitrano sembra venire fuori da un classico “giallo all’italiana”... Insomma, ho fatto della “fusion”, un po’ come fare un riso pilaff con lo zafferano. Nella versione originale del libro, questo aspetto ironico era ancora più evidente. Ho dovuto fare dei tagli per rientrare nei limiti imposti dal premio Urania, e in qualche modo l’ironia si è un po’ annacquata. Non so se sia stato un bene o un male: in questa versione, almeno da un certo punto in poi, il romanzo secondo me “scorre”.
INTERVISTA CON PIERO SCHIAVO CAMPONick: Quali sono state le tue fonti d'ispirazione per il romanzo e per i suoi personaggi?
Piero: Credo di avere sostanzialmente già risposto. Posso dirti quelle che NON sono state le fonti di ispirazione. Innanzi tutto, come ho già detto, il teletrasporto quantistico, che nell’idea originale del libro era per così dire un mezzo e non un fine. Poi gli hacker, che secondo me sono uno degli elementi di pregio del romanzo, e sono comparsi “da soli”, se posso esprimermi così. Ragionando sul 3DWeb, a un certo punto mi sono chiesto: come saranno gli hacker del futuro? Ho pensato subito: si saranno trasformati in veri e propri pirati, e si riuniranno in ambienti virtuali che ricordano l’ambientazione de “L’Isola Del Tesoro”. Così è nato l’Ammiraglio Bembow. Una volta scritta quella parte, l’idea mi è sembrata carina e ne ho fatto un aspetto portante del romanzo. Per quanto riguarda i personaggi, gli unici che derivano da individui reali sono gli scienziati, in particolare Sonnenborg. Il modello di Sonnenborg è Erwin Schroedinger, uno dei massimi fisici del primo novecento e uno dei padri della meccanica quantistica. Schroedinger (come Einstein) era più un filosofo che un “tecnico della scienza” (pur dominando la materia anche dal punto di vista tecnico, naturalmente). Risulta che fosse anche un “viveur”. Ad esempio, pare che l’idea della sua celeberrima equazione (per cui vinse il premio Nobel) gli sia venuta mentre era in vacanza con l’amante sulle Alpi austriache... Non so se ho calcato un po’ troppo la mano con Sonnenborg. Non solo vive con la moglie e ha un’amante fissa, ma “dà fondo alle riserve di cognac” del padre della sua fidanzata... Insomma, Schroedinger mi perdonerà: in fin dei conti, il mio è davvero un omaggio alla sua memoria.
Nick:  Mi hai accennato che sei all'opera sul seguito de "L'Uomo a Un Grado Kelvin" dove sarà maggiormente presente l'aspetto fantascientifico. Cosa ti ha convinto in tal senso?
Piero: C’è un seguito abbastanza evidente per “L’Uomo a Un Grado Kelvin” (non voglio dire qual è), che porta a una trama decisamente meno gialla e più fantascientifica. Spero che nessuno si aspetti omini verdi che saltano fuori dai dischi volanti, o computer a vapore all’epoca della regina Vittoria. L’ambientazione è la stessa, e come è noto non si può cavare sangue dalle rape...
Nick: Puoi darci qualche anticipazione sul romanzo?
Piero:  Preferisco di no. Qualcuno (in questo momento non ricordo chi) ha detto che scrivere un romanzo è come attraversare l’oceano in una vasca da bagno. Condivido la metafora. In questo momento mi sento un po’ come un marinaio del 1600 che si imbarcava per le Indie, senza neppure la possibilità di misurare la longitudine a cui si trovava la nave. Credo che dovesse porsi qualche domanda. Tornerò? Arriverò da qualche parte? Insomma, qualunque anticipazione rischierebbe di essere smentita dai fatti, ammesso che ci siano, prima o poi, fatti in grado di confermare o smentire qualcosa.
Nick: Nel nostro paese come purtroppo sappiamo la narrativa non mainstream è soggetta a molti pregiudizi, specie in ambito accademico nel tuo caso specifico i tuoi colleghi e i tuoi studenti hanno accolto il fatto che scrivevi di Fantascienza?
Piero: Per quanto riguarda gli studenti, non lo so ancora. Il mio corso comincia a marzo, e non li ho ancora visti. I colleghi sono stati molto carini, anche se non ho davvero idea se qualcuno di loro abbia letto il mio libro. In generale, comunque, sono d’accordo con te sui pregiudizi. Molta gente fa ancora questa strana distinzione tra “letteratura” e “letteratura di evasione”. Giallo, fantascienza, fumetto fanno parte di quest’ultima categoria. Come se Raymond Chandler non fosse un vero scrittore. Come se i “Fratelli Karamazov” di Dostoevskij non fosse un autentico “noir” ante litteram. Come se l’ascensore spaziale di Clarke non fosse un’idea attualmente allo studio di emeriti ingegneri e scienziati, che vedono in essa una possibile soluzione al problema fondamentale dell’esplorazione spaziale, che come è noto è il costo dei vettori.
Nick:  Si è sempre detto che la fantascienza sia (anche ) una occasione per parlare dei problemi e della società attuale, fingendo di parlare di altre realtà, altri mondi e altri futuri. Qual'è la tua opinione in proposito?
Piero: Sono completamente d’accordo. La fantascienza “sociale” ha evidentemente un’importanza enorme, e rappresenta uno dei filoni più prolifici e anche più interessanti della SF. Del resto, questo aspetto della fantascienza ha origini nobili: pensa alla “Repubblica” di Platone, all’”Utopia” di Tommaso Moro, alla “Città del sole” di Campanella... Ho l’impressione che l’aspetto sociale sia presente anche in opere non esplicitamente “sociali”. Per fare un esempio, è difficile non vedere in “Dune” un ritratto fantastico del mondo arabo e della jihad. A memoria non lo ricordo, ma mi sembra che Herbert usi esplicitamente questo termine. Del resto, anche Star Trek descrive una società umana che si è (finalmente) liberata da molti dei vizi che la caratterizzano ai nostri giorni...
Nick:  Veniamo ora alla fantascienza prodotta e scritta nel nostro paese, secondo te quali sono i maggiori pregi della narrativa prodotta nel nostro paese, quali sono ( se ne ritrovi ) gli eventuali limiti e quali sono le prospettive? E cosa più importante quali, secondo te sarebbero le cose che potremmo fare un po tutti per questo settore che tanto amiamo?
Piero: Il discorso è molto complesso, e a mio parere andrebbe esteso un po’ a tutta la letteratura italiana. E’ come se soffrissimo storicamente di un complesso di inferiorità nei confronti degli autori stranieri, in particolare degli anglosassoni. Come risultato, o li imitiamo nel modo più pedissequo, con il risultato di produrre cloni degli originali di scarso valore letterario e senza un’ombra di novità, oppure ci rintaniamo in un’”italianità” da paese, piena di “macchiette” locali senza nessun interesse per chi non si ubriaca tutte le sere di lambrusco. Ci sono, per fortuna, delle eccezioni. Nel campo della fantascienza, vorrei citarne due (senza togliere niente a molti altri bravi autori) Uno è Dario Tonani, che sto leggendo adesso, e che mi sembra reinterpretare il genere steampunk con notevole originalità. Non a caso sta avendo successo, anche sul piano internazionale. L’altro è Alessandro Forlani. Ti dico subito che il mondo di Forlani è molto lontano dal mio. Questo non mi impedisce di apprezzare fino in fondo il tentativo di creare un linguaggio nuovo che Forlani sta facendo. E’ stato accusato di non scrivere fantascienza, di essere barocco... io dico: che importanza ha? Non vi sentite addosso le divisioni rigide di genere come se fossero delle gabbie? Non vi sembra venuto il momento di liberarci tutti dall’inferiority complex, di cercare soluzioni nuove? Vorrei notare, per inciso, che quando si parla di fantasy a tutti viene in mente Tolkien. Benissimo, certamente un grande autore (anche se, ti confesso, personalmente mi ha annoiato a morte). Nel frattempo ci dimentichiamo che il più grande fantasy che sia mai stato scritto è intitolato “Orlando Furioso”, e il suo autore si chiamava Ludovico Ariosto... Ecco, io ho l’impressione che forse qualcosa si stia muovendo quaggiù da noi. La nostra povera Italietta che affonda nei debiti e nelle contraddizioni, quando uno meno se l’aspetta è capace di tirare fuori miracoli economici e magari (perché no) anche letterari.
Cosa potremmo fare per la fantascienza? Per quanto riguarda gli autori, forse ricordarci un po’ di più che la fantascienza è essenzialmente una palestra di idee. Era questa la fantascienza degli Asimov, degli Sheckley dei Clarke. Non parlo solo di trame, ma anche di capacità narrativa. “Idee” nel senso più generale. In fondo, come italiani, di idee ne abbiamo sempre avute un sacco. Per quanto riguarda i lettori, forse riflettere sul fatto che le strade della fantasia, come le cose che stanno nel cielo e sulla terra di Shakespeare, sono più numerose degli schemi elaborati dai filosofi. Detto in altri termini, cari lettori, se ci sarà davvero una rinascita della fantascienza italiana, non aspettatevi per forza che segua strade a voi note.
Nick: Quali sono gli scrittori che segui con maggiore attenzione ed interesse?
Piero:  Qualcuno l’ho già citato. Per il resto, preferisco non fare nomi. Gli “esclusi” potrebbero sentirsi offesi... magari solo perché non li ho ancora letti.
Nick:   A parte il seguito de "L'Uomo a Un Grado Kelvin" cosa stai lavorando adesso?
INTERVISTA CON PIERO SCHIAVO CAMPOPiero: Ho diversi racconti finiti. Parlo di fantascienza “vera”, anche se forse, in qualche caso, un po’ strana. Come sai, i racconti si vendono meno dei romanzi. Dato che gli italiani si vendono meno degli stranieri, i racconti degli italiani non si vendono proprio, quindi nessuno li pubblica. Sto pensando di farmi un mio “blogzine” con uscite periodiche, in modo da metterli a disposizione di chi li vuole leggere. Credo che mi muoverò in fretta, anche perché da marzo sarò molto impegnato con il mio corso alla Bicocca e non avrò più molto tempo. Per quanto riguarda i romanzi, ho almeno due idee in testa. Tuttavia, come ho già detto, il romanzo è una faccenda complessa, e ho bisogno di tempo (non so dirti quanto) per “macchinarmeli”.
Nick: Bene Piero, è tutto, ti rinnovo i miei complimenti per il tuo libro e ti chiedo se c'è qualche domanda a cui avresti risposto volentieri e che io invece non ti ho posto?
Forse questa: “cosa pensi delle critiche che sono state fatte da più parti a proposito della tendenza degli autori italiani a scrivere prevalentemente gialli fantascientifici?” Ecco la mia risposta. Personalmente non credo che ci sia una specie di “congiura” degli editori che punti a spingere di più il giallo fantascientifico rispetto ad altri generi. Nel mio caso, la scelta de “L’Uomo a Un Grado Kelvin” è stata fatta non dall’editore Mondadori, ma da Giuseppe Lippi e dalle persone che collaborano con lui. Ho conosciuto Giuseppe Lippi solo in occasione del festival di Trieste, quindi dopo che mi era stato assegnato il premio. Non posso dire di conoscerlo bene, ma l’impressione che ho avuto di lui è quella di una persona molto competente (oltre che sensibile e intelligente), ma soprattutto molto “coinvolto” dalla fantascienza. Tenderei a escludere che alla base della sua scelta ci siano stati motivi commerciali. Credo che a Lippi il romanzo sia proprio piaciuto, e che questo sia il motivo di fondo per cui ha deciso di premiarlo. Resta la domanda sul perché così tanti autori italiani scelgano di esprimersi nel giallo fantascientifico. Non lo so. Ti ho parlato della genesi de “L’Uomo a Un Grado Kelvin”, e a questo punto mi sembra evidente che non c’è stata da parte mia la volontà di buttarmi su un filone “vincente”. Forse anche per altri autori le cose stanno così. Può darsi che altri sotto-generi della fantascienza risultino oggi meno interessanti da approfondire per chi scrive. Prendi, per esempio, la fantascienza spaziale. Dopo Star Trek, dopo Guerre Stellari, dopo i fiumi di astronavi, alieni e pianeti esotici di cui sono stati pieni libri e film negli ultimi cinquant’anni, può darsi che pochi autori ritengano che ci sia ancora qualcosa da dire sull’argomento. Questo però è un caso in cui è evidente l’equazione: dominio di genere = morte della creatività. La fantascienza spaziale alla Star Trek si comporta un po’ come si comportarono ai loro tempi i dinosauri che, avendo occupato tutte le nicchie ecologiche disponibili, non lasciavano spazio ad altre specie per emergere. Giusto per chiarire: Star Trek ci presenta alieni identici agli umani (se non per particolari irrilevanti come le orecchie a punta), e perfino in grado di procreare con loro. Dal punto di vista scientifico è una sciocchezza madornale. Molti scienziati ritengono che la vita possa essere diffusa nell’universo, ma la probabilità che gli alieni ci assomiglino anche vagamente è praticamente zero. Questa constatazione apre un campo di possibilità sterminato. Negli anni ’80 la scienza ha scoperto un nuovo paradigma, che è quello dei sistemi complessi (tra i quali si devono annoverare i sistemi viventi) ma la fantascienza, dominata da SUO paradigma (che è quello di Star Trek) non se ne è neppure accorta. Eppure l’universo potrebbe essere pieno di sistemi complessi adattativi, per certi versi vivi ma completamente diversi dalla vita come la conosciamo. Autori di fantascienza, vorrei porvi una domanda: la città di Milano può essere considerata un essere vivente? Vorrei notare che: 1) un giorno è nata, e un giorno morirà. 2) Metabolizza, come ogni essere vivente; ogni giorno tonnellate e tonnellate di alimenti, oggetti, manufatti, materie prime vengono “ingoiate” da Milano, trasformate e infine espulse sotto forma di rifiuti urbani. 3) Conserva la sua entropia, esattamente come fanno gli esseri viventi; il grado di “disordine medio” non aumenta e non diminuisce (o se lo fa il processo è molto lento). 4) Dispone di strutture organizzate, esattamente come gli esseri viventi. La sua stessa esistenza dipende dal fatto che queste strutture organizzate funzionino come devono (se sparissero le forze di polizia, Milano soffrirebbe almeno quanto un essere vivente con gravi problemi al fegato o ai polmoni)... Non trovate che questa constatazione apra prospettive su possibili mondi alieni più interessanti delle orecchie a punta?

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