All Dressed Up with Nowhere to Go, il primo studio di e con Giorgia Nardin, Amy Bell e Marco D’Agostin - andato in scena il 21 aprile al Teatro Villa dei Leoni a Mira, dopo una settimana di residenza in teatro – è stato un turbine di emozioni, immagini, sensazioni, che si sono accavallate senza una logica definita: Incertezza, Instabilità, Ricerca, Dinamicità, Collettività, Solitudine, Energia esplosiva del corpo e del movimento, Libertà, Protezione.
Una bozza, un primo studio – nulla ancora è definito, tutto è ancora in fase di cambiamento, mutazione, trasformazione – che ha aperto generosamente le porte del teatro di Villa dei Leoni di Mira al pubblico per confrontarsi, per capire, per aggiustare, per porre delle domande, dei dubbi.
Guardo i tre danzatori in scena e percepisco un’atmosfera iniziale di circospezione, di studio da parte dei performer, sullo spazio, sul proprio movimento, sul proprio tempo (ora è più lento e titubante ora più marcato e veloce). Azioni quotidiane diventano gesti che esprimono uno stato d’animo più intenso e vogliono comunicare con forza sempre maggiore. Non riesco e non voglio nemmeno dare una logica a quello che ho visto, ma mi sono lasciata trasportare da questi movimenti, da questi tre corpi che si sono dati al pubblico senza risparmio, senza remore, senza limiti, in un crescendo di azioni che mi ha portato a vivere sulla pelle quello che loro stavano concretizzando col corpo.
Idealmente mi viene spontaneo suddividere lo studio in quattro scene, o quadri, che scandiscono dal mio punto di vista le transizioni del corpo nel movimento nell’azione e negli stati d’animo. La “prima” scena è più statica, legata a pochissimi gesti, eseguiti dapprima in modo incerto e poi più sicuro. Percepisco la ricerca di questi spazi e di questi gesti, e la titubanza nello spazio e del movimento. I tre performer sono distribuiti in un’area ben precisa, o quasi. Marco e Amy padroni del palco, ci osservano e li osserviamo, Giorgia è quasi nascosta, infondo, movimenti impercettibili caratterizzano la sua presenza in scena che sembra quasi non voluta, quasi di “troppo”.
Nella “seconda” i tre danzatori s’incontrano in un punto preciso al centro del palco, come se ci fosse un’energia catalizzatrice che li unisce – ma li lascia alla loro individualità senza mai toccarsi – generando dei movimenti quasi meccanici eseguiti in senso rotatorio nello spazio, allineandosi sia sull’intensità, sia sull’intento e sulla direzione. Nella “terza”, la più intensa, il movimento si libera, sembra come esplodere; si percepisce una volontà di lasciare andare qualsiasi cosa, è il movimento che diventa padrone dell’azione fino a lasciare il performer nudo, non solo fisicamente ma anche interiormente, e questa energia arriva diretta in platea e travolge.
Mi travolge il carisma, la potenza, l’energia, come un senso di positività, di libertà, di fiducia verso un qualcosa che non so cosa sarà, verso una trasformazione che non so dove mi porterà ma il lasciare andare ogni cosa mi evoca un grande senso di libertà che è davvero coinvolgente.
Nella “quarta” e ultima scena i corpi ritornano progressivamente alla calma iniziale, ma avverto un sentimento di protezione differente rispetto all’inizio. Se inizialmente potevo individuare un senso di scoperta e d’instabilità, in questi movimenti circolatori su e stessi, sul proprio corpo – mi evocano l’immagine come delle viti, dei bulloni, avvitati a poco a poco a terra – come se laddove c’è stata l’implosione fisica ora quella mentale cerca di mettere un freno e cerca protezione, sicurezza, stabilità nello spazio attraverso una chiusura fisica che è predominante.
Un primo studio, questo di Giorgia con Marco e Amy, molto interessante e intenso, che nasce da un imput iniziale grazie ai quadri di Bosch, pittore fiammingo del 500 piuttosto surreale, che porta sulla tela i terrori, gli incubi, della mente più nascosta. I tre giovani danzatori sono partiti da questo punto comune, da queste immagini usate come dei “veicoli” per poi giungere altrove, indagando principalmente nelle transizioni emotive, spaziali e d’azione.
Dopo aver visto questo lavoro la domanda che mi pongo e che vi faccio è: si possono ricreare le emozioni vissute attraverso un’azione? O è sempre dall’emozione che parte tutto e quindi cambiano anche le nostre azioni? Molto curiosa di vedere il risultato finale!
Per chi volesse vedere il lavoro, e lo consiglio tanto, lo segnalo a Padova il 4 e 5 maggio al ridotto del Teatro Verdi per Prospettiva Danza e Teatro! Accomodate nei camerini del Teatro Villa dei Leoni, sono pronta a fare a Giorgia un po’ di domande sul suo percorso artistico, curiosità riguardanti il suo prossimo lavoro ed altro ancora.
C.Z.: Come nasce un lavoro coreografico? Da un immaginario? Da un’emozione? Da temi particolari?
Giorgia Nardin: Beh, diciamo che va tutto un po’ di pari passo. Per lo studio che andrà in scena domani sera All dressed up whit nowhere to go, tutto è nato questa estate quando ho visto i quadri di Hieronymus Bosch a Palazzo Grimani, a Venezia. Da li la scelta di partire da un concetto distante dalla contemporaneità, proprio perché l’artista utilizza un immaginario fantastico, grottesco, animalesco, se vogliamo qualcosa di completamente opposto alla quotidianità, ed è da questo punto che volevamo cominciare lo studio, da un vocabolario di immagini iniziale suggerite da questi dipinti. Poi a poco a poco, lavorando anche con Marco D’Agostin e Amy Bell, è arrivata sempre più forte l’esigenza di sviluppare la tematica delle transizioni, dei percorsi, da un momento iniziale a uno finale molto diverso, quindi a delle vere e proprie trasformazioni. E’ proprio in questo senso che lo ricollego al mondo di Bosch. Quando parlo di transizioni mi riferisco principalmente a delle trasformazioni personali, più interne, emotive, non semplicemente fisiche. La mia esigenza era di parlare di questo e Bosch mi ha dato un veicolo di immagini che mi ha aiutato a ricollegarlo a qualcosa di visivo.
C.Z.: C’è un quadro in particolare che ti ha ispirato più di un altro per questo lavoro?
Giorgia Nardin: No, non c’è n’è uno nello specifico, il primo che ho visto è stato “Visioni dell’aldilà”, poi “Il trittico delle delizie” ed altri, ma uno in particolare non c’è. Non mi interessa fare un lavoro predominate su Bosch, non è quello che voglio raccontare, anche perché durante la ricerca – il percorso creativo – il lavoro ha preso una piega molto diversa, molto distante da quella iniziale rispetto all’immaginario del pittore, ciò mi ha permesso di esplorare la tematica da un’altra angolazione, un altro punto di vista.
C.Z.: Quando inizi a lavorare su un progetto quanto cambia, durante l’elaborazione, l’idea originale? Rimangono dei punti fissi o è tutto in trasformazione?
Giorgia Nardin: Questa è un punto su cui ancora mi interrogo molto, anche con Marco ed Amy, soprattutto in questa residenza in particolare perché è cambiato tutto moltissime volte. Avevamo già dei quadri (per quadri s’intendono scene – atti) da cui partire che sono stati totalmente stravolti in questa residenza, per poi ritornare e per poi essere distorto ancora una volta. Tutto dipende spesso da che canale di accesso scegli per lavorare (vuoi uno stato d’animo, piuttosto che un sentimento, un emozione ecc.). E proprio in questi giorni ci stiamo domando se è possibile ricreare quegli stadi, quegli stati d’animo, che ci hanno permesso di arrivare al quel particolare gesto o movimento all’interno di un disegno coreografico più formale o è necessario che il disegno cambi ogni volta oppure devo trovare dei modi per ricreare lo stesso stato d’animo. È una questione molto aperta per me, per noi, in questo particolare momento. Infatti, quello che ho scelto di mostrare domani non è una sequenza compiuta, ma sono tanti frammenti tra i quali spiegherò a voce quali sono i passaggi, il percorso, che abbiamo scelto di affrontare. Credo che in questo momento sia la soluzione più onesta e l’unica possibile, non me la sento di fare diversamente. In primo luogo perché non trovo interessante riuscire ad incanalare in una successione logica questa tematica delle transizioni, mi sembra una forzatura rispetto a quello che vogliamo presentare. In secondo luogo mi sembra più utile aprire il processo creativo al pubblico, cercando un confronto con lo spettatore che in questa fase del lavoro è fondamentale.
C.Z.: Ti pongo la stessa domanda che ho visto citata sia nella presentazione di questo primo studio sia del laboratorio Shatush: la ricerca della bellezza è un atto violento?
Giorgia Nardin: È una domanda da cui siamo partiti nella prima residenza che abbiamo fatto a Bassano verso gennaio, alla quale non potremo mai dare risposta, ma è rimasta come sul fondo di ciò che stiamo facendo. Più che la bellezza credo si possa parlare di trasformazione, di apertura del performer durante la performance, quindi indaghiamo su che cosa voglia dire togliersi tutti gli strati che abbiamo, che ci proteggono, per lasciare andare tutto e rimanere con ciò che c’è effettivamente. In questo senso, secondo me, è l’azione più generosa ma anche più violenta che un performer può fare, spogliarsi di tante cose rimanendo “nudo” emotivamente, con una essenza molto intima. Lo trovo un atto bellissimo e violento in egual misura e riuscire a rimare, a stare in quel momento li, per me è importante, anche perché non è facile e non succede sempre, ma il mio interesse sta proprio in questa ricerca.
C.Z.: Ti capita mai che la gente dopo aver visto un tuo lavoro non capisca quello che ha visto? Che se vogliamo è un po’ il “problema” ma anche la fortuna del teatro e la danza contemporanea…
Giorgia Nardin: Sì succede. Però io credo di non avere un messaggio da dare, per me è importante che, chi viene a vedermi vada a casa con qualcosa di suo e non con quello che io necessariamente volevo comunicare. Credo, comunque, che lo formato dello sharing (presentazione del lavoro non ancora finito), come quello di domani sera, sia un momento molto importante non solo per l’artista ma anche per lo spettatore, perché c’è la possibilità di parlare, di porre delle domande direttamente a chi crea ed è una cosa molto bella e molto rara, e confido molto in questi momenti per la crescita e lo sviluppo del lavoro stesso.
C.Z.: C’è una corrente, una tecnica di danza in particolare rispetto ad un’altra che ha poi influenzato il tuo percorso artistico?
Giorgia Nardin: Direi di no. Ti spiego. Veniamo tutti da contesti molto diversi. Io ho iniziato a studiare sin da piccolina danza classica, che sicuramente mi ha influenzato nella postura, ha plasmato il mio corpo. A livello fisico indubbiamente le contaminazioni da tante correnti diverse ci sono, ma non mi sento di dire che appartengo più ad una scuola piuttosto che ad un’altra. Per esempio, Marco, non ha studiato danza sin da piccolo ma viene da una formazione sportiva, e lo stesso Amy si è avvicinata alla danza da più grande.
C.Z.: Com’è nata la collaborazione con Marco ed Amy? Come vi siete incontrati?
Giorgia Nardin: Io e Marco ci conosciamo dal 2010. Ci siamo incontrati ad un seminario a Bassano, dove abbiamo lavorato in gruppo insieme a Francesca Foscarini e da li abbiamo iniziato a ideare lo spettacolo Spic e Span. Amy invece l’ho conosciuta quest’estate durante un progetto europeo che si chiama Choreoroam Europe, progetto itinerante in 4 capitali dell’Europa, dove un collettivo di 8/10 coreografi si incontra per una settimana e fa ricerca assieme. Ed è proprio all’interno di questo progetto che è nata l’idea poi di questo lavoro, quindi ho avuto l’esigenza di chiamare Amy perché mi confrontavo con lei durante quel percorso.
C.Z.: Ho letto che collabori anche con Barokthegreat. Com’è lavorare con loro? Ci sono affinità?
Giorgia Nardin: Sì, sono stata chiamata a lavorare con loro, come interprete, per l’ultimo spettacolo che hanno prodotto, Indigenous. In realtà, quando divento interprete per “altri” cerco di dare totalmente la mia presenza in quel lavoro, chiaramente sono sempre io, però è ben diverso quando invece sei tu l’autore del tuo stesso lavoro. Sono esperienze molto importanti, in questo caso mi interessa moltissimo il modo di creare di Barokthegreat, anche se non mi sento di dire che ci sono dei parallelismi col mio lavoro, perché interagiamo su due immaginari molto diversi, ma è anche questo un motivo molto interessante per me, per confrontarmi, su cose nuove che mi portano molta ricchezza.
C.Z.: Quanto ha influito la danza nella tua vita?
Giorgia Nardin: Oddio… che domandone! Sicuramente la danza ha influito anche nella mia vita quotidiana, è il mio lavoro e ciò, secondo me, dipende anche dalla tipologia di rapporto che si ha con questo tipo di lavoro, in primis perché è una cosa che viene da te, è una passione, chiaro che poi determina e plasma tutti i settori della tua vita e certamente il corpo diventa per me spesso un veicolo di comunicazione.
C.Z.: Com’è una giornata “tipo” di Giorgia?
Giorgia Nardin: È una domanda bellissima anche perché è una cosa che…non esiste!
Sicuramente lavoro, può essere che io sia qui o da un’altra parte a fare le prove, o può essere che io stia andando in qualche altro posto per spettacoli o seminari, non so…è tutto molto schizofrenico, questo di sicuro!
Written by Cristina Zanotto