«Solo chi la vita la getta senza misura può dare e avere la vita». Teresio Olivelli
A pochi giorni dal 25 aprile e dal Primo Maggio proponiamo l’intervista a Lidia Menapace autrice di “Io, partigiana. La mia resistenza” (Manni editore).
Lidia Menapace staffetta partigiana, senatrice della Repubblica Italiana, pacifista e femminista militante offre una fondamentale e preziosa testimonianza storica. Prima della nostra intervista ha incontrato gli studenti del “Marco Polo” (Liceo Linguistico e Istituto Tecnico Economico Statale) di Bari e ha salutato ragazze e ragazzi così:
«Buon giorno a tutte e tutti. Ma perché dico prima “buongiorno a tutte” e poi “a tutti”? Perché “Ladies first, per cortesia”. Anche, la cortesia non dispiace. Ma soprattutto per diritto. Dall’ultimo censimento noi donne siamo di più, siamo due milioni mezzo più degli uomini, c’è poco da ragionarci. Quando parliamo di democrazia rappresentativa, sarebbe il caso di definirla, però, non adeguatamente rappresentativa dal punto di vista di genere. Qualche volta, spesso, c’è un uomo che mi dice «Io dico uomo per intendere anche donna, tanto siamo uguali» e a questo punto io rispondo sempre «Allora io dico donna intendendo anche uomo per dimostrare quanto non siamo uguali». Nell’ Umanesimo fu deciso che in italiano nelle concordanze deve prevalere il maschile – notate quanto sia poco democratico questo verbo “prevalere”- e fu data la spiegazione che il genere maschile fosse quello più nobile. Come dire che si usa genere maschile, si dice “uomo”, intendendo anche il genere un po’ ignobile delle donne. Se l’italiano fosse una lingua morta sarebbe immodificabile, ma l’italiano non è ancora una lingua morta. Sta non tanto bene di salute, lo ammetto. Ma è assurdo dire “jobs act” per riferirsi ad una legge sul lavoro. Sembra un modo arrogante per spaventare chi l’inglese non lo conosce. Di conseguenza l’altra lingua invece dell’italiano fa un po’ l’effetto del “latinorum” manzoniano autoritario e prepotente. Tutte le parole hanno un peso, bisogna imparare a riconoscere questo peso».
Proprio dal peso delle parole, poco dopo è cominciata la nostra intervista.
I.G.: Perché ha scelto la Resistenza?
Lidia Menapace: Sostanzialmente perché senza libertà è proprio noioso vivere. A me piace molto vivere, però libera. Perché altrimenti in gabbia non resisterei, mi intristisco. Perciò vedevo nella possibilità di “resistere” al nazi-fascismo la strada, il pertugio seppure difficile e complicato per raggiungere la libertà. Nel mio libro pubblicato da Manni che si intitola “Io partigiana, la mia resistenza” parlo lungamente della mia scelta di vita. Sono ex profe, ex tante altre cose, ma non ex partigiana, perché essere partigiani è una scelta di vita. Ho il brevetto di “partigiana combattente con il grado di sottotenente”. Se dicessi “Attenti” dovrebbero scattare tutti! Però io non ho mai portato armi, non mi sono arruolata. Inizialmente non portavo armi perché avevo paura di farmi male da sola: in casa mia non avevo mai visto né fucili, né doppiette, né altro, mio padre non era nemmeno cacciatore. Metti che tenendo una rivoltella alla cintola mi sparavo sul piede! Poi ho visto cosa facevano le armi e quando mi chiesero se volessi essere addestrata, risposi «Non voglio imparare a sparare alla pace di nessuno». Così è cominciata la mia azione non violenta. Una tale presa di posizione non avviene mai di botto. Avviene a partire dalla consapevolezza della propria connotazione sociale. Bisogna avere consapevolezza, altrimenti ci si lascia vivere, non si vive. Vivere significa prendere coscienza e si tratta di un lungo processo di maturazione. Per me questa presa di coscienza è anche il tratto caratteristico della Resistenza italiana che io definisco “antieroica”. Nessuno di noi pensava di “offrire al petto il piombo nemico” sarebbe stata una cosa piuttosto scema, dannunziana e anche un po’ fascista. “Balzare fuori con il petto offerto al piombo nemico” viene consigliato da chi sta seduto bene al caldo, ma sei tu che offri il petto: tu sei in trincea e loro restano a scrivere a casa. Noi volevamo “resistere”. Dicevo che la consapevolezza si acquista con gradualità. Io appartengo ad una famiglia che era molto politicizzata, si parlava molto di politica, mi sono presto accorta che in famiglia si potevano dire delle cose che a scuola non si potevano dire, meno che mai in società. Dopo l’8 settembre 1943, dopo che mio padre fu catturato e chiuso in un campo di concentramento come internato militare italiano, la prima volta che ho incontrato dei ragazzi non in divisa ma con i moschetti modello 91 a tracolla che mi hanno chiesto «Ma tu da che parte stai?» io ho risposto «Contro quelli che hanno portato via mio padre». Non ho dato una risposta ideologica o di teoria politica, ma una risposta che veniva dalla mia storia.
I.G.: C’è stato un evento che ha particolarmente segnato gli anni dell’infanzia e che poi è stato uno dei tanti momenti fondamentali per comprendere le atrocità di quegli anni?
Lidia Menapace: Un giorno a scuola mancarono due compagne che si chiamavano Ruth ed Esther. Allora io e mia sorella Isa andammo a portare loro i compiti, perché una volta i piccoli non potevano usare il telefono per dettare i compiti. Allora andammo a casa e la domestica ci disse «Esther e Ruth non verranno più a scuola perché sono ebree». Allora, per me, questo non significava nulla e siccome mia sorella non capiva le dissi «La domestica deve proprio essere una ragazza di campagna un po’ sciocca». Quando a tavola, dopo che i grandi avevano finito di parlare, chiedemmo cosa significasse che se una si chiamava Ruth ed era ebrea non avrebbe potuto venire a scuola, mia madre brontolò la solita frase (in dialetto) di disprezzo per Mussolini (e disse: “quello lì che si affaccia dal poggiolo”, che è strano perché noi piemontesi rispettiamo molto l’autorità) e mio padre imbarazzato ci rispose «Hanno fatto una legge per cui possono andare a scuola solo gli ariani». Allora noi chiedemmo «Chi sono gli ariani?» e lui rispose sempre più imbarazzato «Mi vergogno, ma siamo noi». Allora io pensai che il razzismo fosse un delitto senza remissione perché la colpa di chi ne è vittima è essere ciò che è. Allora ogni volta che sento «gli immigrati rubano» io rispondo «i ladri rubano».
I.G.: Come si possono riconoscere e combattere oggi i nuovi fascismi?
Lidia Menapace: Non adoperare il termine combattere, io voglio disinquinare il linguaggio politico da quello militare. Lottare contro, bisogna lottare contro. La lotta è un sport duro, uno sport che esclude di danneggiare fisicamente un avversario. Il fascismo sta ripresentandosi. La Costituzione dice che la ricostruzione del partito fascista è assolutamente anticostituzionale. Vorrei che un gruppo di costituzionalisti ci dicesse come lottare contro chi oggi mostra ancora il volto di Mussolini e fa il saluto romano. Bisogna costruire coscienze critiche e libere e questo è l’unico modo in cui si può continuare la Resistenza. Io dico sempre che fa bene alla salute fare la Resistenza. E sono la prova vivente di questo: a 91 anni vivo ancora come una trottola.
I.G.: Cosa ha significato essere donna della Resistenza?
Lidia Menapace: È significato scoprire grande cameratismo e amicizia con le compagne e i compagni di lotta. Il primo gesto della Resistenza per me, tra l’altro, è delle donne. L’8 settembre 1943 il Re e Badoglio lasciarono i soldati allo sbando e allora le donne ricoverano e nutrirono i soldati che scappavano perché adesso i nemici erano i tedeschi, ma non era facile sopravvivere con addosso la divisa di uno Stato che fino al giorno prima era alleato con la Germania e che lo era ancora al di sopra della Linea Gotica. Non fu, questo gesto, “il buon cuore delle mamme” perché nutrire i soldati che scappavano significava rinunciare al cibo, alle coperte e si doveva gestire una situazione che poteva costare la vita. I Nazi non ci mettevano nulla a impiccarti. Non ci chiamavano nemmeno partigiani, ma banditi, banditi che si potevano uccidere senza processo. Perché “partigiani”, secondo il Diritto Internazionale, sono coloro che lottano per difendere con qualsiasi mezzo la patria e se ci avessero chiamato così avrebbe significato che riconoscevano che stavamo lottando giustamente. In generale la presenza delle donne fu molto sentita. Mamma aveva un’amica ebrea che fu buttata nel Lago Maggiore incinta con le mani legate e non si può non essere contro a simili atti, fu una umiliazione morale tremenda per le donne. Noi venivamo da vent’anni di fascismo, perciò le persone giovani come me – io sono del ’24 – che nel ’31 andavano a scuola, potevano accedere agli studi solo se tesserate come Piccole Italiane o Figli della Lupa. La maggiore parte della popolazione entrò già fascistizzata a scuola. A scuola dove si imparava che Mussolini era un eroe e ci aveva salvati da non si sa che cosa. Solo dopo io imparai che Mussolini era arrivato alla marcia su Roma in vagone letto, né prima mi avevano detto che si era messo d’accordo con il Re perché non firmasse lo stato d’assedio. Un altro gesto della Resistenza che voglio ricordare è quello dei 780.000 soldati catturati e mandati in campo di concentramento, non come prigionieri di guerra protetti dal Diritto Internazionale, ma come internati militari italiani (IMI): morirono di fame in 80.000. Dei 780.000 solo un paio di migliaia aderirono alla Repubblica di Salò. Per 24 mesi gli altri dissero di no e questo fu una Resistenza, perché Hitler dovette tenere dei militari a sorvegliare i campi e quei militari pesarono negativamente sulla forza della Germania. Tornando alle donne, bisogna dire che nel Ventennio sono state molto represse: mia madre che era del 1897 diceva sempre che prima di Mussolini era stata una ragazza emancipata e quando lo diceva io e mia sorella avevamo paura, perché dire “emancipata” significava dire “facile” e peggio a quei tempi. Poi c’è stato un riconoscimento alle staffette, tuttavia rimase un pregiudizio maschilista. Al momento di fare la sfilata il 25 aprile 1943, Togliatti disse che a Milano le donne non avrebbero dovuto sfilare perché il popolo non avrebbe capito, sicché la prima fila era tutta di uomini. Teresa Mattei fu relatrice dell’articolo 3 della Costituzione e fu una delle madri costituenti. Stava con un compagno fiorentino e siccome non c’era il divorzio e lui era sposato, quando alcuni mesi dopo lei fu eletta andò da Togliatti e gli disse che era incinta. E Togliatti le disse «O ti dimetti o abortisci». Questo è evidentemente intollerabile. La Resistenza è non eroica e anche, purtroppo, patriarcale. Io ho sperimentato una certa difficoltà anche tra i compagni. Il nostro Paese è ancora oggi tradizionale e patriarcale nei suoi valori espressivi, ancora una volta abbiamo un uomo come Presidente della Repubblica – anche se io stessa avevo indicato donne come Nilde Iotti, Gigliola Tedesco, Tina Anselmi che sono state trascurate e meritavano di essere Presidenti della Repubblica – in ogni caso se un posto è uno solo, tocca sempre ad un uomo. Ricordati che c’è una spontaneità maschile di ritenersi il meglio e sono millenni che va avanti così.
I.G.: Cosa significa per lei la parola obbedienza?
Lidia Menapace: Poco e male, a me non piace obbedire. I libri di scuola cominciavano così: “La prima virtù del fascista è l’obbedienza”. Poi voltavi pagina “La seconda virtù del fascista è l’obbedienza”. Voltavi ancora pagina e leggevi “La terza virtù del fascista è l’obbedienza”. Poi sui muri leggevi “Credere, obbedire e combattere”. Cercavano di convincerti che solo l’Italia fosse un buon Paese, gli altri erano ignoranti e malvagi. Non avevamo passaporto, non potevamo fare niente. Io non credo all’obbedienza. Sono anche per non fare stupide manifestazioni di disobbedienza quando non sono necessarie, ma credo nella disobbedienza che vuole allargare l’area di agibilità politica in modo che sia sempre meno il territorio a cui bisogna obbedire perché, tra l’altro, se gli spazi vengono ristretti le prime ad essere allontanate sono le donne.
I.G.: Cosa rappresenta per lei il verbo capire?
Lidia Menapace: Importantissimo il verbo capire, secondo me è anche la base di una necessaria alternativa. Il capitalismo ha dato tutto quello che poteva dare. E capire ti permette di pensare come puoi cambiare atteggiamenti mentali pratici, l’alternativa è rivoluzione culturale.
I.G.: Qual è il suo rapporto con i giovani?
Lidia Menapace: La cosa da ridere è che io posso solo invecchiare per i giovani e cerco di farlo senza incartapecorire. Mi interessa molto il gusto dei giovani e per esempio ho detto di salutare da parte mia Simone Cristicchi a Barletta. Per quanto posso, cerco di capire i giovani, senza fare del giovanilismo che sarebbe stupido alla mia età. Ho fondato il club delle vecchiacce: ero una strega da giovane, da vecchia voglio continuare ad essere una vecchiaccia. Poi credo che la scuola abbia un ruolo fondamentale nonostante oggi vogliano farne un luogo meno culturale e più professionale. Ma per essere cittadini non basta schiacciare dei bottoni, occorre anche sapere perché e che succede se si schiaccia un bottone. Bisogna sapere le cose non meccanicamente.
Written by Irene Gianeselli