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Intervista di Irene Gianeselli a Maurizio Turchet: nel labirinto si crea l’arte

Creato il 29 settembre 2015 da Alessiamocci

Maurizio Turchet è consulente di comunicazione per industria, moda, design, educazione, studi medici e di medicina complementare.

Pittore, graphic designer, performer, fotografo, video maker, i suoi lavori sono stati presentati in Italia e all’estero. Operatore del benessere, ha sviluppato QART, arte in dimensione quantica, un laboratorio di visualizzazione e di trasformazione finalizzato alla creazione della propria vita come un’opera d’arte.

Co-fondatore con Elena Rudatis di Qart Academy propone stages di ricerca e realizzazione di progetti video, performance, fotografia secondo i procedimenti QART. Co-fondatore con Beatrice Paola Ruffini e Fausto Intrieri di Set Up Production Milan Berlin che produce video, foto e relativi servizi.

Maurizio Turchet racconta ai lettori di Oubliette Magazine la sua personale ricerca.

I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. Peter Brook ne “La Porta Aperta” enuncia «Non c’è forma, cominciando con noi stessi, che non sia soggetta alla legge fondamentale dell’universo: quella della scomparsa». La “disappearance” è perfettamente espressa nell’atto creativo della messinscena. Peter Brook prosegue «Fra ciò che è manifesto e ciò che non lo è, vi è un fluire di energie senza forma, in certi momenti ci sono come certe esplosioni che corrispondono a questo termine [indù]: “Sphota!”. Questa forma si può chiamare “incarnazione”». Vorrei partire proprio dal metodo di visualizzazione e canalizzazione abbinato alla creatività Q-ART che hai elaborato nell’ambito della tua autonoma ricerca sulla trasformazione ed il riequilibrio di micro e macro sistemi. Un metodo che personalmente trovo molto affine – dal punto di vista teorico – allo sperimentalismo brookiano, anche visto l’esito di “Un sogno” girato con la compagnia ”TheThetaTheatre” che hai fondato.

Maurizio Turchet: Grazie a te per l’eccezionale opportunità, non capita spesso di trovare chi sappia leggere in modo così chiaro ciò che mi è dato di riportare. Citando la “disappaerance” in Peter Brook, uno degli autori e maestri che più hanno segnato la mia ricerca, cogli esattamente le origini del mio lavoro. Un giorno d’Agosto un uomo scomparve”. Inizia così La donna di SabbiaSuna no ona, di Abe Kobo, uno scrittore giapponese contemporaneo di Mishima. Dal romanzo di questa donna-insetto che vive in una casa in un buco di sabbia al centro di un labirinto metafora di Tokyo, Hiroshi Teshigahara realizzò un film nel ’64. Questa frase mi accompagnò finché un giorno decisi di spostare il mio asse con una dichiarazione d’intento. Sarei andato nell’al-di-là, nell’altra scena. Da lì, come il morto, nell’essere e insieme non esserci, recitando non visto, avrei unito i fiumi dell’arte e della vita. Avevo operato uno tzim-tzum, un termine ebraico che definisce l’atto della creazione, sottraendomi avevo spostato l’asse mondo, lo avevo trasformato in un palcoscenico. Il mio doppio si produceva in fatalità. La gente pensava che fossi andato fuori-di-testa e avevano ragione. Eppure erano costretti a prendere atto delle coincidenze che mi circondavano. Incontrai Jordan e Adam Ant, attori in Jubilee di Derek Jarman, ammiravo la loro scelta di portare la maschera in ogni momento della loro vita. Da ragazzo avevo seguito Julian Beck e Malina nelle tappe italiane del Living Theatre e successivamente ebbi occasione di frequentare alcuni artisti del gruppo Fluxus.  Con Fluxus l’happening si faceva performance per diventare successivamente event. Ma nel mio caso non c’erano più un luogo e un tempo circoscritti che definivano il momento sacrale e separato dell’atto. Avrei voluto che Cielo e Terra s’incontrassero. Realizzai una partitura con le indicazioni per un’opera su Biancaneve e mi ritrovai a esserne recitato nelle città di cui ero ospite: Tokyo, Parigi, New York, Milano, Londra, la metropoli planetaria, il Giardino-labirinto dove le jungle e i deserti erano ormai ridotti a parchi nazionali. Il Pianeta era un labirinto, una sfera senza uscite. Oggi concetti come Natura, Paesaggio ma anche Realtà-Virtuale non sono più adatti a definire la non-località e l’impermanenza insostanziale in cui siamo ormai consapevoli di fluttuare, testimoni, più che attori, di un’apocalisse sospesa in cui tutto accade in contemporanea come, si dice, sull’orizzonte degli eventi di un buco nero.

I.G.: In “Mein kleines Labyrinth” partendo dalla dimensione mitica hai affrontato il rapporto mýthos e lógos attraverso il principio di trasformazione/mutamento e di distinzione tra mondo della natura, mondo degli uomini e mondo delle potenze sacre. Con l’immagine del labirinto hai voluto sottolineare la condizione umana tra necessità e libertà? Si tratta di un tema complesso, puoi parlarcene?

Maurizio Turchet: La foto che mi capitò di scattare a Creta nella Grotta di Dhikti il 1° Agosto del 1987 illustra i retroscena del video Mein Kleines Labyrinth, il mio piccolo labirinto, girato a Berlino dal 4 al 6 Gennaio 2014. A conclusione del viaggio nella città planetaria del “Giardino che trasforma in gioielli”, una frase che sottintende il travaglio dell’alchimia cinese trovata inTrastulli di Animali di Yukio Mishima, approdai all’isola di Creta, dove si trova il Labirinto di Knossos, la città originaria, l’archetipo della città. In quei giorni sulle spiagge si ascoltava La Isla Bonita di Madonna: “…I dreamed of San Pedro…” Pietro, la Pietra. «Quella ragazza sa quel che dice» pensai.  Nel Labirinto speravo d’incontrare il Minotauro e di ricevere da lui alcune indicazioni. Da Knossos fui portato alla grotta di Dhikti, il tempio naturale dedicato a Zeus dove nell’antichità la Pizia leggeva gli oracoli. Si dice che in questa grotta ci sia l’accesso al Labirinto vero e proprio, che si snoda per cunicoli interminabili sotto l’isola. Qui scattai alcune foto alla cieca col flash. Quando le sviluppai la mia sorpresa fu grande: in una di queste non potevo evitare di vedere il volto di Zeus, in una nuvola con una mezza Luna più luminosa sulla fronte. Osservandola con alcuni fotografi escludemmo un difetto fotografico. Una veggente mi disse che era come una foto realizzata con un apparecchio kyrlian e che mi era stato dato un indovinello da risolvere. Un pittore mi consigliò di confrontarlo con il quadro di Correggio: Zeus e la Ninfa Io, un quadro che fino ad allora era sfuggito alla mia attenzione. Combaciava. Quando un giovane musicista nato sotto il segno del toro mi propose di girare il suo video clip sul cuore del toro a Berlino, fu inevitabile associare la vicenda che mi era capitata molti anni prima a Creta. Si sarebbe rinnovato l’incontro con il Minotauro. Questa volta a Berlino, nella città che ospita il labirinto di Liebeskind, memoriale della Shoah. All’ultimo istante il musicista si ritirò. «Prendi il toro per le corna e riportalo nell’arena». Con Beatrice Paola Ruffini, che aveva già organizzato lo styling, le locations e un cast di attori d’eccezione: Sara Ercoli, Maria Giambona, Tommaso Ragno e gradito ospite inatteso Michele Ferra. Decidemmo di realizzare il nostro video, il “mio piccolo labirinto”, appunto. In aereo misi insieme alla meglio una descrizione dei personaggi: Minotauro, il cui vero nome è Asterion, semi-dio figlio della Costellazione del Toro e di Pasifae. La Ninfa Io, doppelganger, doppio di Pasifae, madre di Minotauro che si traveste da vacca per essere ingravidata dal Toro Bianco. Il Toro Bianco. La scena si svolge nel Giardino di Adone, dove cresce il caldo cinammomo (la spezia dei Vermi di Dune) e dove si aggira il Cinghiale Celeste, le cui zanne rappresentano la doppia falce lunare, le chele dello scorpione che secondo il mito si trasforma in aquila, animale totem di Zeus. Non ci sarebbe stato un copione, chiesi agli attori di immedesimarsi nel tema e di connettersi con il luogo. Avrebbero trovato da soli i gesti e le azioni. Io non li avrei diretti e non ci sarebbero state prove. Secondo i principi di Qart, arte in dimensione quantica, nel movimento “in fase” ci si pone in ascolto delle frequenze e ci si lascia guidare dai campi energetici in un’azione sincronica, mentre il “principio della forza” opera secondo le leggi di azione e reazione, chiede volontà e sforzo tecnico, nel mondo della forza si produce l’attrito. Nella recitazione in dimensione “Q” non si improvvisa e non si inventa, si manifesta l’istantaneità quantica. Dato un intento ci si affida al “campo” nella certezza di un risultato che sorprenderà nell’accadere sia l’attore che lo spettatore. Non c’è nulla di sperimentale e nulla di voluto. L’atto è pre-destinato, l’attore incarna il testo che è già lì, inscritto nell’etere, deve solo respirarlo in una sorta di canalizzazione e poi farlo uscire nei gesti e nella voce. Conosco poco la danza ma credo che si avvicini ad alcune modalità della danza contemporanea. Nel montaggio avrei tagliato l’inessenziale. Non sapevo cosa sarebbe successo ma promisi che alla fine avremmo ricevuto un messaggio da Minotauro. Tutto si svolse come d’incanto con il cast d’eccezione nei locali della fattoria del periodo bellico nel cuore della campagna tedesca, studio dell’artista Gianpaolo Di Cocco, a Berlino sotto la pioggia, e nel finale con Michele Ferra nella parte di Minotauro in un piccolo labirinto sotto le ali amorevoli dell’Angelo con le campane che suonavano a stormo. 

I.G.: In tutti i tuoi lavori – e in particolare in “Un sogno” – c’è un grande rispetto nei confronti dell’individuo ed allo stesso tempo è presente la tensione verso l’universale. La messinscena è una seducente e fittizia realtà, dunque come è stato possibile costruire “Un sogno”  partendo dalla commedia di Shakespeare (“A Midsummer Night’s Dream”), ma “conducendo” una non-recitazione e sostituendo la figura del regista con quella dell’osservatore? Ancora una volta mi viene in mente Peter Brook quando parla di “Teatro Immediato” ovvero del “Teatro Qualunque Cosa Occorra”: «un teatro nel quale gli elementi più puri e i più impuri possano ciascuno trovare il proprio, legittimo posto».

Maurizio Turchet: Il video di Un Sogno è il risultato dell’incontro con un collettivo di artisti terapeuti che operano il riequilibrio energetico modulando le frequenze psichiche in entanglement (connessione a distanza). Grazie a Elena Rudatis, artista e insegnante in frequenza theta e altre tecniche, che ha saputo aggregare questa straordinaria compagnia, il progetto QART ha compiuto un salto quantico e si è trasformato in Qart Academy. Studiosi di varie tecniche di “healing” mediante riprogrammazione neurale, feng shui quantico, frequenze sonore e visive, espressione del corpo, abbiamo deciso di mettere in scena quello che facciamo normalmente ma questa volta sul filo della recitazione. Così è nato The Theta Theatre, il gruppo teatrale che opera in frequenza theta, appunto, l’onda psichica dai 4 ai 7.9 hertz che si manifesta durante il sonno REM, la meditazione profonda, quando dipingi o semplicemente quando ti lasci portare dalla fantasia. È uno stato di trance più o meno profonda ma sempre consapevole. Il pasticcio amoroso del Sogno di una Notte di Mezza Estate intriso di incantesimi e di metamorfosi sarebbe stato il canovaccio ideale per produrre un teatro in theta, che unisce una concezione anarchica dei ruoli all’intento di operare un riassetto delle frequenze energetiche nell’atto della recita. Questa prima serie di episodi è caratterizzata dal tema sciamanico, infatti gli sciamani operano le guarigioni mediante rituali recitati, ma già il video successivo, Santo Graal, si discosta dall’espressione sciamanica, forse si può definire un thriller. Ogni episodio di Un Sogno ha espresso una musica, si può considerare un musical con tracce omeopatiche della commedia di Shakespeare. Un Sogno è stato un salto di Q-alità, rispetto all’esperienza di Mein Kleines Labyrinth. Dato un titolo, Un Sogno, riferito alla celebre commedia di William Shakespeare, ci saremmo incontrati in gruppi, secondo appuntamenti stabiliti dagli eventi e non da una scheda di produzione del video. Le parti non erano state assegnate. Ognuno avrebbe espresso una scena, secondo ispirazione. Non sarebbero state fornite indicazioni ai partecipanti, alcuni dei quali non avevano mai letto il testo, mentre altri lo conoscevano. The Theta Theatre è un teatro povero, come la compagnia teatrale composta da attori dilettanti, artigiani manuali tanto ignoranti quanto animati da buone intenzioni che mettono in scena la meta-commedia all’interno della recita nel matrimonio: “The most lamentable comedy and most cruel death of Pyramus and Thisbe”. Essi, gli artisti, sono il trait d’union tra il mondo della fantasia e la realtà. Non ci sarebbero stati costumisti o make up artist, ognuno avrebbe provveduto alla propria maschera, che non era d’obbligo. La testa di asino indossata da Bottom, emblema della commedia e delle metamorfosi, è stata acquistata da me, che sono l’operatore, in un negozio di maschere. Il primo episodio ha avuto luogo in una torre medievale ai confini con la Svizzera italiana. Introduce la Commedia Oberon, re delle fate, nella parte di Nadir (o viceversa) riflesso in una pozzanghera: il falso e il vero. Gli episodi centrali hanno visto come palcoscenico i calderoni di una fabbrica di birra, il processo alchemico, l’impermanenza e la trasmutazione alchemica. Un distributore di benzina in funzione, l’energia volatile, gli spiriti, è stato l’episodio più sciamanico interpretato da Fulvia Iyari, cantante nell’episodio precedente, e qui viene presentata la Compagnia, come nella meta-commedia. Il bosco e l’Albero nel parco di Villa Litta vedono la preparazione dell’elisir e il prodursi dell’incantesimo. Qui si manifesta la seduzione e il Diavolo, Puck, è la luce che s’immerge nelle profondità dell’inconscio. Qui assistiamo alla crudele morte di Pyramus, nelle vesti di Bottom con la maschera dell’asino, che si accinge a tornare umano. L’ultimo episodio è avvenuto tra i ruderi di un castello medievale sopra Bellinzona, in una valle a pochi chilometri dalla Val Bregaglia, dove visse gli anni d’infanzia John Florio, il colto siciliano naturalizzato inglese, secondo alcuni ricercatori il vero scrittore delle commedie di cui William Shakespeare fu prestanome. Il castello medievale è analogo alla torre iniziale, qui però il palazzo è crollato. È il crollo delle illusioni, la fine dell’incantesimo e presuppone la rinascita. Infatti anche Thisbe, interpretata da Nathy Etter muore ma rinasce grazie alla guarigione delle frequenze operata da Elena Rudatis. L’ultima ripresa nella notte di Blue Moon, in cui Nathy Etter suona il violino nella vigna, richiama la vendemmia, l’Opera al rosso, l’elisir preannunciato da Adriana Mangiarotti nella performance di Villa Litta. Il Matrimonio Sacro è stato celebrato. Tutto questo non è stato premeditato. È avvenuto in sequenza, senza il minimo sforzo ed è stato dedotto a posteriori. In Qart la figura classica del regista, il demiurgo volitivo, è sostituita dall’osservatore passivo che influenza l’evento nell’atto di guardare attraverso lo strumento di registrazione.  Le onde, desiderose di farsi notare, si trasformano in fotoni e si incarnano del mondo 3D. L’evento si materializza nel circuito della consapevolezza mediatica, quello che la coscienza sociale considera il “reale”, dove gli atomi sperimentano se stessi nel mondo. Qui le onde, incarnate in particelle, vengono registrate ed entrano a far parte della storia. Il lavoro è free style, non c’è metodo, il copione è sostituito dall’intento iniziale che porterà a risultati inattesi, sebbene in parte pre-visti, nella realizzazione finale, le indicazioni da parte dell’operatore/osservatore sono minime o inesistenti. Come la vicenda a cui si ispira, il nostro video è stato concepito alle Calen di Maggio e ultimato il 31 Luglio, a Mezza Estate, nella notte di Blue Moon, nel giorno di Tu B’Av, il Valentine Day Ebraico, senza alcuna premeditazione. Ma anche senza improvvisare. Qart non sperimenta e non improvvisa, presuppone un lavoro di affinamento delle sensibilità. Ogni gesto è un atto compiuto. Non esistono sbagli ma sono benvenuti gli errori, le erranze, le divagazioni che sono parte del “gioco”, the play e possono aprire nuovi orizzonti. Proprio come suggerisci citando ancora Peter Brook: «un teatro nel quale gli elementi più puri e i più impuri possano ciascuno trovare il proprio, legittimo posto». Naturalmente la conoscenza di alti livelli di recitazione non sono affatto in conflitto con il non-metodo Qart anzi, l’incontro può produrre risultati eccellenti, com’è successo in Mein kleines Labyrinth.

I.G.: Durante la realizzazione di “Un sogno” i componenti la compagnia hanno operato avendo come obiettivo finale il riassetto delle personali frequenze energetiche. Come si può percepire questo riassetto a livello fisico e psichico?

Maurizio Turchet: Durante le riprese ognuno ha operato una modificazione delle frequenze sul territorio armonizzandolo. Quando avviene percepisci il cambiamento di campo, un alleggerimento, un flusso di energia, ricevi informazioni. Se ne accorge anche chi non è un operatore, a meno che non sia assolutamente scettico e blocchi le proprie percezioni. Ogni volta si fatica a crederci eppure qualcosa avviene e i risultati si vedono nella realtà concreta e sono duraturi. Nelle guarigioni individuali a volte si possono risolvere alcuni squilibri emozionali difficilmente curabili con le medicine tradizionali. Ma è sempre il soggetto che risolve, il terapeuta è solo un facilitatore. Lo stesso avviene sul territorio, armonizzi gli squilibri energetici secondo le necessità. Siamo qui per aggiustare, il Pianeta Terra è un giardino e i discendenti di Adam, (Adamah, la Terra) sono i suoi giardinieri. Molti lo hanno dimenticato ma tutto è vivo, tutto è vita. Ci hanno insegnato a non comunicare con gli oggetti inorganici, considerati inanimati. Ma anche i sassi hanno un’anima, soltanto la loro struttura atomica è più lenta e ci sembrano immobili. Non c’è nulla da imparare, c’è solo da disimparare quello che ci è stato insegnato. 

I.G.: Un attore cerca spesso invano “a natural way” – sempre per usare le parole di Brook ne “La porta aperta” – per superare la quarta parete, per comunicare. Come con Q-ART è possibile superare il rischio di comunicare solo con se stessi, come cioè è possibile superare il rischio di un ermetismo autoreferenziale?

Maurizio Turchet: Mi considero un seguace di Ermete, il dio Thot, il terapeuta, dunque sono un ermetico, ma sono cresciuto nel pop. Ho vissuto i bagni di folla e le solitudini. Trovo che il sistema dell’arte sia autoreferenziale, per questo non lo frequento. Nelle gallerie e nei musei gli ‘attori’ parlano tra loro di nulla, di strategie, di quotazioni, di decorazione. La gente comune si è stancata di seguirli. L’arte europea è sempre più decorativa, anche quando si finge concettuale o post qualcosa, è pura techne. Qart è poiesis, predilige il processo, propone di guarire per curarsi più che curarsi per guarire. Anni fa ho eliminato il televisore, un altro canale della comunicazione autoreferenziale, un mondo a sé, sebbene sia seguito da miliardi di persone. Forse ancora nel cinema qualcosa si salva, ma al cinema divento claustrofobico. Seguo internet, la rete neurale, You Tube e Facebook, non dico che mi piacciono, spesso sono una pena, ma in questi canali qualcosa scorre. Qart non si pone il problema di comunicare. Fare arte quantica significa creare la propria vita, proprio come si crea un’opera d’arte. Marcel Duchamp diceva: «Se cerchi qualcosa devi crearla». Vuoi una moglie bella, alta, bionda, con gli occhi azzurri? Creala! Ma attenzione, la cosa più pericolosa di un desiderio è che si realizzi. Perciò chiedi anche che sia monogama e che si adatti alle tue finanze. E che non sia troppo gelosa. Dove vuoi abitare? Come ti vuoi vestire? Che lavoro vuoi fare? Cosa ti fa credere di non saper recitare? L’Accademia Qart, al di là della recitazione può aiutare a rispondere a queste domande ritirando i file depotenzianti che impediscono la realizzazione. Anche la Qcina è un tema di cui si occupa l’Accademia. Qart Academy può offrire gli strumenti per creare la propria realtà al meglio, è arte olografica in dimensione quantica. Ma tornando al teatro non credo nella spontaneità, non c’è nulla di “naturale” nel teatro. Gli studiosi del linguaggio russi hanno scoperto insieme ai biologi che la grammatica e la sintassi sono scritte nel nostro DNA, questo vuol dire che la cultura viene dal DNA. È l’evidenza che ciò che chiamiamo “natura” è in realtà cultura. Possiamo cambiare il DNA con le frequenze sonore, la musica lo fa da sempre, possiamo operare con la riprogrammazione neurale. Non è necessario iniettare frammenti di DNA nelle cellule come fanno i meccanici della microbiologia, se ci si affida all’Universo questo può operare i migliori risultati senza rischiare i pasticci ai quali assistiamo nelle colture geneticamente modificate. Nella coltivazione si può intervenire con la biodinamica, con il feng shui quantico, in dimensione theta, sempre in connessione con l’Uni-verso.Un buon fotografo sa che non esiste la “posa spontanea”. Gli atomi si atteggiano per essere visti. Credo che la vita sia artificio, gli abiti, la tecnologia, l’alfabeto stesso è un ready made con cui si creano immagini. Tutto è mediatico. Se si elimina il velo di Maya resta il nulla. Baudrillard avverte: non si entra ed esce da matrix, ci si è e basta. Dopo Andy Warhol tutti sono artisti o pretendono di esserlo. “Io parlo ai muri”, dice Lacan. “Si parla”, “ça parle”, il sé parla e i muri sono intrisi di tracce. Anche noi siamo muri, siamo la barra tra il significato e il significante. Non mi pongo la questione dello share. Se lo facessi smetterei di fare. Non faccio “per gli altri”, faccio per “l’Altro”. Quando con il Theta Theatre abbiamo comunicato la performance presso il distributore di benzina con bacchette magiche e bastoni di potere, volevamo un pubblico, avrebbe fatto parte della scena. Ognuno di noi ha invitato i suoi contatti su web, circa 5/6000. Di tutti questi sono venuti in due, un’amica e un fidanzato. Eppure eravamo super motivati. Invece non siamo stati visti. Eravamo solo noi con qualche avventore divertito: “State girando una pubblicità?”. Ovviamente è perfetto così. L’Universo aveva deciso che per realizzare al meglio la scena non ci doveva essere un pubblico oltre i due amici e gli avventori. Poi d’improvviso puoi trovarti con centinaia di persone che vogliono sfondare per entrare. Non ho mai cercato di piacere a un pubblico. Se qualcuno è in sintonia con la tua frequenza d’onda, ti vede. Altrimenti rimani un fantasma nell’altra scena. Una frequenza d’onda in attesa di incarnarsi nel grande show della vita… Broadway… Facebook… Qualche giorno fa nel pieno sole d’Agosto mi è capitato di passare sul set di un film in piazza Duomo con macchine d’epoca, gru, spot da 60.000 watt, attori tristi e sofferenti, imbarazzati nei cappotti invernali e il regista che urlava al vento “per domani voglio 4 truccatori e questo e quello”. Ho pensato che questo tipo di cinema è una macchina infernale, un inutile spreco di risorse, per quali risultati? Invece ho sempre ammirato il cinema di Peter Greenaway e di David Lynch, che non sono produzioni di basso costo. 

I.G.: Anche “Santo Graal” è stato girato secondo il metodo Q-ART. Puoi parlarci di questo progetto?

Maurizio Turchet: Santo Graal non è nato come un progetto, è successo per fatalità. Sergio Devecchi, uno straordinario fotografo che lavora esclusivamente in analogico, si era offerto di ritrarmi nello scenario di una cascina abbandonata. Ci incontrammo a casa di un amico comune, Ezio. Qui Francesco Tonali, il figlio dodicenne, mi ha mostrato i suoi video realizzati con la GoPro. Vista la sua passione chiesi a Francesco di girare il backstage dello shooting. Cosa saremmo andati a fare in una cascina abbandonata? Ma è ovvio! Dovevamo trovare il tesoro nascosto. Io avrei recitato nella parte del modello in un servizio fotografico, Sergio Devecchi sarebbe stato il direttore della fotografia e Francesco il regista-operatore. Durante il servizio operai una guarigione del luogo e cercando qui e là trovai una lampada da lavoro abbandonata, nel sollevarla da terra rivelò il contenuto: un liquido rossastro. Come promesso avevamo trovato il tesoro, avevamo trovato niente di meno che il Santo Graal! 

I.G.: Sei un consulente di comunicazione per la moda. “Envie de toi” è una storia d’amore “con stile”, cosa puoi raccontarci di questo progetto e della SetUpProduction che hai fondato con Beatrice Paola Ruffini e Fausto Intrieri?

Maurizio Turchet: Envie de toi esula dai principi Qart. C’è un copione e una regia, un cast composto da modelli, make up artist, stylist, scenografi, musicisti, assistenti e i ruoli sono ben definiti. In questo caso i modelli andavano diretti «Turn to the left, turn to the right, talk to me, don’t talk to me…». Il canovaccio di Beatrice Paola Ruffini, ridotto all’osso diventa: lei sta con lui ma incontra l’altro, continua a stare col primo ma alla fine va con l’altro. Durante una cena tra amici, Patrizia Di Malta recita nella parte di se stessa e canta L’indifferente. Seguono cambi di abiti e di locations, la casa, la discoteca, il letto. I titoli di coda. Un mini video complesso girato nell’insostenibile leggerezza della moda che si pretende vacua ma che è estremamente razionale, tesa nei suoi stilemi dai contorni invalicabili, dove impera la parola d’ordine: “è d’obbligo”. La sfida consisteva nel realizzare qualcosa da una storia che è un pretesto, uno stilema tipico dei video di moda: lavorare sul nulla, feelings, seduzioni, come ben sintetizza il famoso titolo “Sotto il vestito niente”. Ecco che torna il tema della scomparsa del soggetto, sebbene per altri scopi. Amo la moda e ho attraversato con divertimento e ironia i suoi labirinti. Mi piacerebbe sfidarla a superare se stessa e l’impasse in cui sembra impantanata da molti anni. La moda è depense, lusso, festa, il glam non può essere giocato con due straccetti nella cucina di casa. Oppure sì… Ma in cucina dev’esserci una super model a leccare i piatti sporchi. Mi piacerebbe che la moda smettesse di pensarsi miserabile e si ritrovasse lussuosa. Non è una questione di soldi, è un’attitudine. La miseria della moda anzi è nata con l’industria dell’abbigliamento imposta dagli stilisti italiani che hanno fatto mercato ma che si sentivano sempre in carenza di soldi. I veri poveri sono quelli che hanno sempre fame di denaro, più ne hanno più ne pretendono. Ricordo i giorni di Donna Jordan e di Leslie Winer, che si faceva fotografare con le mani nella spazzatura. Oggi le ragazze di agenzia sono irrigidite da un sistema che le vuole docili e omologate. Un sistema che accetta i tatuaggi, le marchiature di serie, ma dove l’espressione originale e le intensità sono viste come una minaccia al disordine costituito. Set Up Production Milan Berlin è un progetto aperto che presenteremo ufficialmente a Berlino e a Milano in Ottobre, è una storia che si sta scrivendo e che mi appassiona. Beatrice Paola Ruffini, di base a Berlino, è producer, stilista e costumista con esperienza nei broadcast nazionali e nel cinema, Fausto Intrieri è art director, sound designer, music composer e producer, ed io videomaker, fotografo e terapeuta con un passato di art director, personalmente mi considero un eterno dilettante in tutto ciò che faccio. Direi un dilettante professionista. La nostra collaborazione è nata con A secret affair, un video di beachwear, che inizia come un video “fashion”, come denota titolo, e finisce come un meta-video d’arte. Con Mein kleines Labyrinth volevamo realizzare un video “kunst”, seguendo i canoni dell’arte, che però è sconfinato nella modalità visionarie e della catarsi Qart. Envie de toi è giocato nel registro “fashion”. Abbiamo anche realizzato i videoclip di Patrizia Di Malta e di Liam, cantante italo canadese di base a Londra, di prossima pubblicazione. Stiamo realizzando video in ambito di moda, musica, industria, documentari, ma ci proponiamo a chiunque sia interessato al nostro punto di vista. Grazie per avermi visto e per avermi pertanto permesso di esistere.

Written by Irene Gianeselli

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