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Intervista di Irene Gianeselli a Silvia Nebbia, attrice dello spettacolo “I favolosi inediti del cabaret anni 50-60″

Creato il 02 dicembre 2014 da Alessiamocci

«Tutte le arti contribuiscono all’arte più grande di tutte: quella di vivere» Bertolt Brecht

 

Silvia Nebbia dopo il Liceo Scientifico studia e si diploma come Attrice presso la Civica Scuola d’Arte Drammatica “Piccolo Teatro” di Milano. Presto debutta al Gerolamo con Carlo Porta, nella Compagnia Milanese di Carlo Colombo in “Milanin Milanun” e ne “Le Mille e Una Notte” e  poi in Cabaret con brani comico – surreali.

Con Dario Fo è protagonista ne “L’opera dello Sghignazzo”. In “Addio Cabaret” di Enrico Vaime ripropone i ruoli femminili che hanno fatto la storia nel Cabaret impegnato degli Anni ’60.

Seguono “Nunsense” di Dan Goggin per la Regia di Enrico Lamanna, “Pentesilea” di Kleist, tragedia romantica in versione sperimentale diretta da Mario Ricci al Teatro San Ferdinando di Napoli. Sempre impegnata a Teatro anche come autrice (“Chanson pour pastachutte”), debutta in televisione nel 1984 nella conduzione brillante di “Come quando fuori piove”, varietà della domenica con Enzo Decaro in onda su RaiDue, dove interpreta personaggi comici nel varietà “Chi tiriamo in ballo”. Nel 1987 nasce il trio comico “La Trappola” – che si scioglierà nel 1991 – per quattro anni protagonista con diversi varietà in Rai.

Dal 1977 ad oggi è autrice e conduttrice su Radio Rai, ricordiamo: “Master”, “Via Asiago Tenda”, “Strada Facendo”, “Dada Uffa” proprio sul cabaret, “Il giovane Frank” – minisceneggiato su Frank Sinatra 13 puntate – e “Isoradio, con testi di storia della cucina”, altro suo amore. Ha curato la realizzazione di dieci Commedie video per la Collana Teatrale “Poltronissima” della De Agostini e la ristampa anastatica della II edizione de “Il cuoco maceratese” di Antonio Nebbia (suo trisavolo)  assieme con al disco “Di cotte e di crude” che contiene le canzoni più famose di Franco Nebbia.

È presidente dell’associazione culturale “Accademia della Nebbia” e scrive per diversi giornali come pubblicista free lance. Premiata in varie occasioni, è una interprete molto vicina alle donne e ai temi dei diritti civili ed è oggi nella sua pienezza di interprete raffinata e graffiante un punto di riferimento nel panorama del teatro “impegnato”.

Sarà in scena il 13 dicembre al Teatro Arciliuto di Roma con “I favolosi inediti del cabaret anni 50-60“, spettacolo dedicato alla memoria del padre Franco Nebbia a trent’anni dalla sua scomparsa: un evento unico, una serata piena di musica, sketches esilaranti e racconti alla scoperta delle origini del Cabaret italiano. Con Salvatore Gioncardi e la partecipazione speciale di Angela Calefato, al pianoforte il M° Primiano di Biase.

 

I.G.: Il 13 dicembre va in scena al Teatro Arciliuto di Roma “I favolosi inediti del cabaret anni 50-60″, spettacolo dedicato alla memoria di Franco Nebbia. Può parlarci di cosa abbia rappresentato e quanto abbia contribuito alla sua formazione la figura di suo padre?

Silvia Nebbia: Da ragazzina, nel quartiere cinese di Milano dove abitavamo, mi chiamavano: “la figlia del Nebbia club”. A volte addirittura mi chiamavano Franca. La gente “sono” strani, si sa. Vivevamo nell’appartamento al piano di sopra del nostro teatro e in camera mia c’era una finestrina che dava sul palcoscenico. Quante volte non sono riuscita ad andare a scuola perché mi attardavo a guardare gli spettacoli da lassù…!! Spesso mentre recitava Franco ci vedeva affacciati a sbirciare e davanti a un pubblico sbigottito intimava: “Silvia e Antonello, andate a dormire”! Da quella finestra ho visto mondi fantastici ed io che ero una bimba sensibile e studiavo danza classica, fantasticavo all’infinito… e non ho mai smesso. Il teatrino era un centro di gravità in cui giravano intelligenze notevoli, artisti speciali… da Carmelo Bene a Mariangela Melato, a Paola Borboni, Aznavour, Umberto Eco… per dire, livelli altissimi, personalità inimitabili e tutto questo non poteva certo passare nel mio animo tenerello senza lasciare traccia. Mio padre era una persona garbata e generosa, intellettualmente e moralmente integra: questa è la sua miglior lezione. Ma per accostarmi al suo repertorio – salvo rare incursioni – ho dovuto far passare parecchi anni per non sentirmi “figlia di”. Oggi ho fatto la mia strada, orgogliosamente autonoma, la Scuola del Piccolo Teatro, tanti registi, le conduzioni in radio, l’esclusiva col trio La Trappola in tv, i miei recital… e onorare la sua memoria adesso è un dovere, oltre che una grande gioia. Ma devo dire che ciò che fece lui col suo gruppo in quell’epoca è rimasto qualcosa di inimitabile, di unico e a volte questo mi spiazza un po’, mi fa sentire… un tantino… marziana. Forse il bello è proprio questo.  E poi mio padre mi ha insegnato che l’Arte è una professione come un’altra che si può svolgere senza troppe sregolatezze, da bravi cittadini e amando la proprio famiglia e accettando gli alti e i bassi con serenità. È stato un buon padre ma il significato della sua presenza nella mia vita l’ho compreso nel tempo e gli sono grata della ricchezza spirituale che mi ha lasciato.

 

I.G.: Franca Valeri, Dario Fo, Laura Betti questi sono alcuni dei nomi degli artisti che hanno contribuito in un modo o nell’altro a quello che viene definito “teatro da camera” ed il suo rapporto con loro è stato evidentemente significativo. Può parlarcene più diffusamente?

Silvia Nebbia: Tra i citati ho conosciuto bene e lavorato in scena solo con Dario Fo ho fatto con lui una Polly Peatchum. Laura Betti era un mito… una delle tante donne eccessive che mi vedevo intorno, esempi di coraggio, sfrontatezza e di arte sublime. Per lei ho scritto uno spettacolo a me molto caro: “Laura e le altre, le Muse di Pasolini”. La Valeri l’ho ammirata da sempre. Forse è lei che ha inventato “ogni cosa”, anche l’universo. Probabilmente Dio è donna ed ha un pechinese che si chiama Roro IV. Di certo la comicità femminile e non solo, le sarà debitrice per sempre. Ha incoraggiato tutte le donne ad uscire dai soliti cliché e a usare la testa prima di tutto. L’ho conosciuta solo di recente e le sono grata per la splendida intervista che mi ha rilasciato su Franco che, tra l’altro, collaborò musicalmente al Teatro dei Gobbi, accompagnando dal vivo le scene. Riguardo al teatro da camera… se si intende proprio  il Kammerspiel tedesco, Dario Fo non credo si possa inserire nel genere non è mai stato intimista, non è Strindberg. È l’autore vivente (italiano) più rappresentato nel mondo e la motivazione del suo Nobel parla di “rottura della quarta parete”, non di ricerche introspettive, casomai di rivisitazione della Commedia dell’Arte.  Se invece la usiamo come accezione di “teatro per pochi raffinati, in ambienti piccoli” allora il Teatro dei Gobbi e Laura Betti ci rientrano senz’altro e un po’ anche il Nebbia Club. La loro lezione mi è penetrata quasi senza rendermene conto: me li sono ritrovati dentro, nel profondo quando ho cominciato a scrivere teatro anche io. Il teatro da camera -in forma spicciola- oggi sta tornando perché i costi produttivi sono troppo elevati e spero che sia l’apertura di una porta verso il ritorno alla coscienza di sé. L’Italia si è perduta e solo tornando umani e ridando valore alle cose, potremo salvarla.

 

I.G.: È impegnata non solo come interprete, ma anche come autrice di Teatro. Può parlarci di questa relazione e raccontarci il suo modo di pensare il Teatro?

Silvia Nebbia: In questo spettacolo non ho messo miei personaggi mi limito a raccordare le storie che racconto, certo in modo personale con un linguaggio contaminato surreale e grottesco, ma anche lunare, emotivo, calzato sulle mie corde di attrice – anche – buffa. Mio padre era un tutt’uno col suo pianoforte, i suoi tempi comici erano musicali, io non suono strumenti ma sono un tutt’uno tra attrice e autrice, tra il corpo e la mente e arrivarci non è stata una strada breve. Potrei dire che c’è in me della commedia dell’arte… ma sono sfumature, c’è l’esistenzialismo, un tocco di futurismo forse, ma soprattutto c’è la carica umana, la rabbia, la passione, il gioco, la malinconia, l’innocenza. Una capriola stilistica ed emotiva “in progress”. Forse sono un’autrice in fuga, non so. A volte rendo meglio nel drammatico, perché amo le emozioni forti, le catarsi che sono un po’ gli “orgasmi” della narrazione drammatica… Il teatro è infinito, anche se agonizza da decenni, resterà sempre lo specchio più tangibile, più magnetico dell’umana vicenda. Io penso il teatro come all’assurdo della quotidianità, la vita è tragicomica, basta accorgersene e raccontarlo.

 

I.G.: La differenza di genere: cosa significa per lei essere donna di Teatro e qual è il modo in cui realizza il femminile nel Teatro?

Silvia Nebbia: Donna di teatro… Devi dare il massimo, tutta te stessa alla creatività, alla ricerca e devi farlo da sola: resta ben poco da poter mettere nel conto degli affetti, a volte. La vita di coppia è complessa, richiede maturità, abnegazione e spesso gli egoismi distruggono tutto, compresa la tua voglia di esprimerti. Le passioni, l’ho capito tardi, sono solo un inganno, anche se possono arricchire ma sono conti che si pagano salati. E poi, questa sindrome della “marziana”… sei una cittadina ma… a Natale lavori o comunque odi quei rituali baracconi, lo shopping, le lucine… viaggi troppo, magari non badi molto alla forma, ci sei e non ci sei, conosci altri mondi e ne parli, credono tu te la dorma per pigrizia e non perché lavori di notte come un panettiere, un’infermiera, che so. Tutto questo ti fa guardare con sospetto dalle persone “regolari”, salvo che tu abbia un successo strepitoso e allora diventi un totem, una proiezione delle frustrazioni altrui, qualcosa da imitare e adorare… mentre invece combatti col quotidiano come tutti. Fare teatro era una consacrazione all’Ordine dell’Arte… oggi non lo so più. Di certo come donna, devi fare i conti col “phisique du role”, perché ancor più che nella vita il “corpo” è “lo” strumento e non puoi essere Giulietta a sessantacinque anni. La soluzione è proprio diventare autrici di sé stesse per uscire dai cliché e raccontare tutte le facce della femminilità, non solo quella biecamente riproduttiva ed esteriore, ma è una lotta intensa, sempre daccapo. Emozionare chi ascolta riesce a trascendere la fisicità? Questa è la sfida. Basta prendere una pagina di cronaca ed ecco che “la donna” non è più la modella della pubblicità, ma una persona per cui conta ciò che sente e fa. Da ragazzina mi facevano fare le “bonazze”, col mio fisico… e non trovavo la chiave per unire la comicità ad una sessualità evidente. Una “bella donna” non fa ridere, casomai il contrario ma io non volevo cedere anche se faticavo a trovare una mia “maschera”. Infine ho preso spunto dai giornali, dalla vita e poi ho esagerato. Ho in repertorio una camorrista femminista che vuole diventare capo camorra ma non può perché deve uccidere molte persone e non è una “cosa da donne”… ho una zingara che salva un’altra donna da una violenza e accusa i “normali” di non avere cuore, ne ha paura. Non cerco la grazia delle forme ma quella interna, quella umana, insomma.

 

I.G.: Come crede che televisione, cinema, radio, teatro potrebbero contribuire a formare una coscienza femminile nuova rispetto al modello della mercificazione e dell’uso della donna nello spettacolo?

Silvia Nebbia: L’Italia è un po’ un fanalino di coda nell’approccio  all’immagine femminile. Troppi stereotipi e pochissima realtà. In realtà è molto semplice: si devono scrivere copioni più attenti e meno ovvi, si deve vigilare sui contenuti, ma non in senso censorio. Stimolare la crescita intellettuale del pubblico, specie giovane. Il mercato (maremma mercificata), non rischia mai nulla di nuovo per essere certo di incassare il più possibile. E la bellezza del corpo femminile, l’allusione alla sessualità… vende bene si sa. Ma siamo bestioline? I casting chiedono solo attrici fra i 15 e i 30 anni: vi pare una rappresentazione fedele della vita ? Beati coloro che osano altro, che leggono i giornali. Che hanno delle idee. E poi basta con le amanti e i lacchè e avanti i talenti. Ci sono state stagioni fervide e possono tornare se lo si vuole. Sono per rompere l’omertà maschile sul potere a colpi di intelligenza e di coraggio. Finalmente anche gli uomini cominciano a capire quanto il mondo migliori togliendo lo scettro ai gorilla codardi e dandolo ai ludens-sapiens. Sono curiosa di vedere il nuovo sceneggiato: “Cose da uomini” Pare sia stato concepito per chiarire un po’ di equivoci sui ruoli di genere. Speriamo! Quanto alla tv… lo spettacolo “I favolosi inediti del cabaret anni 50-60” parla molto della Milano che mi ha cresciuto. Era la Milano di allora: la mia Milano, quella libera, graffiante e innovativa… che non c’è più e che vale la pena di riesumare anche perché non è giusto che tutto ciò che è pre-berlusconiano –in senso televisivo- ciò che non è “visibile” in immagine, sul tubo o via mms è come se non fosse mai esistito. La tv becera è entrata nel dna di un popolo che ha rischiato tra il dopoguerra e la “Milano da bere” di evolversi culturalmente. Fortunatamente questo pericolo è stato scongiurato da molti anni di volgarità. Pasolini lo sapeva benissimo e ce lo disse con molto anticipo. Per questo non mi rivolgo tanto ai nostalgici quanto alle nuove generazioni: dovessero prendere spunto dal passato per dare fuoco all’orrore dilagante, hai visto mai. Una risata vi seppellirà… si diceva un tempo. Purché non sia becera, bulla o razzista. È mancato da poco un regista importante, un innovatore che inventò il radiodramma e lavorò con Ronconi come nel Cabaret d’impegno. Qualcuno sa chi fosse Giorgio Bandini? Spero di sì, ma chi inventa spesso si becca in risposta la damnatio memoriae dopo molti anni di solitudine e difficoltà economiche. L’Italia merita di più, coraggio!

 

I.G.: Crede che l’Arte possa ancora costituire una mediazione tra l’essere donna e la funzione sociale o “politica” della donna?

Silvia Nebbia: Di che arte parliamo? Di quella museale? Di cinema, danza, letteratura, musica? Certo che sì. Deve! Ogni “segno” ogni “significante” che sia parola o immagine colpisce il bersaglio delle coscienze. Se il cinema propone donne bellissime e sciocchine… nessuno se ne avvantaggia, certo non la coscienza collettiva. Attrici come la Magnani… hanno spazio oggi? È un problema molto italiano questo, dal neorealismo in poi. Ma vanno anche fatte leggi ad hoc. Una scuola viva e popolare che insegni l’arte, oltre al resto, in Italia sarebbe doverosa. Lo sviluppo della personalità collettiva è stato non casualmente trasferito in gestione agli spot pubblicitari, alle mode: è il commercio a decidere che cittadini dobbiamo essere e dobbiamo essere cittadini che comprano ciò che credono fondante come status symbol, dobbiamo credere che il mondo descritto negli spot sia quello ideale. E’ evidente la stortura enorme che questo causa specie nella mercificazione e svilimento del femminile. Meryl Streep si è mai svilita? Ha mostrato solo il suo corpo? E Glenn Close? Mi viene in mente una pubblicità di moda in cui si tendeva a istigare allo stupro: queste cose non devono passare inosservate, bisogna denunciarle, rifiutarle. C’è in giro uno spot della BCC su Sky, in cui faccio la mamma di Lo Cicero, il rugbista, in cucina: che gioia essere truccata più anziana e poter recitare e basta, senza seduzione, senza doversi fare lifting, con la propria vera faccia. No? Le ragazzine… oggi… devono lottare per non essere schiacciate dai cliché e l’unico sostegno in questa lotta è la cultura.

 

I.G.: Radio, televisione, cinema e teatro: quali sono le differenze tra questi diversi luoghi di espressione e in quale si trova più a suo agio?

Silvia Nebbia: La radio è un grande amore, mi ha davvero formata. È un mezzo caldo, diretto, intimo. Sai di parlare all’orecchio dei singoli, come un amico. Mi ha insegnato tempi, ritmi, stili e il significato di “servizio pubblico”… la tv è spietata, ti dà immediata visibilità, ma ha leggi produttive molto dure e spesso i contenuti sono fagocitati dall’immagine in sé o dal marketing. Parlo soprattutto di varietà o di contenitori di intrattenimento, in diretta, non di fiction. Il cinema… ne ho fatto poco ma con registi come la Wertmuller e Marco Ferreri …porta una ricerca recitativa più minimalista, più intima del teatro, perché il tuo viso, i tuoi occhi sono grandi 8 metri e mezzo sullo schermo e tutto deve essere interiore, altrimenti si deborda.  Il teatro… è le sette meraviglie. Ti metti in gioco corpo e anima e devi alzare i volumi, catturare l’attenzione, anche attraverso quella strana magia che è il “sentire”… dal palco si percepisce l’emotività di chi ti ascolta e questo scambio di energie è la “più fantastica” delle esperienze artistiche, per me.

 

I.G.: Se oggi dovesse cercare un riferimento per crescere sia dal punto di vista artistico che personale, come si orienterebbe, ritroverebbe nel panorama almeno un modello cui ispirarsi?

Silvia Nebbia: Nonostante le chiusure in massa dei teatri e dei cinema…? Artisti straordinari ce ne sono eccome, oggi guardo sbocciare il talento straordinario di  un Elio Germano per esempio. C’è Emma Dante… ma i miei ispiratori del passato non sono mai stati “modelli da imitare”. Tutto si assorbe inconsciamente e poi sboccia in te sotto mille forme. Per vedere qualcosa di nuovo, di provocatorio… occorre anche viaggiare e poi bisogna andare nei teatrini off, nei locali meno noti e annusare l’aria che tira. Non le mode ma le tendenze espressive. Chi innova senza tanti mezzi economici è sempre geniale. Cito uno spettacolo fragoroso che pochi hanno visto (io al Valle occupato): “La Merda”, di Ceresoli che ha vinto premi ovunque ma in Italia… è quasi sconosciuto, con una Silvia Gallerano nuda e strepitosa. Qui il nudo è assolutamente funzionale al testo e non è mai svilente verso le donne, anzi, provoca e scuote.  E poi: “Dignità Autonome di Prostituzione” di Melchionna e Cianchini. Posso dire che Angela Calefato è una collega bravissima anche come autrice e che ci stimoliamo a “vicenZa”? L’ho detto.

 

 Written by Irene Gianeselli

 


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