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Intervista di Irene Gianeselli al musicista Iacopo Fedi per il suo esordio discografico “Over the Nation”

Creato il 17 novembre 2015 da Alessiamocci

Iacopo Fedi è un musicista e compositore di Castel di Lama (AP). Cresce ascoltando i dischi di Eric Clapton, Bob Dylan, Pearl Jam, U2, Bruce Springsteen, Neil Young e Tom Waits.

Dopo le esperienze adolescenziali come chitarrista blues si trasferisce a Roma dove suona con i Moonbeans e registra due dischi a proprio nome (Iacopo Fedi & Studio Tan): “Pomozzi e paradossi” e “Una notte alle urne”. Tornato nel piceno inizia a collaborare con il musicista Loris Salvucci e con la cantante Giada Fabiani ed insieme a loro autoproduce diversi Ep. Dal 2015 ha iniziato un nuovo percorso musicale siglando un contratto con la label veronese Cabezon Records.

In questa intervista Iacopo Fedi racconta del suo percorso artistico e del suo esordio discografico “Over the Nation” che ha presentato il 3 a Sannicandro di Bari (BA), il 4 a Lecce, il 6 a Brindisi, il 7 novembre ad Apricena (FG).

I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. Come hai scoperto la passione per la musica?

Iacopo Fedi: Ho cominciato a suonare la chitarra elettrica intorno ai quattordici anni grazie ad Eric Clapton. Comprai un doppio live, mi pare si chiamasse “Eric Clapton Blues”, ne rimasi devastato e disossato. Devo tutto a Clapton, sebbene non sia mai stato un grande fan delle sue composizioni, fu solo grazie a lui che cominciai ad interessarmi al blues, a conoscerne le radici e la tradizione. Mi divertivo a trovare e collezionare dischi di bluesmen degli Anni ‘30 e ad inserirne alcune tracce nelle compilation dei miei amici che ascoltavano musica decisamente più “giovanile”. Ho suonato come chitarrista in diverse formazioni giovanili e solo intorno ai 18-19 anni ho cominciato a scrivere le prime cose. Determinante fu l’ascolto di Tom Waits: mi dette “la botta” e la voglia di cimentarmi nella scrittura. Registrai diversi album autoprodotti e acerbissimi in cui cercavo disperatamente sia di emulare la raucedine di Waits in versione nonsense italiana, sia di autoproclamarmi ambasciatore del blues ad Ascoli Piceno, ovviamente invano. Ho sempre continuato a scrivere canzoni con diverse formazioni e diversi gruppi, fino al 2015 in cui sono tornato a scrivere da solo, senza band, riuscendo a trovare un’etichetta, la Cabezon Records di Verona e, alla fine, eccomi qua.

I.G.: Com’è nato il progetto “The family bones” che definisci «proiezione di un mondo musicale dai confini indefiniti dove le ossa fanno da cassa di risonanza al mio ego»? Perché hai scelto per la tua musica questa àncora, le ossa, dalla matericità di fatto fittizia?

Iacopo Fedi: I The Family Bones nascono più o meno nel 2012, periodo in cui registrai il mio terzo disco autoprodotto. Doveva essere una band di supporto al mio progetto “Iacopo Fedi”, anche se all’inizio l’aspirazione era più grande, ovvero una sorta di collaborazione alla pari, una vera e propria band unita negli arrangiamenti e nella scrittura. Alla fine entrambi gli intenti crollarono e i “The Family Bones” non fu altro che un susseguirsi di persone diverse, almeno una ventina di musicisti, che apparivano e scomparivano nell’arco non più duraturo di un mese. L’unica persona con cui sono riuscito a stringere un forte legame compositivo e che ha cercato di aiutarmi nella costruzione di questa band di supporto è stata Loris Salvucci, bassista, polistrumentista di Offida, provincia di Ascoli Piceno. Con lui tutto è cambiato, ci siamo accorti di avere un grande feeling compositivo e abbiamo subito cominciato a scrivere per conto nostro registrando un gran bell’ep insieme, “The 4th Winter Session” e altre numerose canzoni che dovevano finire in un album vero e proprio che poi non fu mai realizzato. I nostri rapporti si sono allentati con il tempo per via d’incomprensioni ma spero vivamente di poter collaborare ancora con lui nei miei prossimi progetti, ho una profonda stima musicale verso di lui e penso inoltre sia il miglior bassista delle nostre zone. Ho sempre avuto difficoltà a trovare persone con cui suonare, Ascoli è una sorta di “città dello strumento”, vittima della tradizione del tecnicismo degli Anni ‘80. Ascoli è circondata da miti, grandi nomi che hanno partecipato allo sviluppo futuristico della tecnica dello strumento, tuttavia non esiste un bassista o un chitarrista che è riuscito a scrivere una grande canzone “non tecnica” in grado di competere con i big della musica, come, ovviamente, non ci sono riuscito io! Spero qualcosa cambierà in futuro. Comunque, visto la storia di questo gruppo vuoto e instabile, precario e fittizio, mai esistito realmente, ho deciso ironicamente di affiancarlo al mio nome nel primo disco per ribadire ancora più profondamente la sua non esistenza ontologica. Poi, ovviamente, sono un fan della parola inglese bones, che uso e inserisco in tutte le mie canzoni, e del disco “We Are A Happy Family” dei Ramones. Ne ho approfittato per creare un mix tra i due titoli. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda… dunque, per me le ossa rappresentano una sorta di minimalismo estetico, grezzo, traballante e immaturo nel suo svolgimento ma che, nel suo essere sintesi della sintesi, svela, allo stesso tempo, una sincera esposizione di contenuti validi. Il contenuto melodico senza fronzoli, la canzone con una melodia efficace e inattaccabile è l’ossatura di cui parlo. Lungo questa prospettiva le ossa legano due mondi apparentemente lontani ma che necessitano entrambi della dimensione melodica come fondamento assoluto di tutto. Il punk e il blues di “Bone Machine” di Waits: questo è il primo vero disco di Waits completamente slegato da una parte ritmica definita e da un arrangiamento chiaro. Questo disco è solo atmosfera indefinita intorno a melodie talmente forti da far risultare il tutto funzionante sebbene, allo stesso tempo, indigesto. Il punk, al quale mi sto interessando molto ultimamente, funziona in maniera simile, è talmente scarnificato, essenziale, sporco e grezzo che a volte spaventa e risulta a tratti estremo. Eppure è uno degli ultimi più grandi fenomeni musicali della storia, cos’è che lo rende vincente? La devozione alla melodia e al contenuto inattaccabile. Pochi fronzoli, ma il punk è per me tra i generi più melodici e diretti che esistano. Un esempio lampante sono le melodie maggiori delle liriche, molto orecchiabili e semplici. Vorrei per questo riuscire a trovare, un giorno, una musica nuova che s’incastri bene nel processo di sperimentazione calcificante… prima l’osso e poi tutto attorno il cimitero in cui si trova.

I.G.: Perché hai scelto di cantare in inglese?

Iacopo Fedi: Questa è una domanda molto delicata. La risposta è complessa. Sono stato più volte criticato per questa scelta e me ne assumo tutte le conseguenze. So benissimo il destino che mi attende, ne sono consapevole, so che sono rarissimi gli esempi di artisti italiani che hanno scritto canzoni in lingua inglese e hanno mantenuto una certa credibilità all’estero. Mi dispiace ma sono pronto a questo, penso che per la situazione musicale attuale in cui è sempre più difficile (impossibile) avere una reale visibilità e un ritorno economico capace di garantire i bisogni primari dell’essere umano, la cosa fondamentale è essere soddisfatti della musica che si fa, essere contenti del proprio lavoro e poterlo sentire dalla propria automobile con gli occhi pieni di orgoglio. Ho sempre ascoltato musica americana, addirittura penso di scrivere e cantare in americano e non in inglese! L’inglese con la sua pronuncia mi ha sempre un po’ irritato, mi piace lo slang americano di Springsteen, la lingua americana del New Jersey, anche l’americano canadese di Neil Young, speciale. Ho un paio di dischi di artisti italiani, Paolo Conte, Bennato, De Gregori, poco altro, il resto mi mette ansia. Cerco quindi di suonare e scrivere per esserne soddisfatto e felice prima io, poi se viene qualcosa ben venga. Ho scritto un paio di dischi in italiano tanto tempo fa e non riesco ad ascoltarli. Questa è la cruda realtà. Inoltre ci sono un paio di altre motivazioni, in primis il fatto che sebbene Grillo non lo volesse, l’Italia si trova a far parte di una comunità più grande, quella europea, non è una realtà speciale e chiusa, isolata e autosufficiente ma una parte di un tutto che dovrebbe essere unito. Fuori dall’Italia tutti conoscono alla perfezione l’inglese e questa forma di rivendicazione della propria lingua come unico valido mezzo d’espressione è un po’ grottesca e fuori dal tempo in cui viviamo. Sono convinto sia necessario rivedere il rapporto che abbiamo con la lingua. La lingua non è un mero mezzo di comunicazione ma, come afferma Humboldt, è una visione del mondo. Le lingue storiche custodiscono visioni del mondo differenti, per questo è importante custodire ogni forma di espressione linguistica come nuova espressione di senso, imprescindibile, che non può permettersi di scomparire. I dialetti sono fondamentali, l’italiano è fondamentale, ma non nella misura in cui sono mezzi di comunicazione universali per tutti i parlanti della nazione, piuttosto in quanto visioni di mondi che ci troviamo ad abitare. La lingua ci ospita e noi impariamo a pensare solo a partire da una lingua storica. Il processo di chiusura verso l’italiano o i dialetti è sbagliato quanto il processo di chiusura verso altre forme linguistiche. Da parlante è bene e giusto provare a sentirsi straniero e senza terra mediante la sperimentazione di una lingua che non abbiamo abitato fin da bambini, come ad esempio l’inglese. Io, per questo, non provo mai a tradurre in inglese concetti italiani ma provo a connettere e modulare pensieri direttamente mediante la mia mediocre conoscenza dell’inglese. Rischio grosso, a volte verranno fuori cose carine e credibili, magari a volte no, ma sono convinto sia un esperimento interessante. A sostenere l’idea che la lingua non sia un mero veicolo di comunicazione e di concetti è anche Waits. In un’intervista raccontava come lui scrivesse seduto al piano esclamando parole senza senso e indecifrabili. La moglie, seduta a fianco, cercava di dare una forma di simbolo linguistico alle emissioni sonore del marito. Incredibile, mi fece riflettere. La musica è oltre le storie e i concetti, le parole a volte si scrivono da sole, senza voler dire per forza nulla di particolarmente interessante e concettuale. Ho ascoltato per anni Dylan senza tradurre e sapere cosa dicesse, mi piaceva ugualmente la sua sonorità.

I.G.: Quale canzone ritieni più rappresentativa del tuo percorso e quale dell’album?

Iacopo Fedi: Ritengo fondamentale e rappresentativa una canzone che ho scritto da poco e che spero finirà nel prossimo disco per Cabezon Records nel 2016. Si chiama “No Reason To Die” ed è un ottimo incontro tra punk, reggae e blues, ma anche psichedelica, è ben ritmata ma ha dei momenti più intimi e romantici nel ritornello, penso sia la canzone che mi rappresenti alla perfezione e rappresenti bene quello che vorrei provare a fare nel prossimo lavoro. Del disco “Over the Nation” sono orgoglioso del primo brano, “My Religious War”, che è un chiaro biglietto da visita per il mio modo di scrivere e decostruire, ma anche di “The Tent Of Meeting”, forse il tentativo di sperimentazione più riuscito di tutto il disco.

I.G.: Qual è il filo rosso che lega Caino a Napoleone? Oltre ad affrontare il tema scottante dell’egoismo umano, affronti anche il tema della necessità del fare le proprie scelte. Non è forse oltre il problema: non è forse che questo egoismo umano effettivamente considera il ventaglio di scelte e le relative conseguenze, ma poi finisce per decidere sempre e comunque per la sopraffazione del presunto debole di turno?

Iacopo Fedi: Il filo rosso del disco in realtà è la riabilitazione del nemico, del carnefice nella storia dell’uomo. Un benefattore che in tempi di guerra indossa la pelle di Isacco invece di quella di Giacobbe, questo è il senso di tutto. Siamo abituati a cacciare dalla storia e tacciare come immondo il male, mentre quest’ultimo dev’essere compreso e giudicato come qualcosa di storico, come parte del suo sviluppo stesso. Caino secondo la narrazione della Genesi è il primo uomo nato nella storia umana. Questo può farci addirittura pensare a una sorta di discendenza legata al male fin da principio. Questo mi ha attratto ed è diventato il filo rosso del disco, la riabilitazione del nemico, dell’altro senza nome nella storia, dell’immondo che, in fondo, è più legato al mondo di tutta la sua altra parte buona. Il male poi ha un suo risvolto organizzativo in battaglia molto razionale, Napoleone era un genio in guerra, veri geni vengono dal lato oscuro del mondo e spesso comportano anche coliti e danni collaterali. Io soffro di colite come Napoleone, mi sono spaventato molto! Sulla scelta penso sia importante farne una. La scelta di fare del male è una scelta. Ho sempre difficoltà a prendere decisioni, è sbagliato. Ogni scelta ha una sua dignità se si è in grado di sopportarne il peso delle conseguenze.

I.G.:Si potrebbe dire che questo è l’album di esordio di un eroe tragico moderno?

Iacopo Fedi: Non saprei, più che post-moderno è l’esordio dell’eroe del grottesco. Tutto è grottesco, i personaggi, il modo in cui sono inseriti nei contesti storici, il loro modo di pensare, tutto.

I.G.: Quali sono i tuoi punti di riferimento nel panorama musicale e perché?

Iacopo Fedi: Ce ne sono molti, ho molti miti, il problema è come liberarsene forse! Sono un fan accanito dei Pearl Jam, li ho visti sette volte dal vivo, sono una sorta di fissato di Vedder, un mio idolo senza pari. Poi, ovviamente Tom Waits, di cui ho tessuto già ampiamente le lodi e il mio debito nei suoi confronti. Sono una sorta di esegeta di Springsteen, per me lui è tutto, mi dà forza, mi dà l’energia per vivere, lui è il mio dottore preferito, dopo Verdone. Sono un fissato di Joe Strummer, è il vero fulcro d’ispirazione delle mie nuove canzoni che sto scrivendo per il prossimo disco, spero di farvelo sentire il prima possibile e mi direte se c’è Strummer di mezzo. Poi c’è Neil Young, che è una sorta di papà, il mio chitarrista preferito, un pazzo scatenato e autistico. Ce ne sono Molti, gli U2 a parte, forse la voce del 900 è Bono, forse. Dylan mi pare scontatissimo, quindi passiamo oltre. Van Morrison? Molto bene. Micah P. Hinson? Molto bene. Jack White? Ancora meglio. I Low? Specialissimi. Sarebbe lunga, comunque, dove non c’è l’elettronica mi piace tutto.

I.G.: Qual è stato il riscontro con il pubblico in queste tappe pugliesi?

Iacopo Fedi: Ottimo, davvero ottimo, ci siamo divertiti e stancati a più non posso. Mi servirà un mese di pausa forse. La Puglia è nostra, di me e del Parodino (il batterista Simone Parodo). Abbiamo cercato di proporre una scaletta aggressiva e ritmata ed è stata ben accolta. La gente (una ventina di persone, a volte di più, a volte meno) si muoveva e questo era ciò che più mi premeva, per adesso va benissimo. Non posso che essere soddisfatto. Abbiamo presentato cinque delle canzoni del disco “Over The Nation” più nove canzoni del tutto inedite che spero andranno a far parte del prossimo disco in lavorazione. Molte delle canzoni le ho scritte qualche settimana prima di partire per la Puglia con l’obiettivo di avere una maggior quantità di canzoni ritmate, in contrasto con quelle dell’album che sono più intime e rilassate. Abbiamo inoltre inserito delle cover di Springsteen, quali “Youngstown” e “Point Blank”, e una cover rivisitata e psichedelica di “Gimme Shelter” dei Rolling Stones. Abbiamo infine proposto una cover dei Clash in un paio di serate, “Armagideon Time”. Grazie mille per quest’intervista, è stato un vero piacere.

Written by Irene Gianeselli

Info

Sito Cabezon Records


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