Federico Greco è regista, sceneggiatore, editor e doppiatore. Ha scritto e diretto format televisivi per la Rai e per Sky, documentari, cortometraggi e film.
Dal 1997 al 1999 ha prodotto, scritto e diretto “Stanley and Us” il più lungo documentario mai girato su Stanley Kubrick: distribuito in tutto il mondo ha ricevuto largo consenso di critica e pubblico.
Nel 2002 ha diretto il documentario “Ambiguità e disincanto – Il cinema di Emidio Greco“.
Il suo primo film “Il mistero di Lovecraft – Road To L.” che ha diretto nel 2005, selezionato in numerosi e prestigiosi festival internazionali, è stato premiato al Fantafestival 2005 conquistando l’European Silver Mèliés Award, presentato in Helsinki nell’ambito dell’Espoo Ciné.
Il cortometraggio horror “Liver” ha ricevuto eccellenti recensioni e premi, così come “E.N.D.” primo capitolo dello zombie movie (“E.N.D. – The Movie”, 2015). “Nuit Americhèn” è un commedia horror scritta e diretta de Federico Greco, interpretata da Gian Marco Tognazzi e Regina Orioli.
Il thriller “Angelika” ha vinto l’Online Film Festival Award in 2015.
Federico Greco insegna sceneggiatura e regia in varie accademie e scuole cinematografiche.
Diverse le sue partecipazioni a Festival internazionali quali lo “Screamfest LA, BARS” (Argentina), “Sitges” (Spain), “Noir In Festival” (Courmayeur), “Amsterdam Fantastic Film Festival” (Holland), “FantasPorto” (Portugal), “Torino Film Festival”.
I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. Prima di chiederti di raccontarci di alcuni tuoi lavori, sarebbe interessante se ci introducessi al mondo disturbante, ma spesso davvero coinvolgente, dell’horror. Perché, oltre il filone documentaristico, hai deciso di seguire questo modo di fare cinema?
Federico Greco: È successo dopo aver realizzato “Il mistero di Lovecraft – Road To L.”, che ha vinto il Fantafestival nel 2005 e ottenuto il Méliès d’Argento a Helsinki come uno dei dieci migliori film fantastici di quell’anno. Non volevo fare un horror, volevo semplicemente fare quel film. Io e Roberto Leggio cercavamo di trasporre in immagini e suoni la strisciante angoscia che avvertivamo ogni volta che provavamo a sospendere l’incredulità leggendo del Necronomicon e i racconti del ciclo di Cthulhu. Un terrore archetipico, indefinibile, una paura esistenziale. Dopo anni di ricerche, riflessioni e scrittura arrivammo a produrre il lungo, complicato trattamento di un mockumentary, che ci pareva la migliore angolazione possibile per restituire quella paura. In seguito è stato il destino a fare il suo corso: un po’ – sull’onda del successo del film – mi sono stati offerti lavori horror, un po’ io stesso ho continuato a non volermi più staccare da quel mondo che sentivo mi permetteva di raccontare le cose più liberamente. L’horror, ma forse sarebbe meglio dire il fantastico, quando non è fine a se stesso, è un grimaldello per decodificare il mondo più efficace di molti altri approcci. Vedi per esempio l’ultimo, straordinario Garrone. Ma in questa Italia ignorante e provinciale il fantastico è considerato serie B, e chi fa horror un regista di second’ordine. Ci ho messo un po’, a essere onesto, ad accettare che quella fosse la mia strada stilistica e a divincolarmi dai sensi di colpa scaturiti dai “Quand’è che fai un film vero?” di amici e colleghi. Finché ho pensato: “Mai fatti film finti”, e adesso sono felice e orgoglioso di essere in grado, purtroppo tra i pochi in Italia, di saper gestire un’estetica zombie, o di saper scrivere e girare una sequenza che incute paura. E poi diciamocelo, il fantastico è uno dei pochi generi con cui puoi permetterti di raccontare storie complesse e profonde e renderle universali, con l’innegabile vantaggio di poterle vendere anche sul mercato internazionale. Mercato che purtroppo da trent’anni a questa parte non vede l’Italia protagonista, tutta impegnata in storielle da salotto o pseudo commedie più o meno intelligenti che non varcano i confini. Il cinema italiano è diventato innocuo, è questo il suo male peggiore. L’horror, il fantastico – la violenza, la carne e il sangue – possono salvarlo.
I.G.: Il tuo Revenge Movie”Angelika” sta riscuotendo parecchio successo. Puoi raccontarci di come è nato questo progetto?
Federico Greco: Sono stato scelto come regista dalla produzione dopo che aveva visto il mio lavoro precedente, “Nuit Americhèn” al Noir in Festival di Courmayeur. Conoscevo Crisula Stafida da tempo come attrice di diversi progetti indie e l’idea di dirigerla in un Revenge Movie, in cui per la prima volta fosse lei a fare molto male agli altri piuttosto che esserne la vittima, mi stuzzicava. Inoltre la storia mi pareva interessante, non solo perché affronta l’argomento del traffico clandestino di organi ma perché cerca di indagare l’ambigua oscurità di una giovane ragazza costretta suo malgrado a usare la violenza per fare del bene, a scendere sempre più a fondo nella sua parte buia per un obiettivo alto. E io sono molto attratto dalla, per me ancora indecifrabile, perversa e affascinante complessità dell’animo femminile.
I.G.: “Nuit Americhèn” è un altro successo: la parodia del cinema di genere italiano (ma non solo) conquista per la sua sagacia. Il titolo strizza l’occhio allo spettatore: rimasticare “La Nuit américaine” di Truffaut è un modo per agganciarsi all’idea di un cinema nuovo come quello della Nouvelle Vague conservando tuttavia la libertà di partire per la tangente. Quanto questo progetto, di cui ti invito anche a raccontarci la genesi, potrebbe essere a tuo avviso l’evoluzione della cifra stilistica dei “padri” dell’horror come Mario Bava – che sa essere spietatamente ironico – fino a Dario Argento?
Federico Greco: Di Argento non c’è nulla, non sono un suo fan. Mi piacciono alcuni dei suoi lavori e sono felice che abbia rappresentato (e continui a farlo) l’horror italiano all’estero, ma preferisco Bava. Da Bava hanno imparato a girare i registi statunitensi e anche i nostri grandi autori degli anni ’60 e ’70. Ma “Nuit Americhèn” vuole piuttosto ironizzare sul tarantinismo odierno, l’incapacità di essere originali, di volere essere – spesso inconsapevolmente, il che è peggio – derivativi. Ancora peggio: senza dichiararlo apertamente. Facendo finta di prendere in giro il cinema di genere indie e underground italiano (e me stesso) in realtà cerco di riflettere sul fallimento complessivo del cinema italiano degli ultimi quaranta anni. Fallimento culturale ed economico. Se mai c’è qualche citazione linguistica, qualche prestito, questi vanno ricondotti al cinema horror degli anni ’80, di cui amo molto Landis (“Un lupo mannaro americano a Londra”), Hooper (“Non aprite quella porta”, “Poltergeist”), e un po’ tutto Carpenter. E comunque sì, Paolo, interpretato da Gianmarco Tognazzi, il regista cialtrone protagonista del film insieme a Regina Orioli, l’attrice costretta a subire la sua incompetenza, è il Margheriti, il Deodato, il Fulci, il Cozzi di oggi: nelle intenzioni uno straordinario artigiano capace di fare film senza soldi – “Co’ na specchiata” – direbbe l’immenso Margheriti, ma nella realtà un incompetente figlio della sottocultura di una società stanca e ignorante.
I.G.: Tra i tuoi progetti anche “E.N.D.”, puoi parlarcene?
Federico Greco: “E.N.D.” è il mio primo zombie movie ed è appena terminato. L’ho diretto a otto mani con Domiziano Cristopharo, Luca Alessandro e Allegra Bernardoni, perché è composto di quattro “atti”, ognuno dei quali racconta un momento della progressione dell’epidemia, dal giorno zero a sei anni dopo. Ha iniziato la sua carriera nei mercati internazionali (Cannes Film Market) proprio in questi giorni. Non amo l’estetica di zombie che va per la maggiore negli ultimi anni, quella per intenderci alla The Walking Dead, realizzata quasi esclusivamente con prostetiche che impediscono agli attori sotto le maschere di esprimersi. Ma soprattutto: perché uno zombie dovrebbe avere la faccia gonfia, gli zigomi e il mento pronunciati? Insomma, perché deve essere così evidente che si tratta di una maschera? Preferisco lavorare direttamente sulla carne e la pelle dell’attore, è più verosimile e quindi – credo – suggestivo. Perciò insieme al production design con cui lavoro da tempo, Roberto Papi, a Lucia Pittalis e a Davide Chiesa (special make up), abbiamo ideato un’estetica diversa e, spero, coerente con la storia che volevamo raccontare. Molti mi dicono che non amano i film di zombie perché ci sono sempre e solo morti, sangue, esplosioni e militari fuori di testa. Hanno ragione e quindi faccio una certa fatica a spiegargli che in questo caso il contesto horror è solo un pretesto narrativo per raccontare altro. E infatti in “E.N.D.” gli zombie a un certo punto sono interpretati da veri attori perché…
I.G.: Quanto è difficile fare cinema horror indipendente oggi, specialmente dal punto di vista tecnico, dei costumi e degli effetti?
Federico Greco: Da quel punto di vista non è molto difficile perché ormai siamo allenati e ci sono ottime maestranze. D’altronde i maestri italiani del genere facevano cose ancora più suggestive con meno. Inoltre ormai la CGI è alla portata di chiunque che, con un minimo di tempo ed esperienza, sa integrare in digitale gli effetti di set (che io prediligo). È difficile invece dal punto di vista dei soldi per camparci, e dei produttori e/o distributori che non ci credono. La maggior parte delle volte i film li fai girare nei festival internazionali, li vendi in homevideo e vod all’estero ma in Italia nessuno sa che l’hai fatto e se esce non viene sostenuto da un’adeguata campagna di marketing, che è la chiave del successo di quasi ogni film che esce al cinema. È uno scempio, vero e proprio, di maestranze, competenze, risorse umane e tecniche.
I.G.: Sempre parlando di horror, quando hai “incontrato” per la prima volta Howard Philips Lovecraft, lo scrittore americano sulla cui figura hai poi costruito “Il Mistero di Lovecraft – Road to L.”?
Federico Greco: Quando ero adolescente. In seguito, a trent’anni, lo rilessi tutto daccapo e incontrai Roberto Leggio con cui ho diretto e scritto il film. Aveva la mia stessa ossessione di osare la sfida di cui ti parlavo più sopra: rendere cinematografica l’angoscia, quella sottile e allo stesso tempo attraente tensione intellettuale che scaturisce dal tentativo di ottenere le risposte più oscure sulla profondità degli abissi umani (che Lovecraft metaforizza con i “Mostri”) e la consapevolezza che quando quelle risposte arrivano sono insostenibili e portano alla follia.
I.G.: A proposito del filone documentaristico, in questi giorni in cui il razzismo rischia di dilagare ferocemente vorrei ci raccontassi della tua esperienza per “*MEI [MEIG] – Voci migranti”.
Federico Greco: Feci quel documentario quando si parlava di “Primavera Araba”. Io non ci credevo e ne parlai in un’intervista con un giornalista che, ritenendomi cinico, non citò la mia opinione. Questo per dire che con “*MEI [MEIG]” (che è la radice etimologica di “migrante” e originariamente significava “dono”) ho tentato un’operazione di contro-buonismo e di analisi della realtà senza autocensure. Uno dei quattro personaggi di cui racconto la storia infatti si trovava dall’altra parte della barricata rispetto alla popolazione civile durante la crisi Argentina del 2001, quando il Paese si sganciò finalmente dal dollaro (e dalla sudditanza con l’FMI) e ritrovò così le potenzialità di far rinascere la propria economia reale. Insomma faceva parte della polizia che uccideva i cittadini che per fame assaltavano i supermercati. Quel lavoro non se l’era scelto, era l’unica cosa che poteva fare se non voleva morire di fame, e i sensi di colpa hanno continuato a tormentarlo per lustri. Ha scelto noi per raccontare per la prima volta tutto quello che aveva dentro. Ascoltare le sue parole provoca un cortocircuito inedito per chiunque abbia sempre visto la questione migranti o tutta bianca o tutta nera (non solo Salvini e soci ma anche la sinistra italiana al potere). Soprattutto se, subito dopo, il film ti costringe ad ascoltare il racconto di una ex-militante del PKK che fu torturata dall’esercito turco (piccola parentesi, oggi il PKK, per logiche di mera convenienza geopolitica, è considerato un gruppo insurrezionalista comodo e alleato). Vittima e carnefice (seppur su fronti geografici diversi) l’una accanto all’altro, volutamente, ma in comune molto di più di quanto abbiano un bolzanino e un napoletano: essere nati dalla parte sbagliata del mondo. Le motivazioni che spingono moltissimi di loro a emigrare noi non possiamo nemmeno immaginarle. Non si tratta solo di scappare dalla fame, dalla guerra o da regimi religiosi integralisti, che già è molto ma che non viene quasi mai neppure messo a tema come problema. Si tratta di tentare di capire chi si è, se si è o meno cittadino del mondo o se si è carne da macello, scarti di una civiltà che non avrà mai nulla di buono per te. Se poi hai dei figli le cose si complicano. E insomma, mi interessava sottolineare i grigi tra il bianco e il nero per dimostrare quanto sia semplicistico – e dunque criminale – il dibattito pubblico su questi argomenti.
I.G.: “Il cinema è un’invenzione senza futuro”, mai profezia fu meno nefasta di questa, perché sembra che i giovani non smettano di interessarsi al cinema: puoi raccontarci della tua esperienza didattica all’Accademia di Belle Arti di Perugia e al Cineteatro di Roma?
Federico Greco: Ogni volta che ho insegnato mi sono trovato di fronte allievi già preparati che hanno scelto consapevolmente il mio corso e quindi non so se la mia esperienza può valere come metro di paragone per stabilire se le nuove generazioni siano più o meno cinefile e soprattutto quale sia la qualità di questa cinefilia. Questo potrebbe dircelo solo un’analisi attenta del box office. Il piacere più grande che provo ogni volta è quello di far scoprire agli allievi una nicchia autoriale di cui non sospettavano neppure l’esistenza (Kaufman, Van Dormael), oppure il cinema in bianco e nero. La scoperta di Chaplin, per un ventenne di oggi, può essere un’esperienza che va oltre la mera soddisfazione estetica. Oppure riuscire a decodificare la malata oscurità di “Mulholland Drive”, che è il film-strumento che utilizzo quasi sempre per mostrare che cos’è, fino nei più reconditi dettagli, il cinema, di quale potenza emotiva è capace. La quasi totalità dei miei corsi è tutta sbilanciata sulla scrittura e la realizzazione del prodotto finale (il set), nel quale cerco sempre di coinvolgere, bontà loro, i reparti con cui lavoro abitualmente. Oggi è facile fare cinema se hai due soldi. Non serve più neppure avere le idee o la passione. Per questo l’obiettivo dei miei corsi è quello di mettere gli allievi nelle condizioni più vicine possibili a quelle di un set reale, complesso, ansiogeno ed esaltante allo stesso tempo, duro, faticoso, sporco, per offrirgli la possibilità di comprendere se quello è, davvero, il lavoro che vogliono fare.
Written by Irene Gianeselli
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