«Se sapete che il vostro strumento siete voi stessi, conoscete anzitutto il vostro strumento, consapevoli che è lo stesso strumento che danza, che canta, che inventa parole e crea sentimenti. Ma curatelo come l’atleta, come l’acrobata, come il cantante, assistetelo con tutta la vostra anima, nutritelo di cibo parcamente, ma senza misura corroboratelo di forza, di agilità di rapidità, di canto, di danza di poesia e di poesia e di poesia. Diverrete poesia aitante, metamorfosi perenne dell’io inesauribile, soffio di forme, determinati e imponderabili; di tutto investiti, capaci d’assumere e di dimettere: passioni, violenze, affezioni, restandone arricchiti e purificati… tesi alla rivelazione di ciò che l’uomo è: angelo della parola, acrobata dello spirito, danzatore della psiche, messaggero di Dio e nunzio a se stesso e all’universo d’un se stesso migliore.» Orazio Costa
La storica “ditta” Mauri-Sturno porta sulle scene in questi giorni “Una pura formalità“, versione teatrale del film di Giuseppe Tornatore del 1994. Glauco Mauri, che ha curato la drammaturgia e la regia, aggiunge un nuovo tassello alla sua già ricca produzione e lo fa con la forza espressiva della maturità d’attore, con lo slancio creativo del pensatore che riflette sulla realtà e la traduce in azione scenica per rappresentare il mondo e le sue contraddizioni, l’uomo al contempo artefice e vittima di quelle contraddizioni e la vita col suo fluire.
Lo spettacolo sarà al Teatro Goldoni di Venezia dal 9 al 12 aprile e chiuderà la stagione 2014-2015 al Teatro Carcano di Milano dal 15 al 26 aprile.
Glauco Mauri, insignito nel 1994 dell’onorificenza di Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana, racconta per Oubliette Magazine il suo spettacolo e la sua esperienza di uomo di Teatro.
I.G.: La ringrazio per la disponibilità. Qual è stato il suo approccio al testo – soggetto e sceneggiatura – di “Una pura formalità”? Quale aspetto specifico del testo continua ad attrarla?
Glauco Mauri: Il film mi ha subito interessato. Quello che mi colpì, ripensandoci, fu il rapporto che si instaura tra Onoff e il Commissario. Subito mi tornò alla mente l’incontro-scontro tra Porfirij e Raskolnikov nel “Delitto e Castigo” di Dostoevskij: Raskolnikov vuole spingere Porfirij a confessare spontaneamente, non vuole denunciarlo per il suo delitto, anzi, tiene alla sua dignità. Il Commissario di “Una pura formalità” con ironia, tenerezza, comprensione, ma anche violenza è molto vicino a Raskolnikov. L’idea è questa: c’è un uomo che aiuta un altro uomo a capire se stesso, a capire la vita. Lo aiuta a ricordare tutto quello che ha voluto scordare perché troppo doloroso. Quante volte ci capita di dimenticare gli amori che abbiamo ucciso con il nostro egoismo, le cose sgradevoli che abbiamo fatto? Non bisogna mai dimenticare quello che di sgradevole abbiamo fatto: perché la vita è un viaggio stupendo, affascinante, ma anche terribile.
I.G.: Sempre riguardo il suo approccio al testo di Tornatore può dirci come ha ricostruito nella messinscena, nel gesto teatrale la frenesia e lo spasmo febbrile che nel cinema sono date dagli spostamenti rapidi della macchina da presa e da inquadrature feroci, primi piani diretti? Come si realizza a Teatro, dove l’attore è coinvolto in una esperienza totalizzante, quello che al cinema è reso essenzialmente attraverso la sensibilità del regista?
Glauco Mauri: Anche il Teatro è molto gestuale, ma la parola è “lo strumento base”. Il cinema usa elementi tecnici che a teatro non ci sono. La fantasia del teatro è positiva: la finzione sul palco è molto più interessante della vera realtà della vita. Una neve che cade su un palcoscenico è certamente più bella e “reale” di una neve “vera” in un film. Penso sempre in proposito a “Il Casanova” in cui Fellini realizzò un mare finto fatto di plastica: anche se era un mare “teatrale”, era volutamente un mare “finto” che se fosse stato fatto a teatro, però, sarebbe parso anche più reale della realtà. Il teatro ha questa magia.
I.G.: La situazione che vive Onoff è decisamente kafkiana, è una situazione ambigua in cui il commissario sembra essere altrettanto coinvolto nel senso di smarrimento dello scrittore: tra i due c’è una forte empatia. Potremmo definire questi due personaggi come parti di un unico personaggio che cerca di ricostruire e comprendere se stesso?
Glauco Mauri: A questo non avevo pensato. Penso invece che tutti gli esseri umani siano uguali, abbiano uguali sentimenti. Penso a Onoff e al Commissario come a due persone completamente diverse. Però questa potrebbe essere un’altra interpretazione interessante.
I.G.: In questa storia il principale motore di ogni contrasto è la morte: proprio Onoff ha dimenticato la sua stessa morte. Il compito del commissario è fargli ricordare la sua intera esistenza fino a comprendere le ragioni del suicidio. Il compito del commissario può essere anche quello di raccogliere i dubbi, le curiosità degli spettatori?
Glauco Mauri: Il Commissario ha la funzione di porre il pubblico nella stessa identica condizione di Onoff. Questo commissariato è un luogo con una prospettiva irregolare, dove gli orologi non hanno lancette, sembra tutto, tranne che un commissariato e questa ambiguità muove il pubblico verso un perché: cosa ha fatto Onoff di così terribile da non potersene ricordare? E questo singolo perché mette in moto molti altri interrogativi a cui non si può dare una unica risposta razionale e geometrica.
I.G.: A proposito di razionalità: secondo lei esiste una “scienza”, un metodo che possa studiare e spiegare il Teatro e il lavoro dell’attore su se stesso?
Glauco Mauri: Nell’esperienza di tanti anni, personalmente, affronto il personaggio anche registicamente con il bisturi della razionalità e dopo questa vivisezione del personaggio e del testo, quando salgo sul palco e comincio a provare avviene che, piano piano, da quel quattro per quattro uguale sedici, otto più otto diventa un campo di papaveri, una tempesta… Avviene qualcosa di magico che con la razionalità non si può spiegare e nasce la Poesia. Non so come accada, ma non voglio nemmeno saperlo.
I.G.: Posso chiederle perché ha scelto per sé il ruolo del Commissario affidando a Roberto Sturno quello di Onoff.
Glauco Mauri: Prima di tutto per una questione di età. Onoff è ancora coinvolto dalla vita, il Commissario è più distaccato. Credo che nella caserma siano tutti dei suicidi: la caserma è il punto improprio dove le due rette parallele si incontrano. Tornatore mi ha dato carta bianca, poi mi ha detto che con le parole sono riuscito molto di più a spiegare quello che al cinema è un messaggio criptico. Tutte le opere sono grandi se danno ad un interprete lo stimolo di cercare nuove sfumature: le sfumature che ho dato ai personaggi, umanizzandoli. Il Commissario di Polanski è molto diverso dal mio – ovviamente non sto facendo un confronto qualitativo – che passa dalla tenerezza alla comprensione e anche fisicamente Sturno non è Depardieu che interpreta Onoff. Si tratta di fioriture differenti: il pubblico con la curiosità arriva a comprendere il messaggio inafferrabile, astratto del film. Tutti i brandelli di vita si ricompongono nel finale – diverso da quello del film – in cui c’è la spiegazione del senso che assume la caserma, di questo punto improprio e nella quieta coscienza, nella serena accettazione della morte, Onoff si volta verso il pubblico chiedendo “E adesso?”. Ecco, il mio è un finale laico che dà forza alla parola.
I.G.: Orazio Costa è stato suo Maestro e riguardo lo strumento dell’attore, il corpo, suggeriva di “corroborarlo di agilità, di rapidità, di canto, di danza, di poesia, di poesia e di poesia”. Cos’è la poesia, come si può riconoscerla – specialmente per i giovani – e come si può imparare a fare poesia?
Glauco Mauri: Per me la Poesia è il concentrato della vita. Mejerch’old dice “l’arte sta alla vita, come il vino sta all’uva” il vino è il risultato della fermentazione del mosto come il teatro, che è arte, è la mediazione che induce ad approfondire i perché della vita. La poesia è l’essenza della vita: quello che in una pagina di un romanzo si esprime con mille parole, la poesia lo esprime anche solo con una parola. Si riconosce la poesia quando commuove, senza che si possa capire il perché. Penso alla poesia di Rimbaud che è pervasa da questo senso di morte, di solitudine strana, ma anche di giovinezza. Tutto l’impasto rende le sue espressioni immortali. Bisogna essere poeti per fare poesia, ma noi attori abbiamo una meravigliosa responsabilità: raccontiamo favole ricche di umanità - scritte da Sofocle, Shakespeare, Goethe, Molière, Beckett e tanti altri - che parlano di delusioni, di speranze, di amore, di vita.
I.G.: Vorrei chiederle di condividere un suo ricordo di Luca Ronconi che nel 1972 l’ha diretta nell’ “Orestea” di Eschilo.
Glauco Mauri: Luca è entrato in Accademia un anno dopo di me e ricordo che l’ultimo suo ruolo da allievo fu ne “La dodicesima notte”. Mi ha scritto sei, sette giorni prima di morire e anche se non ci vedevamo spesso avevamo in comune una giovinezza e una formazione oltre che l’esperienza dell’Orestea. Io ero a Roma al Valle quando Luca scriveva la regia e appena finivo lo spettacolo veniva a prendermi. Mi parlava del suo progetto fino alle quattro del mattino in una trattoria nei pressi di Piazza Colonna. Era un grande e anche se si poteva non essere d’accordo con le sue scelte registiche, arrivava sempre un momento nella messa in scena in cui si riconosceva che quello era il lavoro fatto da un genio.
I.G.: Come vede il Teatro, il Cinema e la televisione oggi?
Glauco Mauri: Io vedo una grande confusione. Il fattore economico sta avendo incidenza anche sulla cultura. Adesso non ci sono valori e se ci sono non si comprendono. Parlo del Teatro che è stato la mia vita e il mio terreno e continua ad esserlo ed è lontano dal periodo di mediocrità attuale. Si vuole essere famosi a tutti i costi adesso. Ho grande fiducia nella nuova generazione di attori talentuosi che saprà crescere.
I.G.: Esprimere la parola significa esprimere il pensiero. Oggi siamo sommersi di parole e di pensiero, ma sembra che nulla venga più espresso. Come considera questa situazione di liquidità sociale in senso lato e cosa crede si possa ancora fare per tornare ad “esprimere”?
Glauco Mauri: La cosa importante è essere uomini. La Poesia, a mio avviso, non nasce dalla solitudine, ma dalla comunicazione e dall’incontro con gli altri. La necessità e il potere comunicare con gli altri uomini hanno permesso a Dante, a Shakespeare fino a Beckett di fare poesia. Nessuno si rinchiude in se stesso quando fa Poesia, ma cerca di comunicare con gli altri.
I.G.: Comprendere l’uomo: cosa c’è ancora da scoprire?
Glauco Mauri: Bisogna comprende gli uomini e questo l’ho imparato dai grandi autori come Dostoevskij. Dimenticare è facile, comprendere, perdonare è necessario. La vita può ottundere e confondere. Non si deve mai giudicare un uomo, ma bisogna avere il coraggio di mettersi in discussione per capire cosa si nasconde dietro un gesto. Non dico nemmeno che un uomo vada a prescindere giustificato. Ma compreso, sì. E questo è chiaro anche in “Una pura formalità”. La democrazia non è solo lasciare che ognuno dica la propria opinione anche se diversa dalla tua, questa è solo la base della democrazia. Democrazia significa predisporsi ad ascoltare e capire ciò che pensano gli altri, magari c’è una sfumatura che possiamo fare nostra.
I.G.: Quali sono i confini, i limiti, i punti di contatto tra l’essere uomo e attore e tra l’essere attore e uomo.
Glauco Mauri: Dopo tanti anni posso dire che sono la stessa cosa. Un attore su un palcoscenico non dovrebbe mai salirci solo per dimostrare la propria bravura. Brecht dice “tutte le arti contribuiscono all’arte più grande di tutte: quella di vivere”. E il Teatro è sicuramente l’arte degli uomini.
Written by Irene Gianeselli