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Intervista di Irene Gianeselli all’attore Luca Micheletti: la dissennata nobiltà del teatro

Creato il 05 giugno 2015 da Alessiamocci

Luca Micheletti, regista, attore e drammaturgo, è nato a Brescia. “Figlio d’arte” da quattro generazioni, fin da giovanissimo si divide fra la ricerca teatrale e quella scientifica.

Ha un dottorato di ricerca in Italianistica conseguito alla Sapienza Università di Roma dove si è dedicato all’indagine del teatro proibito rinascimentale. Nel 2011 vince il Premio UBU per il suo lavoro nella Resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht (prod. ERT / Teatro di Roma, Premio della Critica 2011), dove è Dramaturg e attore al fianco di Umberto Orsini. Lo spettacolo gli vale inoltre una nomination al Premio Le Maschere del Teatro Italiano. Nel 2014 firma regia e drammaturgia della Metamorfosi di Kafka per il CTB Teatro Stabile di Brescia ed ERT, con Laura Curino e Dario Cantarelli. Nel 2013 dirige Umberto Orsini nelle  Memorie di Ivan Karamazov dal romanzo di Dostoevskij. Nel 2012 Luca Ronconi lo chiama al suo Laboratorio per la Biennale di Venezia Teatro a dirigere uno studio su Questa sera si recita a soggetto di Pirandello.

Recita nella Solitudine dei campi di cotone, in Voci sorde e Sallinger di Koltès (Teatro di Roma), con la regia di Claudio Longhi. Per il Teatro Stabile di Napoli è Amleto nel progetto di Hubert Westkemper Giorno di morte nella storia di Amleto ancora di Koltès, ed è inoltre al Festival dei Due Mondi di Spoleto come protagonista di A piedi nudi nel parco di Simon. Regista stabile della Compagnia teatrale I Guitti, negli ultimi anni ha diretto decine di spettacoli di autori classici e contemporanei, oltre a diversi copioni suoi. Fra questi, Ritorno a Deepwater è finalista al Premio Riccione Pier Vittorio Tondelli 2011. Al cinema è diretto da Marco Bellocchio e Renato De Maria. Si occupa anche di didattica teatrale in ambito scolastico, accademico e carcerario. Svariate le sue traduzioni per la scena e non solo, fra gli altri: Molière, Marivaux, Hugo, Cocteau, Valéry, Vian (ed. GAM 2008), Ramuz (ed. GAM 2012), Koltès (Diabasis 2013), Kafka (Sedizioni 2014). Tutta la felicità (Sedizioni 2015) è il suo primo romanzo.

Luca Micheletti ci incontra per raccontarci la sua esperienza di intellettuale e di uomo di teatro, il suo recente lavoro su Kafka, l’amore per “Histoire du Soldat” che l’ha portato al suo primo romanzo, gli approdi futuri della sua ricerca.

I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. La prima domanda non può che essere questa: perché fare Teatro oggi? Per considerare il buio e il freddo grande di questa valle echeggiante di lacrime, per dirla con Brecht, oppure, e in questo caso la diremmo con Kafka, perché anche i mezzi insufficienti o addirittura puerili possono giovare alla salvezza?

Luca Micheletti: Io non faccio teatro per salvarmi o per salvare. Io faccio teatro perché è pericoloso. Per me, per chi mi guarda, per chi non mi guarda. E questo valga in termini teorici. Oggi, però, si rischia di renderlo un mestiere pericoloso anche dal punto di vista materiale, poiché è sempre più “impraticabile”, sempre più messo in difficoltà – e non da ragioni nobili che hanno a che fare col suo essere sacrosantamente un’arte “brutale”, bensì da scelte e individui che ne determinano l’ininfluenza civile e culturale, che è la cosa peggiore che può accadere – . Come può essere ininfluente una cosa pericolosa? Chi non se ne accorge per tempo, se ne pentirà. Già si vede l’onda lunga dell’assenza di mestiere e di “gusto” teatrale che regge le sorti di tanto del nostro teatro nazionale. Ma il teatro resisterà. Qualsiasi cosa sia, è passato attraverso tutte le cose di tutte le epoche, e quindi passerà anche oltre questo. Probabilmente è un modo per raggiungere l’umano di cui non serve sentire o meno il bisogno: c’è, ed è una possibilità inalienabile. Sceglierlo come mestiere, certo, oggi, è davvero dissennato. Basta saperlo. Siamo in guerra, è sempre più evidente: facciamo teatro di guerra.

I.G.: Cosa puoi raccontarci dei primi anni della tua formazione?

Luca Micheletti: Fatico a ricordarli, perché ho cominciato la mia formazione teatrale molto piccolo. Ho avuto la ventura di nascere in una famiglia di teatranti: incontri, prove, spettacoli, cene, camerini, viaggi, nottate, hanno sempre fatto parte della mia vita. E, allo stesso modo, insicurezze, specchi, trucchi, giochi di ruolo, responsabilità, errori, esercizi, allenamento, creazioni… Non mi sento di avere mai “cominciato”. Forse, potrei collocare l’inizio del mio percorso di formazione più o meno quando ho deciso consapevolmente che il teatro dovesse essere la mia vita. Ma anche questo è avvenuto molto presto, nei primi anni dell’adolescenza. Non ho avuto maestri che si sono posti da tali, piuttosto dei punti di riferimento che ho riconosciuto importanti per me quasi naturalmente: ho cercato e cerco tuttora di formare essenzialmente il mio “gusto” teatrale. La tecnica è allenamento, ma anche gusto. Però da non intendersi come cascame borghese, bensì come temperamento creativo, orizzonte di scelta, maturità e conoscenza. Ho capito presto che non basta essere virtuosi, bisogna saper scegliere quando esserlo, quando ha un senso, quando vince il teatro: quando invece vince la vanità (in ogni senso intesa) o il “progetto” (l’ideale che si accontenta di esiti sommari o artisticamente scadenti), allora è meglio cambiare mestiere. Gli attori sono degli strani animali, molto simili tra loro o, quanto meno, con qualcosa di costante: diciamo una certa propensione per il difendersi attaccando. Per il mio naturale, un tratto piuttosto sgradevole. Viverci in mezzo fin da bambino mi ha spinto al rifiuto di questo stereotipo e ho cercato di non assimilarmi ad esso prendendo il teatro non di petto, ma d’accanto: senza difendermi; semmai, a tempo, schivando. È una delle ragioni per cui ho cominciato molto presto ad occuparmi di regia e, inoltre, per cui le scuole che ho scelto non sono mai state “scuole di teatro”; quando è capitato, me ne sono allontanato. All’università ho finito per optare per la letteratura rinascimentale come rifugio e “archeologia del sapere”, la filologia come tecnica d’osservazione della realtà e come umile strumento di scoperta. Ho studiato la musica, ho vissuto il sax come “pipa di meditazione”, il canto lirico come sfida atletica… Ma il teatro posso dire di averlo sempre trattato come ring, mai come tecnica. Non l’ho studiato, in senso canonico, mi ci sono trovato in mezzo, e ho cercato di non difendermi da esso, più che potevo. Prendere pugni è la strada (mettersi k.o. da se stessi, diceva qualcuno).

I.G.: Nel saggio critico su Franz Kafka da “Angelus Novus”, Walter Benjamin propone il mondo di Kafka come infinitamente più vecchio del mondo del mito. Per Benjamin Kafka è un novello Ulisse che ha lasciato le lusinghe del mito “scivolare via lungo i suoi sguardi fissi lontano; le sirene scomparvero letteralmente davanti alla sua risolutezza e proprio mentre gli erano più vicine, egli già non sapeva più nulla di loro”. Il theatrum mundi come lo sappiamo riconoscere noi oggi non esisterebbe se il mito greco e la tragedia non avessero trascinato davanti ad un pubblico la vita. Credi che essere attore possa assomigliare ad essere Ulisse nella definizione di Benjamin?

Luca Micheletti: L’attore è un creatore di mondi. Egli deve essere in grado di stabilirne le leggi (oltre che lo statuto di realtà), e poi scegliere se assimilarsi a quelle stesse leggi o trasgredirle, e quando. Ogni lavoro teatrale, ogni performance, sono governati da una legislazione separata, autarchica, assolutamente inspiegabile al di fuori di essa. Kafka non ha potuto sottrarsi alla testimonianza dell’intestimoniabile, del non-ordinato, dell’implausibile. Con questo significato, sì, l’opera di Kafka è un’opera teatrale. E l’attore può arrivare da un territorio più antico del mito stesso se con questo s’intende che egli vien prima delle storie, delle eredità e dei simboli, custode di un mistero cui forse nemmeno si può alludere, perché se n’è persa memoria. L’opera d’arte (in teatro a maggior ragione) è forse qualcosa di simile ad un dispositivo che non si può dire perché funzioni; o meglio, che funziona a prescindere da ciò che lo innesca. Quando Gregor Samsa, leggiamo, si trova nel suo letto trasformato in un immane insetto, non possiamo rispondere nulla alla domanda “in che senso?”: proprio questa impossibilità di rispondere colloca la storia di Kafka in un pre-mondo in cui ancora le storie non erano ordinate in miti, in cui non erano passate attraverso lo sforzo di dar loro una fisionomia gnomica, iniziatica o misterica. La mancata comprensione del senso esatto di quel che si sta leggendo, insieme all’impressione fallace di sapere esattamente di cosa si stia parlando, conferisce alla pagina una vibrazione eterna, la illumina e la rende un oggetto necessario: l’unico a poter dire quella cosa in quel modo, senza possibili parafrasi. Sì, in teatro, non si deve poter rispondere alla domanda: “in che senso?”. Anche quando l’opera teatrale ha uno scopo ed è governata da leggi apparentemente riconoscibili, qualcosa, se è opera autentica, la aggancia a un che di indicibile.

I.G.: Proprio di Kafka hai messo in scena “La Metamorfosi”. Sei un Gregor Samsa che “non si stanca di essere pazzo”, né teme la sua “vita distorta” quasi come se, profondamente, conoscesse da tempo l’oblio paradossale in cui precipita. Puoi raccontarci perché hai deciso di lavorare su questo testo?

Luca Micheletti: Quello che ho detto ora su Kafka lo anticipa. Il mio Gregor non è un pazzo, però: è, semmai, “diversamente ragionevole”. Ho scelto di fare La metamorfosi perché volevo servirmi di un “protocollo di esperienza” (come l’hanno chiamato Deleuze e Guattari) utile per gettar luce su alcune estremità della condizione del disabile nel mondo contemporaneo. Questa chiave ha guidato la mia lettura: Gregor non è un mostro paranormale chissà da quale galassia precipitato nel nostro spazio-tempo (lo diceva anche Kafka: “Non disegnatelo come un insetto!”), bensì una creatura in cerca d’aiuto dentro un mondo non atto ad ospitarla. Quel che ho detto del teatro come oggetto agganciato a mondi pre-mitologici, non lo colloca al di fuori della realtà. Anzi, esso si nutre di realtà, anche molto concrete. Nella sua inspiegabilità, esso continua ad esprimersi, furiosamente, con urgenza e desiderio, solo che utilizza parole sempre diverse per indicare le stesse cose. Come il “gorilla” di Auto da fé, l’unico immenso romanzo di uno dei miei autori prediletti, Elias Canetti. Egli nomina le cose in maniera continuamente cangiante e questa vibrazione linguistica modifica le cose stesse. È questa la principale pericolosità del teatro e, al contempo, la sua conturbante meraviglia.

I.G.: Sempre Benjamin, riguardo ai personaggi kafkiani, scrive “I personaggi con le loro parti cercano un asilo nel teatro come i sei di Pirandello un autore. Per gli uni come per gli altri questo luogo è l’ultimo rifugio; e ciò non esclude che esso sia la redenzione. La redenzione non è un premio sulla vita, ma l’ultimo rifugio di un uomo a cui, come dice Kafka, «la strada è sbarrata dal suo proprio osso frontale»”. Come un attore può riuscire a dare asilo ad un personaggio come Gregor Samsa e, allo stesso tempo, costruire un altrove per se stesso?

Luca Micheletti: Kafka dice che la letteratura deve essere una scure per il mare gelato dentro di noi e che un libro deve colpirti come un pugno sulla testa. Posso parafrasarlo, sostituendo alla parola letteratura la parola teatro. Bisogna lasciarsi ferire, spaccare, aprire. È l’unico modo di dire davvero qualcosa, usando sempre parole diverse, quindi, in qualche modo, impossibilitati a parlare qualsivoglia linguaggio. Per questo, “stranieri nella propria lingua”, gli attori. Perché non possono condividere un codice, né lasciarlo perdurare, soltanto testimoniarne l’esistenza e, col farlo, modificare la realtà, abitarla per un breve singhiozzo e subito abbandonarla. Come questo non possa lasciare spazio all’individuo e alla sua “interezza” è facilmente intuibile. Ma non facciamo solo quello che ci fa bene, nessuno lo fa. Siamo spinti a distruggerci a volte con la stessa violenza con la quale siamo spinti a conservarci: su e giù. Questo ci rende umani. L’equilibrio personale di ciascuno si regge poi su altre ricerche, su altre pretese e su altri bisogni, nel privato. Ma questo qui non importa. 

I.G.: Da giovane attore, nato e cresciuto in una famiglia che ha alle spalle una tradizione teatrale generazionale, quale credi sia la condizione del Teatro italiano di oggi?

Luca Micheletti: “Giovane attore”… Etichetta faticosissima. Esistevano gli “attor-giovani”, ma quel sistema è obsoleto e giustamente superato. E non conta, circa il mio giudizio sul nostro teatro, la mia genealogia. “Giovane” è una parola abusata e strumentalizzata: si ripete in continuazione, ma non è di per sé garanzia di nient’altro che di una potenziale durata superiore. Il punto è: durata superiore di che cosa? di quali qualità? Non è stata un’intervista sull’“attualità”, e allora, anche in questo caso, continuerò ad essere “inattuale”, senza parlare, per stavolta, della recente riforma e dei suoi controsensi. Dirò invece che il concetto di “generazione” non ha niente a che fare con l’anagrafe. La mia “generazione” è fatta di persone di molte età differenti; non è una “classe”, ma un sistema di relazioni e di predilezioni. Dirò inoltre che esiste, nel nostro teatro, una ricerca raffinata e appartata, una cultura marginalizzata fatta di disciplina, di studio, di messa in gioco, di scomodità e rigore, di fatica, di brutalità e poesia (senza retorica): esiste, da sempre fa fatica a sopravvivere, perché è oscurata dai pesci più grossi, o anche da quelli piccoli e isterici, che muovendosi però in branco e in disordine comunque intorbidano le acque, costringendo ciò che c’è di più solido ad inabissarsi. Non importa granché, esso vive: e i relitti custodiscono tesori immensi sul fondo del mare, territorio per i sommozzatori più arditi, meno ansiosi di luce e di aria, più solerti nell’andare a fondo, più preparati all’attesa (ma non perché, in quanto “giovani”, se ne stima una durata superiore). Io, pur lavorando da anni nel teatro pubblico ai massimi livelli e avendo avuto grandi riconoscimenti e, tuttora, grandi occasioni e grandi spazi, mi sento di giocare la mia partita in quegli abissi. Incontro, talora, testimoni sinceri di quanto c’è laggiù. Parlo con loro volentieri. Li seguo, li porto con me. Sono la mia generazione.

I.G.: C’è il senso di predestinazione nella “Histoire du Soldat” che tu riscrivi in “Tutta la felicità” (Sedizioni – Diego Dejaco Editore, 2015) gli “alienati” – il termine latino del Salmo 58 (che citi introducendo al racconto) se non adattato nella traduzione italiana rimanda immediatamente al Gregor Samsa kafkiano, alla lotta dell’alter-abile di cui parlavamo poco fa – sono peccatori già nell’utero materno. E ancora ci sono le veggenze di Goethe, di Proust che solidamente pongono le basi di questa fuga, di questo viaggio soprannaturale, metafisico eppure materico e vivo. Puoi raccontarci l’origine della tua ricerca e della ricostruzione di “Histoire du Soldat”?

Luca Micheletti: Ho affrontato quest’opera più volte, in teatro. La prima, a Fermo, nel 2008, dove ne allestii al Teatro dell’Aquila una grande versione con Elio Pandolfi. Poi ne ho tradotto e pubblicato il testo (Gam 2012), per la prima volta in Italia svincolandolo dalla partitura stravinskijana, accompagnando l’operazione editoriale con una nuova versione per orchestra e voce sola. L’ultima volta l’ho messa in scena lo scorso aprile, ancora ritornando sui materiali originali e seguendo, insieme al maestro Angelo Bolciaghi, una linea filologica e drammatica insieme. Non è, infatti, una storia qualunque. È diventata, col tempo, posso dire un mio testo guida; credo che la versione teatrale e musicale originale (quella di Stravinskij e Ramuz scritta un secolo fa) abbia aperto la strada alla riflessione novecentesca sulla contaminazione delle arti e abbia realizzato in una declinazione “folk” e concreta l’utopia wagneriana dell’opera d’arte totale. Ma non si tratta di un’opera fondativa solo a livello formale. Anche sul piano contenutistico, siamo di fronte ad un oggetto drammaturgico pieno di risonanze. Partendo da un alcune fiabe russe tradizionali raccolte da Afanas’ev, gli autori dell’Histoire hanno ricostruito un magico e cifrato percorso iniziatico in forma di parabola, o di fiaba. La scommessa su cui poggia è la seguente: perdere vale vincere, anzi, si vince solo perdendo. Bisogna credere nel guadagno della perdita, nell’assenza di certezze, nella caduta all’ingiù che può tramutarsi in salita e crescita. Mi ha interessato molto che persino il diavolo, in questa storia, sia interessato – più ancora che ad accaparrarsi l’anima del soldato – a conquistarsi la felicità di cui gli uomini possono godere e che lui, invece, esperisce solo in forma di nostalgia. La nostra vittoria sul diavolo è l’istante, quello di cui parla Eliot («All is always now»), il presente insomma: solo lì e magnificamente può compiersi la nostra felicità. Ho ricostruito, sulla base di questa lettura, la vicenda del soldato in licenza che si confronta con il Male: ne è nato un breve romanzo, Tutta la felicità, profondamente debitore all’Histoire e, al contempo, assai lontano da essa. È un oggetto letterario autonomo che raccoglie alcuni esiti della mia ricerca personale (di natura artistica ma anche spirituale) e che ho sentito l’esigenza di abbandonare. Sì, dovevo “liberarmene”, come un talismano che va donato perché funzioni.

I.G.: Per tutto il viaggio di Joseph un termine, “natürlich”, ricorre spesso, quasi come a sottendere la beffa che viene ordita perché il soldato inciampi nella sua condanna. Il divenire è naturale, genuino, è fatale. Ma quanto è innaturale ricostruire, quanto è innaturale passare per sette procedimenti e per tre colori (il nero delle farfalle, il bianco corpo della giovane sposa infedele e il purpureo taglio del sipario) per raggiungere la conoscenza della “sconosciutezza dell’accadere” e dell’”innata imitazione”? Per trovare la risposta all’atroce domanda “evitare vale esistere”?

Luca Micheletti: Imprendibile, spesso, la natura delle cose. Gli alchimisti raccoglievano in cataloghi (a volte detti “teatri”) vicende ed esperimenti d’avvicinamento al grande “opus”. È affascinante che una creazione artistica possa attivare o testimoniare il lavoro su di sé e viceversa; ma (l’ha detto molto bene Giorgio Agamben) è impossibile che le cose coincidano. L’unica cosa possibile è l’attivazione d’una relazione con una potenza. Opera e vita sono cose diverse, ma unite nella contemplazione della potenza (in senso spinoziano), ovvero l’essenza, se si vuole, degli esseri. Mi occupo da tempo di tracciare, attraverso i miei lavori, una storia dell’umano di fronte al male: negli ultimi anni, lavorando sul teatro proibito rinascimentale, su Brecht e il nazismo, su Kafka e il disagio fisico ed esistenziale, su diverse versioni del Faust (di cui l’Histoire du soldat e Tutta la felicità sono esempi), sto portando avanti la mia esplorazione – non sempre priva di rischi – delle soglie oscure: del resto, il teatro ha molto a che fare con esse. Tutto, lì, si svolge nei pressi di soglie oscure, di abissi e misteri dei quali la luce è solo chiamata a dar fugace testimonianza.

I.G.: In copertina, pochi, feroci e incisivi tratti di Bianca Orsi fissano l’immagine di un uomo appeso. Zarathustra dice che “il nodo a cui s’appende la fatalità è l’unica virtù” e Nietszche ci condanna all’eterno ritorno e tu scrivi “è la coincidenza dei tempi che consente l’eternità”. Cosa credi potrebbe accadere se un giorno scoprissimo come sciogliere il nodo e slegare i tempi senza farli coincidere? Che disordine si creerebbe?

Luca Micheletti: Posso essere veggente solo come un poeta, quando mi riesce, nel segno d’una religione rimbaudiana che è insieme scuola di metamorfosi ed «esclavage du baptême». Più in là non mi sembra saggio spingermi.

I.G.: L’uso della parola è cifra del tuo linguaggio narrativo ed è di per sé livello conoscitivo, come pure le scelte retorico-formali e stilistiche. Quale rapporto quindi hai istituito tra letteratura e teatro?

Luca Micheletti: Ho scritto quasi sempre solo in funzione della scena. I miei copioni sono nati quasi tutti, come mi par giusto che sia, con funzione ancillare rispetto alla loro realizzazione scenica, spesso già programmata. Mi servo della letteratura (mia o d’altri) come una componente necessaria del fare teatro, azione che spesso la smembra e la violenta per farne altro. Se faccio letteratura è per farne altro dalla letteratura. Tutta la felicità ha preso forma narrativa un po’ per caso: per me, le prime pagine sono nate come note di regia o, meglio, come didascalia per quanto m’immaginavo dovesse accadere in scena. Poi il libro si è compiuto a prescindere dal palcoscenico, con tempi molto lunghi, ma anche con molta facilità: del resto c’è una differenza incolmabile fra le due pratiche, letteraria e teatrale. La prima crea cose infinite con mezzi infiniti (le parole lo sono); il teatro, invece, deve ricreare l’infinito col finito (l’uomo lo è): è questa la sua brutalità, la sua crudeltà, la sua perenne inadeguatezza, la sua somma inattingibilità e la sua dissennata nobiltà.

I.G.: Il tema della salvezza, della ricerca di una alternativa in una preghiera per pochi, una “mistica privata” questo “calpestare il cielo per fare avanzare i vessilli” rimanda all’immagine del paradiso perduto miltoniano. Il Teatro dove si colloca, non è forse insieme il cielo calpestato, la mistica privata e i vessilli che avanzano? Non è forse insieme l’attesa, l’eterno ritorno e il divenire?

Luca Micheletti: Direi “attimo”. Un “attimo” di tutto questo. Il teatro di per sé non è per altro né può essere compimento di nulla. È un attraversamento d’un attimo necessario, per ragioni spirituali, sociali, politiche. È una forma, una possibilità morale dell’essere uomini, di affermare la propria umanità. E dico morale, perché è una forma del vivere in comunità, di gestione del collettivo.

I.G.: Vorresti anticiparci i tuoi progetti teatrali e letterari futuri?

Luca Micheletti: La mia letteratura, come ho detto, dipende dal mio teatro. E in teatro sto preparando un nuovo lavoro per il Teatro Stabile di Brescia: Mephisto, da Klaus Mann. In scena al mio fianco un gruppo di attori capitanato da Federica Fracassi: racconteremo in maniera del tutto inusuale un “altro” Faust, tutto teatrale questa volta, come lo volle il giovane autore che nel 1936 tracciò il ritratto satirico del suo famoso ex-cognato Gustaf Gründgens, attore ineguagliato sulle scene tedesche d’anteguerra ma colluso col nazismo. Più avanti darò vita ad uno studio/riscrittura di Tartufo, capolavoro molièriano sulla cecità, il silenzio e il travestimento, con Antonio Piovanelli: attore “eremita” originalissimo e nativo, per altro, delle mie pianure. Nella seconda parte di stagione, infine, farò un Amleto nella versione Laforgue, d’après C.B. 

Written by Irene Gianeselli


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