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Intervista di Irene Gianeselli all’attore Marco Maccieri

Creato il 20 novembre 2015 da Alessiamocci

Marco Maccieri, nato a Reggio Emilia nel 1977, si diploma nel 2004 come attore presso la Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano. Nel suo percorso professionale in qualità di attore lavora con artisti quali Massimo Navone, Luca Ronconi, Massimo Popolizio, Maurizio Schmidt, Marco Plini, Daniele Abbado, Gabriele Vacis, Antonio Fava, Maria Consagra, Dominique Pitoiset, Anatolij Vasiliev.

Dal 1999 si adopera per diffondere la cultura teatrale e nel 2004 fonda il Centro Teatrale MaMiMò nella città di Reggio Emilia, ove si occupa anche di regia, drammaturgia ed insegnamento, dirigendo spettacoli tra cui “Il mercante di Venezia” di W. Shakespeare, “Homicide House” di E. Aldrovandi e “L’isola del tesoro” da L. Stevenson.

Allievo del maestro Anatolij Vasiliev con cui si diploma come pedagogo nella scuola triennale “Pedagogia della scena” (Premio UBU 2012), è insegnante di recitazione presso la Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano. Dal gennaio 2011 è direttore artistico del Teatro Piccolo Orologio di Reggio Emilia.

Marco Maccieri dirige “Homicide House” di Emanuele Aldrovandi – testo vincitore del premio Tondelli 2013 (BAM – C.T.MaMiMò) – in scena a Milano dal 17 al 22 novembre al Teatro Filodrammatici, a Torino dal 16 al 18 dicembre al Teatro Baretti, a Mantova dal 9 e 10 aprile 2016 allo Spazio Studio Sant’Orsola, a Roma dal 13 al 16 aprile al Teatro Orologio.

I.G.: Com’è cominciato il tuo percorso di formazione presso la Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano? 

Marco Maccieri: Sono entrato in Paolo Grassi non proprio giovanissimo, avevo ventiquattro anni ed era già da anni che tentavo di capire come trasformare la passione del teatro in un mestiere vero e proprio. Avevo frequentato il DAMS, diversi laboratori e seminari, avevo fondato un piccolo centro teatrale nella mia città con amici che nutrivano la mia stessa passione e inseguivano lo stesso sogno, ma nel 2001 eravamo entrati in crisi. Tra le persone a me vicine nessuno credeva che il teatro potesse essere una strada che mi riservasse qualche soddisfazione, e così ricordo che pensai al provino in Grassi come una specie di oracolo: se mi avessero preso avrei continuato a inseguire il mio sogno a tutti i costi, altrimenti avrei scelto pacificamente un’altra strada. Ricordo con gioia la notizia della mia ammissione, il trasferimento a Milano e l’enorme fatica del primo anno di accademia. Mi mancava molto però la mia città, gli amici, gli hobbies; la cosa più difficile da accettare era il fatto che dedicarsi interamente a un’arte come il teatro mi stava togliendo tutto il resto. Addirittura alla fine del primo anno Luciano Mastellari, l’insegnante di dizione, mi chiese di operarmi ai denti per poter continuare il mio percorso scolastico visto che la mia bocca ricordava quella di uno squalo e non pronunciavo correttamente neanche una consonante. Ricordo quell’estate come la più brutta della mia vita, passata a bere succhi di frutta e omogeneizzati perché non riuscivo a masticare nulla. In cambio di tante fatiche però ho avuto tantissimo, ho incontrato non solo grandi maestri, ma soprattutto grandi persone che mi hanno insegnato la poesia, l’etica di lavoro e l’amore per la bellezza, oltre al mestiere. Sono stati anni bellissimi, tra l’altro di recente ho ritrovato un taccuino su cui segnavo insegnante per insegnante tutti gli esercizi che facevamo; sì, ero un secchione, e i miei compagni mi prendevano in giro perché ritenevo fondamentale chiedere all’insegnante a quanto potrebbe corrispondere oggi un rublo de “La signorina contadina” di Puskin per poter recitare! Ma la realtà era che mi sentivo di vivere una favola, tutto era prezioso e io volevo fare scorta per l’inverno, visto che sapevo bene come era il mondo del lavoro fuori dall’accademia. Così ho sfruttato ogni momento, ho cercato di arrivare più in alto possibile nella mia formazione, nella consapevolezza dei miei mezzi, senza risparmiarmi mai, e quando sono uscito mi sentivo pronto per incontrare nuove sfide.

I.G.: Per Paolo Grassi il teatro è un diritto ed un dovere dei cittadini. Un dovere politico, nel senso etimologico del termine; ma oggi, molto più spesso di quanto ci si renda effettivamente conto, il teatro sta ritornando ad essere “gastronomico”. Cos’è per te il teatro?

Marco Maccieri: Prima di tutto è un’arte, e come tale ha delle leggi proprie che vanno rispettate. Non so se ho capito bene cosa significhi il termine gastronomico rispetto al teatro, se prende l’accezione di “popolare” allora sono contento, perché credo che l’arte teatrale debba essere accessibile a tutti, e non intendo comprensibile, intendo proprio accessibile. Questo spesso dipende dall’onestà intellettuale degli artisti, degli interpreti, dalle loro motivazioni. Quando gli artisti sono portatori di senso, di significato, di domande, allora lo spettacolo è “aperto” al pubblico, è denso, è necessario. Può essere quindi un teatro colto e anche popolare. Se invece intendiamo il termine gastronomico come “di intrattenimento”, allora un po’ sono dispiaciuto, perché l’intrattenimento è pericoloso. L’intrattenimento lo vedo un po’ come un sonno in cui – pur divertendoci – la vita scorre via velocemente, e bruciando così il tempo ci avviciniamo velocemente alla nostra data di scadenza; oggi sembra che la noia sia un demone, qualcosa da cui salvarci, ma siamo sicuri che non sia il contrario? Che sotto il mantello della noia non riposi invece sopita la riflessione, il tempo della pace, delle domande profonde? Che a volte non serva incantare il tempo, e in quella sospensione sentire (e non capire) chi siamo? Non mi piacciono tanto gli spettacoli che criticano, che mostrano le brutture della nostra società, credo più in un teatro che ispira, che migliora il mondo in cui viviamo, che lo contamina in positivo attraverso la bellezza. Bisogna riuscire a immaginare una società migliore, persone migliori, bisogna poter fare domande che facciano luce, prima di realizzare alcunché. È buffo, ma agli artisti e agli sciamani è attribuita la capacità di ispirare i popoli, di “avvicinarli agli spiriti”, e alla fine un po’ io ci credo.

I.G.: Ci racconti della tua attività pedagogica presso la Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”? Cosa significa oggi insegnare la teoria e la pratica d’attore?

Marco Maccieri: Insegnare oggi il mestiere dell’attore è molto importante, significa formare gli artisti del domani, quindi significa prendere parte al disegno del futuro panorama culturale. Sento molto la responsabilità di questo ruolo, tra l’altro ho sempre avuto un rapporto strano con i miei maestri, ho sempre cercato di “tradirli”, o forse meglio “tradurli”, farli miei. D’altronde ho avuto la sfortuna/fortuna di essere lasciato molto da solo fin dai dieci anni, mio padre aveva lasciato la mia famiglia e mia madre era costretta a lavorare tutto il giorno, quindi io e mia sorella imparavamo da soli le nostre lezioni sull’orgoglio, l’etica e la morale, osservando i comportamenti dei “grandi” e immaginando continuamente come non compiere gli stessi errori, come migliorare noi stessi e addirittura le future generazioni. Così quando nel 2010 Anatolij Vasiliev propose un bando per formare pedagoghi teatrali io accorsi immediatamente. Il bando recitava: per migliorare il teatro del futuro non servono buoni attori o buoni registi, ma buoni pedagoghi. Quella frase mi risuonò immediatamente nell’intimo, toccava anche il mio senso di responsabilità civile, e così mi iscrissi. Dopo dieci giorni di selezioni si formò un gruppo internazionale di artisti che avrebbero studiato la pedagogia, la regia e la recitazione per tre anni con il maestro Vasiliev. Quando sono rientrato alla Paolo Grassi non più come allievo ma come insegnante l’emozione è stata enorme. La scuola che già tanto mi aveva dato ora mi accoglieva come portatore dei suoi valori e dei suoi insegnamenti. Nella fattispecie insegno tecniche propedeutiche del teatro psicologico, circostanze e conflitto, l’ultimo mese del primo anno e il primo mese del secondo. Da qualche anno faccio parte anche della commissione che seleziona gli ammessi al primo anno e da quest’anno ricopro il ruolo di coordinatore del corso attori.

I.G.: Luca Ronconi ti ha diretto in “Troilo e Cressida” di W. Shakespeare e in “Lo specchio del diavolo” di G. Ruffolo. Quanto influisce oggi nel tuo lavoro l’esperienza con uno dei maestri del teatro italiano? Come ricordi Luca Ronconi?

Marco Maccieri: Ho incontrato Luca Ronconi subito dopo essere uscito dall’accademia, e questo mi ha creato qualche difficoltà nel lavoro iniziale, non avevo ancora fatto amicizia con il teatro di regia, e le immagini di Ronconi erano così grandi e potenti che facevo fatica a interpretarle nella loro interezza. Questo però non mi impediva di continuare a cercare giorno dopo giorno di raggiungere quella complessità che Ronconi ci proponeva, anche se con qualche incomprensione: ricordo ne “Lo specchio del diavolo” che quando mi disse che dovevo ispirarmi ai tipici investitori degli inizi degli Anni ’70 ho dovuto ricordargli che a quell’epoca non ero ancora nato, oppure ne “Troilo e Cressida” il primo giorno di prove “in piedi” improvvisai tutti i movimenti della scena con grande scandalo suo e dei miei colleghi; per fortuna ora è solo un aneddoto divertente. Ci ho messo un po’ ad entrare in quel mondo fatto di amore per la parola, per i significati e a distanza di tempo sono felice ed orgoglioso di averlo conosciuto. Quando in seguito ho incontrato Anatoly Vasiliev avevo maggiore esperienza, ho potuto capitalizzare tutta l’esperienza ronconiana e a quel punto la passione per l’analisi e lo studio delle drammaturgie e dell’azione verbale è maturata completamente. Ricordo l’uomo Luca Ronconi con grande affetto, mi ha insegnato tantissimo e spero di aver “rubato” da lui tutto il possibile, soprattutto il coraggio di credere nei suoi progetti e nelle sue idee.

I.G.: Ci racconti della nascita del progetto che ti ha portato nel 2004 a fondare il Centro Teatrale MaMiMò?

Marco Maccieri: Il progetto MaMiMò nasce per l’esigenza di un gruppo di attori di dedicarsi all’arte teatrale senza preoccuparsi quotidianamente di cosa si farà finito lo spettacolo. Lavorando nei teatri stabili ci eravamo accorti che molto tempo e molte energie degli attori vengono dedicate a cercare nuovi provini, pubblicità, a fare servizi fotografici, show-reel, a proporsi o vendersi insomma come artisti. Noi sentivamo il bisogno di dedicare tutto quel tempo alla creazione, al lavoro di ensemble, di condivisione artistica. Così abbiamo scelto di creare un centro teatrale. Non una compagnia, perché una compagnia ancora sarebbe stata schiava dei movimenti del mercato. Un centro teatrale invece doveva lavorare sul territorio, radicarsi, sentire le esigenze di quel pubblico specifico e poi elaborare forme teatrali per la comunità; fondamentale è stato il lavoro di Maurizio Corradini, presidente e direttore organizzativo del MaMiMò, che si è dedicato – come Paolo Grassi – a rendere concreti i nostri propositi artistici. Tante persone hanno attraversato il nostro progetto e tutte sono state fondamentali, sia coloro che ancora ne fanno parte, sia coloro che hanno preso altre strade. Abbiamo cercato di rendere necessaria l’esistenza di una compagnia nella nostra città e quando il comune di Reggio Emilia ci ha affidato tramite bando il Teatro Piccolo Orologio si è concretizzato anche il sogno di avere una casa per le nostre idee.

I.G.: Robert Sheckley ha scritto attorno agli Anni ’50 il racconto breve “The Seventh Victim”. In questa società futuribile un Ufficio Governativo per la Catarsi Emotiva, al fine di scongiurare conflitti civili e globali, ha legalizzato l’omicidio mediante un gioco collettivo che permette di canalizzare la violenza individuale durante una caccia vera e propria: chi si iscrive al gioco è a seconda dei casi cacciatore o preda. Una gara che si conclude con la morte di uno dei due: il segreto è mantenere le distanze, non venire mai umanamente in contatto con la propria vittima. In “Homicide House” di Emanuele Aldrovandi, di cui curi la regia, «chi vuole torturare, seviziare, uccidere e ha abbastanza soldi per permetterselo, paga una vittima. E chi vuole suicidarsi riesce a capitalizzare la sua morte. Un incontro fra esigenze complementari che finora il mercato non soddisfaceva». Possiamo forse fare un azzardo avvicinando l’intenzione drammaturgica di Aldrovandi e interpretando “Homicide House” come l’evoluzione della società presentata in “The Seventh Victim”?

Marco Maccieri: In parte sì, perché comunque è una società in cui si arriva al paradosso, anche se Robert Sheckley ha immaginato che fosse lo Stato a occuparsi dei fenomeni emotivi e psicologici dei cittadini, mentre Emanuele dipinge un mondo in cui è nel privato che si trovano soluzioni ai bisogni intimi degli uomini. Camicia a pois è un imprenditore – usuraio che decide di arrivare fino in fondo alle possibilità che la speculazione gli fornisce, cioè commerciare la vita, che per noi è un diritto, l’ultimo.

I.G.: Perché hai scelto questo progetto?

Marco Maccieri: Questo testo mi ha molto affascinato fin dalla prima lettura, Emanuele me lo aveva fatto leggere prima di mandarlo al premio Tondelli e ci eravamo confrontati sulle strutture drammaturgiche utilizzate e i temi affrontati. Così quando Homicide House ha vinto il premio di produzione e con grande gioia e sorpresa BAM Teatro, produzione da sempre attenta alla drammaturgia contemporanea, ci ha proposto di coprodurlo non ho avuto dubbi: volevo provare a costruire attorno a quel testo una regia che permettesse di far vivere tutta la linea concettuale e filosofica che accompagna la trama.

I.G.: Come hai deciso di fare muovere attori e spettatori all’interno di un contesto e di una situazione così tesi sia psicologicamente che fisicamente?

Marco Maccieri: Mi sono ispirato a ciò che Pirandello scrive nei “Sei personaggi in cerca d’autore”, cioè che la vita non è verosimile ma folle, e solo i pazzi cercano di rappresentarla come verosimile. Così ho pensato che l’atmosfera della fiaba noir, del fumetto o meglio della graphic novel sarebbe stata giusta per permettere ai nostri personaggi di agire in modo così violento e allo stesso tempo ironico; in un mondo surreale come quello di “Alice nel paese delle meraviglie” avremmo potuto rappresentare personaggi molto caratterizzati, moderni archetipi teatrali, che si scagliano gli uni sugli altri in un’azione, questa sì, che ricorda la verità delle nostre vite. Così la parabola vince sulla storia, il significato dei fatti vince sugli accadimenti e il pubblico, mi auguro, domanda qualcosa a se stesso mentre vede rappresentate persone lontane da sé.
Gli attori (Luca Cattani, Cecilia Di Donato e Valeria Perdonò) sono stati molto generosi nel costruire assieme a me questa parabola, visto che per molto tempo abbiamo lavorato e improvvisato sui temi dello spettacolo, cioè su verità e finzione, amore e passione, conoscenza; su questo piuttosto che sul realismo delle situazioni, e questo di solito dà agli attori un senso di spaesatezza. Siamo ancora alla ricerca, ogni replica cambiamo una piccola cosa, miglioriamo un movimento, precisiamo un’intenzione. È il lavoro che ci piace fare.

I.G.: Progetti futuri?

Marco Maccieri: Abbiamo in cantiere diversi progetti per quest’anno, e tutti usciranno dalla penna di Aldrovandi: il primo è “Jekyll e Hyde”, un’indagine sul male che si ispira al libro di Louis Stevenson, prosegue il lavoro di compagnia che abbiamo fatto su “L’isola del tesoro” e debutterà entro la fine dell’anno nel nostro Piccolo Orologio di Reggio Emilia; il secondo è un esperimento nato dalla mente effervescente di Massimo Navone che prende spunto da “La peste scarlatta” di Jack London e andrà in scena a febbraio sempre al Teatro Piccolo Orologio. Ricreando attraverso il gioco e la suggestione del teatro alcune delle situazioni di maggiore intensità drammatica immaginate da London, gli attori chiederanno al pubblico di prendere posizione rispetto a dinamiche relazionali, comportamenti, reazioni emotive, scelte strategiche, e saranno pronti a sviluppare l’azione in un senso o in un altro in base alle risposte ricevute, sperimentando circostanze ed esiti diversi di serata in serata. Il terzo nasce dalla volontà di supportare le idee e l’identità delle nuove generazioni, così abbiamo deciso di produrre un progetto di Pablo Solari, assistente alla regia in Homicide House, appena diplomato in accademia. Il titolo dello spettacolo è “Scusate se non siamo morti in mare,” che è stato presentato in forma di studio al Premio Scenario e il cui testo è stato finalista all’ultimo Premio Riccione Tondelli (2015): debutterà al Teatro della Cooperativa il 22 febbraio prossimo… gli spettatori milanesi potranno apprezzarlo al Teatro della Cooperativa dal 22 al 28 febbraio prossimo.

Written by Irene Gianeselli

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Sito MaMiMò


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