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Intervista di Irene Gianeselli all’attrice Federica Fracassi: fare teatro è un atto d’amore

Creato il 07 settembre 2015 da Alessiamocci

«Tagliatemi la lingua/Strappatemi i capelli/Mozzatemi gli arti/Ma lasciatemi l’amore/Preferirei aver perduto le gambe/Che mi avessero strappato via i denti/Cavato gli occhi/Piuttosto che aver perduto l’amore.» – Sarah Kane, Psicosi delle 4/48, Einaudi Editore, 2000 – Traduzione di Barbara Nativi

Federica Fracassi è interprete sensibile alle nuove drammaturgie, votata alle scritture più visionarie, feroci, poetiche degli ultimi anni che fin dagli esordi disegna un percorso indipendente nel panorama del teatro di ricerca. Si forma giovanissima alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi e segue il lavoro di Carmelo Bene, Luca Ronconi, Thierry Salmon, Romeo Castellucci, Cesare Ronconi.

Fonda insieme al regista teatrale Renzo Martinelli la compagnia Teatro Aperto, oggi “Teatro i”, che gestisce l’omonimo spazio a Milano, una vera e propria factory del teatro contemporaneo, affiancando nella direzione Martinelli e Francesca Garolla. In teatro ha lavorato, tra gli altri, con Valerio Binasco, Valter Malosti e Antonio Latella e ha ricevuto numerosi premi: Premio Ristori, Premio Olimpici del Teatro, Premio della Critica, Menzione d’onore e Premio Eleonora Duse, Premio Ubu. 

Al cinema esordisce nel 2010 in “Happy Family” di Gabriele Salvatores, seguono tra gli altri, “Bella addormentata”(2012) di Marco Bellocchio e “Un giorno devi andare” di Giorgio Diritti (2012), “Il capitale umano” di Paolo Virzì (2014), “Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino, “La vita oscena di Renato De Maria (2015) e “Sangue del mio sangue” (2015) di Marco Bellocchio che è in concorso alla 72ͣ Mostra del Cinema di Venezia e nelle sale dal 9 settembre 2015.

I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. «Il Teatro è per me come l’acqua per i pesci. Il mio teatro è sempre stato un teatro vivo, con il sipario aperto, oppure un teatro semivivo, con il sipario aperto senza il pubblico, durante la prova, oppure anche un teatro apparentemente morto, senza nessuno in sala: sono stato tanto tempo in sala a gustare il silenzio sublime del teatro. Il Teatro è un modo di amare le cose, il mondo, il nostro prossimo. Io non ho mai amato il teatro come fine a se stesso. Attraverso il teatro io penso tutto il resto: io vedo la politica attraverso il teatro. Ho creduto e ho vissuto per il momento fragile, insostituibile, della comunicazione teatrale» così Paolo Grassi ci parla del suo teatro. Potresti raccontarci gli anni della tua formazione presso la Scuola Civica d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano?

Federica Fracassi: Ho frequentato la Paolo Grassi per tre anni e sono stata bocciata due volte. Non sono un’attrice diplomata, ma posso dire che la scuola sia stata uno dei luoghi principali della mia formazione. Mi ha dato basi tecniche e mi ha permesso di conoscere percorsi eterogenei, di comprendere l’importanza delle affinità in ambito artistico e di crescere attraverso le difficoltà, rifiutando ciò che non mi riguardava e formando il mio gusto. Sono diventata allieva della Paolo Grassi a diciannove anni, giovanissima, con un unico grande pregio, che al tempo stesso si è rivelato anche un ingombrante difetto: ero molto pura, vale a dire molto ignorante. Non sapevo nulla di teatro. Abitavo in provincia con tutto ciò che di esaltante e di mortifero la provincia porta con sé: avevo fatto l’angelo sul carro della processione e qualche recita a scuola. Avevo studiato danza classica fin da piccolissima e mi piaceva l’adrenalina da palco in occasione dei saggi. Amavo la letteratura e la filosofia. Non ho certo superato il provino a causa del mio livello di consapevolezza. Semplicemente s’intravedeva qualcosa oltre la mia pelle diafana e i miei capelli rossi di tragedia: tensione, passione, potenzialità. Ero piccola, ero selvatica. Non addomesticata né forse addomesticabile. Seguivo lezioni di danza, canto, recitazione che si alternavano a incontri con registi e attori che passavano da Milano e che la scuola intercettava organizzando seminari. All’inizio ero piena di lividi: troppo timida mi davo pizzicotti e pugni da sola per obbligarmi ad alzarmi e a offrirmi per lavorare a una scena. Nel frattempo studiavo Filosofia all’Università e qualche sera lavoravo ai miei primi progetti indipendenti con Renzo Martinelli con cui poi avrei avviato una compagnia. Gli allievi avevano un tesserino per vedere gratuitamente gli spettacoli in scena a Milano. Appena potevo ero lì, scegliendo a caso… da Luca Ronconi alla Raffaello Sanzio, da Carmelo Bene a Carlo Cecchi, Danio Manfredini e il Teatro Valdoca, Peter Brook, Bob Wilson, Thierry Salmon… mille prime volte. E poi a casa all’una per qualche film introvabile che Enrico Ghezzi proponeva a Fuori Orario. Dormivo tre ore a notte. Così ho cominciato a formare il mio gusto. Ma, ripeto, ero anche così ignorante da non essere in grado di far fruttare tutto il sapere prezioso che mi veniva elargito. Dopo un primo anno fortunatissimo mi sono bloccata. Assorbivo senza capire dove mettere ciò che mi accadeva, non ero pronta, non apprendevo. Non ero in grado di costruirmi una storia e un’esperienza del teatro personale, “vivibile” e non generica. Non mi conoscevo e quindi non sapevo usarmi. Per questo e altri motivi, che sarebbe troppo lungo elencare, sono stata bocciata una prima volta. Sono poi tornata per un altro anno, su suggerimento dei miei insegnanti che mi spingevano verso la regia. Ho potuto così concludere il mio apprendistato con Kuniaki Ida, un vero maestro. Ormai però il percorso di studi classico a scuola era compromesso ed è arrivata la seconda formale bocciatura. Da quel momento ho costruito un sentiero indipendente con la mia compagnia e con artisti che ho incontrato sul mio cammino. Quei tre anni avevano fatto chiarezza su un punto fondamentale: non sapevo ancora con che ruolo (ci ho messo secoli a sostituire sulla carta d’identità a “teatrante” la dicitura “attrice”), ma io volevo il teatro.

I.G.:  Nel 2011 hai meritato il Premio Ubu come attrice protagonista per “Hilda” e “Incendi” ex aequo con Mariangela Melato. Cosa ha rappresentato per te questo momento e cosa porterai con te di quegli spettacoli? Hai un ricordo in particolare di Mariangela Melato?

Federica Fracassi: Per giorni non sono riuscita a dire a nessuno che avevo vinto. Mi sembrava troppo, avevo paura che non sarebbe più accaduto nulla di significativo nella mia vita. Il 2011 era stato un anno incredibile: mi ero finalmente laureata e avevo vinto in pochi mesi anche il Premio Duse e il Premio della Critica. Avevo raccolto tutto dopo aver aspettato tanto e perso molto… per anni. Era fiorito ciò che avevo faticosamente seminato in precedenza. Non sono nata con in mano tutte le carte giuste per questo mestiere. Ho cercato il teatro contro tutto e tutti. Ho giocato la partita con ostinazione e la sto giocando ancora oggi. Nulla mi è mai capitato. Una solitudine infinita accompagna questa scelta, giorni e notti in cui ci si sente in trincea, con addosso l’energia per una battaglia che non esplode mai, sempre rimandata. E si è lì in un freddo popolato di fantasmi ma deserto, ci si percepisce fuori contesto, sempre troppo presto o troppo tardi per poter davvero incidere in modo significativo, per poter dire qualcosa in tempo, tanto da credere di aver sbagliato strada. I premi ti aiutano a riconoscerti, ti fanno capire all’improvviso che ci sono persone che hai emozionato e che ti apprezzano. Persone per cui sei diventata unica, che hanno osservato in silenzio il tuo percorso, che sanno che quell’attrice sei tu e nessun’altra. E io ho sempre desiderato essere personale. Come una rockstar. Un’interprete che si riconosca per la sua voce. Il premio Ubu mi ha dato molta forza. E anche la consapevolezza che ogni strada può essere la strada, perché io sono arrivata lì senza tradizione, senza familiari, senza benedizioni, senza maestri, senza essere chiamata dal grande regista per fare Giulietta a sedici anni. Non sono entrata mai dalla porta principale. Ho costruito un percorso professionale e artistico indipendente. Vincere l’Ubu con due spettacoli che avevo fortemente voluto, scritti da due grandi autori contemporanei come Wajdi Mouawad e Marie NDiaye, prodotti con sforzi immensi dalla mia piccola compagnia “Teatro i” e firmati da Renzo Martinelli è stata una vittoria non solo mia, il riconoscimento di una vita, il segno tangibile di una possibilità per altri. Mariangela Melato non sapeva chi fossi e credo si sia anche legittimamente infastidita di dover condividere un premio, lei che era la Melato. Io tremavo. Mi ha preso la mano accorgendosi che altrimenti non sarei riuscita a salire i gradini per raggiungere il palco. Ci hanno fatto una domanda imbarazzante: «Chi è la più brava tra voi visto che avete vinto alla pari?» e lei ha incenerito il presentatore con un garbato sarcasmo. Io le ho confessato che adoravo la scena dove fa i capricci per una pelliccia nel film di Elio Petri “La classe operaia va in paradiso”, ma avrei potuto citare ovviamente mille altre immagini di quell’attrice meravigliosa, una su tutte la sua Olimpia nell’Orlando Furioso di Luca Ronconi. Poi ci hanno scattato una foto, ma il fotografo era agitato e la foto è mossa. Di quella sera ho una foto mossa con le nostre due ombre. Sapevo che era malata, ma era bellissima. Non l’ho più incontrata.

I.G.: Viviamo tempi complessi e piuttosto feroci, cadere nel cinismo è facile, tanto più che a volte si viene maggiormente apprezzati se si disprezza la vita, perciò fare Teatro in un simile momento è una scelta coraggiosa, di resistenza. Nel 2002 per la scrittura del testo teatrale “Sinfonia per corpi soli. Omaggio a Sarah Kane” hai condiviso con Barbara Nativi e Pierpaolo Sepe il Premio Ubu come “Migliore novità straniera” relativo a “4.48 Psychosis” e “Crave”. In Sarah Kane c’è il rifiuto della vita quando ammette «Questo non è un mondo in cui ho voglia di vivere», ma poiché poco prima scrive «Alle 4 e 48/Quando la disperazione mi fa visita/Mi impiccherò/Al suono del respiro del mio amante» intuiamo che morire non significa rinunciare all’amore, anzi, è fare dell’amore il mezzo per raggiungere un distacco dal mondo che ha perduto il suo incanto, la sua grazia e sa solo giocare ad essere crudele. Sarah Kane, di fatto, non può mai davvero morire: lo si voglia o no il suo Teatro è vivissimo ed a portata di chiunque vi si voglia accostare. È questo desiderio di un amore “diverso” che ti ha fatto scegliere di vivere il Teatro?

Federica Fracassi: Sarah Kane ha reso opera d’arte il suo testamento e il suo suicidio. Credo che nessuno di noi vivi possa comprendere fino in fondo la sua disperazione e nemmeno “4.48 Psychosis”, il testo che ci ha consegnato il suo gesto. L’arte però quando è tale ci sopravvive, qualsiasi sia stata la nostra morte o la nostra vita, cancellandone la pochezza o gli attimi di gloria. I testi di Sarah Kane sono già classici, oltre la biografia. Questa ragazza in un tempo brevissimo ha disegnato una parabola artistica lucida e coerente, andando di opera in opera anche formalmente verso la dissoluzione del verbo. E questo è il suo atto d’amore, il suo dono, lì da vedere, da interpretare, da portare in scena. Per tutti. Nell’atto di creazione avviene una trasmutazione che porta dal particolare all’universale. Un atto d’amore che dà vita a qualcosa di più ampio. Possiamo dire che si tratti di un amore diverso? Ogni vita dedicata all’arte sceglie di immolarsi per un amore più alto o è forse scelta da un amore più alto, diverso. Mi vengono in mente queste parole di Alda Merini: «Se l’arte è dura sostanza percorrila in silenzio, non troverai nessun uomo in fondo ad aspettarti, né troverai l’ulivo della tua pace migliore. Se l’arte è profonda come tua madre ascoltala in silenzio: è lì che si muore». Per me il teatro è il modo per attraversare la vita, per amarla. Per tornare alle parole di Paolo Grassi: è come l’acqua per i pesci. Se l’acqua non c’è, boccheggio… il palcoscenico, gli attori, i costumi… sono magneti che mi attirano, mi attirano fuori dalla mia timidezza, dai miei limiti, danno casa alle mie fantasie, alle mie ossessioni, le rendono più vere del vero con il massimo della finzione. Non so se si tratti di una scelta di vita coraggiosa o piuttosto necessaria. Prima ho parlato di attesa in trincea. Sento però quella sospensione come uno stallo a cui gli artisti vengono costretti nel nostro paese da un contesto culturale e produttivo che, a parte rare e illuminate eccezioni, è sempre più impaurito e impoverito, incapace di gestire il mutamento e le crisi. Invece di rilanciare dando linfa e fiducia alle forze in campo, per la maggior parte si arretra: meno spazio alla critica nelle testate principali, poco meticciato tra attori di livello che provengono da percorsi diversi, poche possibilità per i registi di qualità di affrontare i grandi palchi, di lavorare a progetti di lungo termine e di ampio respiro, sfruttamento a prescindere dei grandi nomi per far numero, regolamenti tesi alla quantità e totalmente miopi rispetto alla tradizione teatrale del nostro paese, rischio di cancellazione delle compagnie, delle realtà più piccole, confusione sui concetti di stile, di gusto, di popolare, di contemporaneo, di classico, spettatori sempre meno educati alla visione… e potrei continuare… non mi piace pensare al teatro in termini di resistenza. Mi pare triste. Mi sembra che il teatro sia piuttosto una delle poche possibilità di attaccare, di mordere la vita, di scegliere una via magari impervia, ma che s’impone per la sua diversità e per questo può trascinare. Non è sano rinchiudersi nelle retrovie in attesa di tempi migliori. Per questo anche non m’interessa il buon esecutore né in teatro né nelle altre arti, la presenza virtuosa, ma tiepida. Credo che si debba inseguire la perfezione con costanza e abnegazione, ma la passione, le fragilità, gli inciampi hanno un valore immenso. Bisogna vibrare insieme agli spettatori, fare l’amore, provocare orgasmi nella testa e nel cuore, stare nel pericolo, battagliare… altrimenti non serve a nulla fare teatro. Non serve a nulla vivere.

 

I.G.: Cosa significa essere donna di teatro per te?

Federica Fracassi: È una domanda molto urticante per me in questo momento. Provo a rispondere con mie parole organizzate in un’altra forma: «La mia privazione è di dominio pubblico/decido io che lo sia/fingendomi lì sfacciatamente con le gambe aperte e pubbliche/fingendomi continuamente con la bava alla bocca tra voi e per voi/puttana delle vostre Repubbliche/lì per il Paese, lì per lo Stato, lì per il Futuro, lì per il Bene Comune, lì per l’Arte e il Teatro, lì per la Costituzione, lì intelligente per le armi intelligenti, lì femmina vuota che fa pendant col vuoto, lì sazia di memoria per il Museo di Storia,/dama italiana di dominio pubblico/Con il belletto mi fingo/E mi sottraggo al dominio/E mi sottraggo al pubblico/E trucco il segreto solo mio, quello che di me si disarticola, quello non afferri né arrivi a immaginare. Quello che sfugge il Potere, che non puoi addomesticare/Mi pronuncio nell’enigma/Privata nel corpo,/privata nella parola,/privata/con l’acqua alla gola»

I.G.: La trilogia “Innamorate dello spavento” è un progetto di “Teatro i”. L’autore è Massimo Sgorbani che ricostruisce e ci presenta le donne legate al Führer proprio quando stanno vivendo la irresistibile fine del Reich. La regia è di Renzo Martinelli. Ancora donne, ancora amore. Come hai avvertito l’esperienza di questi personaggi che si innamorano della “banalità del male” e che da questa banalità sono assorbite?

Federica Fracassi: Massimo Sgorbani ha scritto un progetto molto organico tematicamente, una macchina linguisticamente perfetta che colpisce però per l’autonomia delle voci delle tre donne descritte. Strutturalmente si potrebbero addirittura sovrapporre i tre testi, ci sono appuntamenti drammaturgici in cui le tre “innamorate” si studiano, reagiscono l’una all’altra, si guardano. Ma l’attitudine di ognuna è molto specifica e infatti ne sono nati tre differenti spettacoli anche se a firma dello stesso regista e con la stessa attrice protagonista. La prima femmina è Blondi, il pastore tedesco del Führer, una cagna devota al padrone, esposta senza averne coscienza al sacrificio e allo strazio. Lei non può avere che un punto di vista candido e innamorato nei confronti di chi la nutre, la accarezza e a volte la punisce. Blondi si consegna al male con fiducia e senza possibilità di intenderlo. L’orrore del suo sacrificio inconsapevole commuove il pubblico, che invece sa chi sia davvero il padrone. Eva Braun è la donna romantica, che sa che uomo ha scelto, ma rifiuta di vedere, che attende l’amore che non arriva mai, che recita per se stessa convincendosi di essere felice. Sceglie di essere vittima di una spirale illusoria in cui molte donne ancora oggi si avvolgono. Magda Goebbels conduce il gioco, guidata da una lucida follia. La sua identificazione con l’ideologia le toglie qualsiasi possibilità di sfumatura, la rende un burattino infernale che muove e che è mosso, che non può ritrarsi dalla violenza in nessun modo e che dunque collabora consapevolmente al male. La trilogia “Innamorate dello spavento” è l’ultimo dei tanti progetti di “Teatro i”.  Dopo avere lavorato alle nostre produzioni per anni senza una sede stabile, io e Renzo Martinelli (insieme alla drammaturga Francesca Garolla) abbiamo sistemato una sala da cento posti che vanta oggi undici anni di attività ed è diventata un importante riferimento “off” a Milano e in tutta Italia. Con “Teatro i” abbiamo dato vita ai nostri spettacoli più importanti: “Prima della Pensione di Thomas Bernhard, “Lotta di negro e cani ” di B.M.Koltès,“ Incendi ” di W.Mouawad. Al momento è in essere il progetto “Città Balena ” con spettacoli dislocati nel quartiere; Renzo Martinelli sta lavorando ad un testo di Francesca Garolla Non correre Amleto con Elena Ghiaurov e Milutin Dapcevic. “Teatro i” è un vero e proprio cantiere del contemporaneo che ha intercettato in questi anni il lavoro di compagnie italiane e internazionali, mescolando felicemente i linguaggi e le generazioni artistiche in un dialogo sempre fecondo. Milano ormai è la città del teatro e le possibilità di mostrare il proprio lavoro si sono moltiplicate, per questo “Teatro i” è in continuo mutamento. Auspico una convivenza e una collaborazione più intense tra piccoli e grandi teatri per rendere questa città sempre più ricca di proposte.

I.G.: Davide Iodice nelle sue note di regia per “Euridice e Orfeo”, spettacolo che recentemente ti ha vista protagonista e che riprenderai nel prossimo febbraio, scrive «Voglio lasciare la parola alla Parola. Qui dico allora solo del canto di Orfeo che è questione simbolica ed estetica insieme. Mi sono chiesto: come rendere quel canto, così commovente da ammansire le bestie, così commovente da spalancare le porte degli inferi? Nessuna voce può, mi sono detto. Poi, ascoltando il suono-senso delle parole nella voce viva degli attori, ho inteso che tutta la bellissima prosa-poetica del testo fosse quel canto, insieme di Euridice e Orfeo, e allora abbiamo cominciato a lavorare ad un unico flusso sonoro, un concertato o un corale, se vogliamo, che tentasse di restituire alla Parola il suo potere ipnotico, evocativo: la sua emozione. Per il resto, questa è una dichiarazione d’amore». Parliamo di teatro e parliamo ancora una volta d’amore.

Federica Fracassi: Di questo progetto mi ha colpito profondamente la strada che Valeria Parrella ha voluto percorrere nella riscrittura del mito, che è sì una strada d’amore. Il gesto su cui s’incentra lo spettacolo è quel voltarsi di Orfeo, che ha avuto nei secoli molteplici letture. Nel nostro spettacolo è Euridice che costringe Orfeo a voltarsi per guardarla morta, in un atto d’amore supremo che convince l’amato al distacco definitivo per potergli permettere, preso atto dell’assenza, di continuare a vivere e ad amare. È un canto, come giustamente dice Iodice, un lamento lirico e struggente.

I.G.: Il prossimo tre novembre la stagione teatrale del Teatro Stabile di Brescia sarà aperta dallo spettacolo “Mephisto – Ritratto d’artista come angelo caduto” che ti vedrà protagonista al fianco di Luca Micheletti che ne cura la drammaturgia e la regia. Lo spettacolo è tratto dalle opere di Klaus Mann e Franz Wedekind. Cosa puoi anticiparci di questa messinscena?  Possiamo aspettarci una “Parabelstück” sotto l’ottima influenza di Brecht con qualche riferimento musicale lisztiano (o wagneriano)?

Federica Fracassi: Mephisto è una riflessione sull’ambizione dell’attore che si crede di razza eletta e maledetta, dio della finzione che per questo s’illude di essere libero da ogni vincolo etico, che vede le sue azioni o la sua inazione come pure e scevre da qualsiasi possibile conseguenza sul destino proprio e altrui. Klaus Mann, tramite il romanzo da cui il nostro spettacolo prende spunto, critica aspramente la vita del cognato Gustaf Gründgens, che fu attore di fama ma colluso col Nazismo. Il circo grottesco che vedrete in Mephisto porta questa parabola al parossismo. Tutti i protagonisti in scena sono ossessionati dall’ambizione, dal sogno del volo, chi a causa di eccessivo amore per l’ideologia, chi per il potere, chi per l’arte, chi per l’altro, chi per se stesso. Mephisto credo sia anche la storia di una grande illusione, di un enorme nefasto abbaglio innanzitutto storico. L’illusione, che fu del Nazismo, che si possa cancellare l’altro, che ci si possa mettere al riparo epurando ciò che non riusciamo a comprendere e che è ostacolo al nostro potere. E l’illusione, spesso radicata nell’animo umano, che si possa dominare ciò che siamo, attraversando l’esistenza senza vedere e sentire, senza entrare in relazione con le forze più oscure, evitando di prendere posizione, silenziando ciò che esce dal nostro controllo illusoriamente puliti e purificati. I riferimenti drammaturgici di questo lavoro sono molteplici. Il Faust di Goethe innanzitutto, ma anche Wedekind, Schnitzler. C’è una matrice brechtiana che sottende l’opera, sia perché Brecht è un riferimento formale fortissimo nel percorso di Luca Micheletti sia perché Klaus Mann ambienta la sua narrazione in quell’epoca. Pensando alla complessa attitudine teatrale di Micheletti, che definire tesa all’opera d’arte totale mi pare eufemistico, mi aspetto di essere triturata da una macchina infernale atletico-ritmica-visiva: Wort-Ton-Drama!!!

I.G.: La scelta di mettere in scena “Mephisto” non è certamente casuale: nel romanzo di Klaus Mann il personaggio – ambiguo nel senso etimologico dl termine – dell’attore Hendrik Höfgen viene fortemente redarguito da Amleto stesso che si ribella e si rifiuta di lasciarsi interpretare e le parole di Amleto sono assolutamente rivelatrici: «Tu non sei Amleto. Non possiedi la nobiltà che si conquista solo con il dolore e la conoscenza. Non hai mai sofferto abbastanza, e quello che hai conosciuto non aveva per te più valore di un bel titolo o di una paga consistente. Non sei nobile perché sei una scimmia del potere, un giullare per lo svago degli assassini».  La scelta di mettere in scena questo “Mephisto” intende avviare un dialogo con il pubblico per indurlo a riflettere sullo sviluppo di un programma culturale che possa farci riscoprire che la democrazia è ancora possibile?

Federica Fracassi: Penso che il teatro s’imponga per la forza della domanda che rivolge all’essere umano portandolo a riflettere politicamente anche sul suo ruolo di cittadino. Ciò detto non credo che questo possa accadere utilizzando un linguaggio politico né tanto meno le armi della politica, del dibattito. Il teatro è altro, arriva alle coscienze con altre strade. L’arte scuote con l’arte, pone di fronte a immagini, enigmi, simboli da interpretare. Non credo che questo spettacolo voglia avviare una discussione con il pubblico in senso canonico. Questo spettacolo ha l’intenzione di darsi, anche nel massimo della finzione. Saremo bravi se riusciremo a essere così chirurgici nella nostra proposta da non lasciare dubbi su ciò che abbiamo voluto mostrare, rappresentare. Non intendiamo suggerire una morale, una condotta. Sul nostro ampio e dettagliatissimo tavolo anatomico ci sarà certo un settore dedicato alla tiepidezza, che è la caratteristica dell’uomo Höfgen, la temperatura della sua incapacità di prendere posizione. E ci sarà un settore dedicato alla sete di potere. E uno in cui starà accucciata la democrazia che si è rivelata il minore dei mali, anche se non gode certo di ottima salute.

I.G.: “Sangue del mio sangue”  di Marco Bellocchio è in concorso alla 72ͣ Mostra del Cinema di Venezia. Con il regista avevi già dato un’intensa interpretazione in “Bella addormentata” e in “Pagliacci”. Cosa puoi anticiparci su questo nuovo progetto e del tuo personaggio?

Federica Fracassi: Marco Bellocchio è un maestro visionario, folle e ironico, uno dei più grandi registi contemporanei del cinema internazionale e uno di quegli incontri che considero miracolosi nel mio percorso umano e artistico. Non avrei mai immaginato che il mio sogno di lavorare con lui si sarebbe realizzato un giorno in modo così fertile e felice. Grazie a Stefania De Santis, casting e acting coach per molti film di Marco, che seguiva da tempo il mio lavoro in teatro e che ha voluto farci incontrare, è nata la collaborazione per “Bella addormentata”. Il mio ruolo era piccolo, ma molto intenso per l’immagine che lui voleva costruire e per il peso che le mie scene avevano nella trama. Sono nate fra noi sincera stima e amicizia ed è cresciuto il desiderio di lavorare ancora insieme su progetti futuri. Marco mi ha chiamata l’anno seguente, in occasione di Fare Cinema, come coprotagonista del cortometraggio “Pagliacci” e poi ha pensato a me per una della sorelle Perletti (l’altra è interpretata da Alba Rohrwacher) per “Sangue del mio sangue”Come parecchi dei suoi progetti realizzati a Bobbio anche “Sangue del mio sangue” è un progetto intimo, parte da sollecitazioni famigliari, da fantasmi interiori, da paesaggi reinventati dal passato. Il film parla di Federico, un giovane uomo d’armi, che viene sedotto come il suo gemello prete da suor Benedetta che verrà condannata ad essere murata viva nelle antiche prigioni di Bobbio. Nello stesso luogo, secoli dopo, tornerà un altro Federico, sedicente ispettore ministeriale, che scoprirà che l’edificio è ancora abitato da un misterioso Conte, che vive solo di notte. È una riflessione su un paese che ha perso parte della sua identità, abitato da personaggi misteriosi, inquietanti, vincitori e vinti, laici e religiosi. Io e Alba interpretiamo due sorelle zitelle, nobildonne di paese, che accolgono Federico (Pier Giorgio Bellocchio) ospite nella loro casa durante la sua permanenza a Bobbio, così come usavano fare con il fratello prete. Abbiamo lavorato su piccole sfumature: stupori, turbamenti, attenzioni, smarrimenti di queste donne sole e recluse che si relazionano a un uomo di mondo senza averne gli strumenti. Ho avuto l’occasione di lavorare in costume, cercando una diversa attitudine espressiva rispetto al quotidiano contemporaneo e di creare un duo simbiotico con Alba, indagando la possibilità di un respiro comune. E poi, ovviamente, sono stata diretta da Marco in un’occasione più ampia e importante, approfondendo la nostra conoscenza sul set. Un’esperienza che ha arricchito il mio sguardo sul cinema, di grandissima rilevanza per il mio percorso.

I.G.: Cinema e teatro. Quali sono le peculiarità che hai riscontrato in queste due differenti dimensioni?

Federica Fracassi: Amo entrambi. Il teatro è la mia storia. Lo conosco, lo abito, spesso a partire dalla fase di progettazione di uno spettacolo. Il teatro è ricerca costante, è presenza a se stessi e allo spettatore e come la vita, ha la sua forma elettiva in un continuo mutamento. Il teatro mi chiede di stare allerta, di non affezionarmi, di attraversarlo senza gravami e orpelli, di essere pronta a dimenticarmi di ciò che penso di sapere, di preferire, di amare o di possedere. Mi chiede un controllo nella dimenticanza, una conoscenza maniacale dei mezzi con cui devo giocare e al contempo un oblio di me stessa che mi permetta di poterci essere con una presenza triplicata, di essere ancora più io. In teatro sono una maratoneta, che corre uno sviluppo temporale inarrestabile da a a z. La mia maestria è tale se arrivo in scena allenata per reggere l’intero percorso, per viverlo consapevolmente facendomi stupire dagli inciampi, non subendoli. È un lavoro raffinato, di cesello a cui non possono mancare però attimi di presenza barbara e violenta, una consapevolezza d’insieme, un controllo, una finzione alleati all’errore, alla sporcatura. Il cinema è montaggio e non si sa mai quanto di ciò che l’attore ha fatto entrerà nell’opera. Un film, una volta montato, è consegnato allo spettatore per sempre. Non è compito dell’attore il risultato d’insieme. Proprio per questo recitare davanti alla macchina da presa è ancora più delicato. L’occhio della camera ruba l’anima dell’attore, il suo primo piano, lo sguardo, i dettagli, i piani d’ascolto, i suoi silenzi. Anche il cinema chiede massima presenza. Per me è ininfluente il fatto che una scena si possa rigirare se l’attore non era concentrato. È meglio che non accada. Non si può carburare, partire male e poi riprendersi. Già dal tuffo è tutto chiaro: il gioco di pochi istanti da vivere al massimo. Dal ciak allo stop. In questo tipo di lavoro bisogna allenare l’interiorità e farla diventare elastica e gigante e al contempo tenere le redini del proprio corpo, essere in grado di domare anche un battito di ciglia. Si tratta di misura, di sottrazione, di non fare niente sapendo fare tutto. Agire nelle due sfere, teatrale e cinematografica, mi dà nutrimento. Un’attitudine attinge dall’altra e all’altra dona. Non tutti gli attori possono passare dal cinema al teatro e viceversa. È una questione di physique du rôle. Ma credo che nel nostro Paese, per chi ha le doti giuste, dovrebbero esserci più possibilità di lavorare in entrambi gli ambiti, una maggiore attenzione alle potenzialità di questa osmosi. Spero di avere ancora tante opportunità per viverli entrambi con qualità.

Written by Irene Gianeselli

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