«Credo che la politica non sia la cosa più importante del mondo, anche se siamo tutti sue vittime. Ma un autobus può travolgermi oggi pomeriggio, e io posso morire così, non per questo però l’autobus è la cosa più importante» – Marguerite Yourcenar
Francesca Garolla, dramaturg, frequenta la facoltà di Filosofia all’Università degli studi di Milano e si diploma in regia all’Accademia d’arte drammatica Paolo Grassi. Alla fine del 2004 inizia la collaborazione con “Teatro i” e dal gennaio 2005 entra a pieno titolo nello staff del teatro partecipando alle principali produzioni della Compagnia come dramaturg, diventando parte integrante della direzione artistica e socia del teatro. Oltre ai progetti realizzati con la regia di Renzo Martinelli, che l’hanno vista coinvolta come dramaturg, aiuto regia o interprete, ha firmato la regia e l’adattamento drammaturgico di “Elettra. Quel che rimane” da “Elettra” di M. Yourcenar (2006) e di “Non dirlo a nessuno”, liberamente tratto dal radiodramma di Ingeborg Bachmann “Il Buon Dio di Manhattan” (2008).
Nel 2010 è autrice di “N.N.” (Nomen Nescio), in scena a “Teatro i” sempre per la regia di Renzo Martinelli, un testo che affronta le difficoltà insite nel passaggio generazionale tra padri e figli; nel 2014“N.N.” viene selezionato e tradotto all’interno del progetto “Face à face – Parole di Francia per scene d’Italia”, quindi presentato in tre teatri francesi: Le Théâtre Scène Nationale de Saint-Nazaire Festival Ring, La Manufacture – Centre Dramatique National Nancy-Lorraine, Théâtre National Populaire de Villeurbanne La Colline. Nel 2013 scrive e mette in scena, ancora con la regia di Martinelli, “Solo di me – Se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea”, una rivisitazione della tragedia greca che affronta il tema della femminilità legato a quello del sacrificio. Il testo verrà tradotto e distribuito nella Repubblica Ceca e presentato a cura de La Chartreuse all’interno del Festival d’Avignon 2015.
Dal 23 settembre al 19 ottobre 2015 presenterà al pubblico il suo ultimo testo “Non correre Amleto”, per la regia di Renzo Martinelli e l’interpretazione di Elena Ghiaurov e Milutin Dapcevic.
I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. Prima di approfondire alcune delle tue opere ed il loro intrinseco e coerente rapporto, vorrei partire con te dal ruolo che assumi nell’atto teatrale: sei tu a “comporre il dramma”. Come svolgi questo ruolo?
Francesca Garolla: Io compongo il testo, mentre il dramma nasce sulla scena. Il testo, per me, nasce da un suono. E da un tema. Un’urgenza che è inevitabilmente mia ma che provo a rendere comune, che provo a collegare con qualcosa che non riguarda più, nello specifico, solo noi, ma viene da lontano, dal tempo in cui noi non eravamo, dal tempo degli archetipi e dei miti, da quella classicità che, anche se non abbiamo incontrato o studiato, ci determina, ci rende come siamo oggi, ci condiziona e, in parte, ci rende liberi dalla nostra contemporaneità. Ho da sempre, soprattutto, una predilezione per la parola, il suo senso, che diventa ritmo, tempo, musicalità e poi, solo poi, si incarna in una azione. Per questo amo lavorare con un regista che “drammatizzi” la mia parola, in apparenza priva di quella azione drammatica che rende un testo davvero teatrale, e credo che per confrontarsi con la mia scrittura sia necessario averne fiducia, come ne hanno Renzo Martinelli e, in particolare, Elena Ghiaurov e Milutin Dapcevic che proprio in questi giorni sono alle prese con il mio “Non correre Amleto”.
I.G.: Il 21 luglio scorso il tuo “Solo di me. Se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea – Pour moi-même. Si je n’avais pas été Iphigénie je serais Alceste ou Médée” è stato presentato al Festival D’Avignon 2015 nell’ambito delle giornate “Face à Face – Parole d’Italia per scene di Francia” a cura del centro di drammaturgia “La Chartreuse”. Nel tuo testo le tre figure archetipiche di Alcesti, Medea ed Ifigenia sono anatomicamente e razionalmente messe a nudo. Qui, come in “Non correre Amleto” di cui parleremo tra poco, affronti il tema della morte. Puoi parlarci di “Solo di me”, del tuo rapporto con il regista Renzo Martinelli e con le interpreti Anna Della Rosa, Paola Tintinelli e Anahì Traversi?
Francesca Garolla: “Solo di me” affronta soprattutto il tema della realizzazione, il desiderio di corrispondere il più possibile all’idea che noi abbiamo, e che gli altri hanno, di noi stessi. Un tema che mi sembra significativo, in modo particolare, per le donne. Tutti siamo liberi, io sono una donna e sono libera, eppure, quotidianamente, qualcuno o qualcosa mi avverte: fai quello che vuoi, ma fai la cosa giusta. E qual è la cosa giusta? La mia impressione è che si perda troppo tempo nel cercarla e che si viva nell’illusione di averla trovata, per poi scoprirsi, inevitabilmente, disarmati di fronte all’errore. Le tre figure mitiche a cui mi ispiro, Alcesti, Medea, Ifigenia, non cercano altro che un modo per uscire da questo ricatto: si sacrificano nel tentativo di essere veramente se stesse. E così Alcesti diventa una santa, che si sacrifica per il marito, Ifigenia una eroina, che rinuncia alla sua vita per il bene del padre e della patria, e Medea una dea che, in quanto tale, può decidere della vita e della morte. Dal sacrificio nasce la possibilità di essere al di là di un ruolo: moglie di, figlia di, madre di. Ma è davvero così? Questa è la domanda alla base di “Solo di me” e credo che Renzo Martinelli, il regista, abbia saputo avvicinarsi a questa domanda con cautela, senza pregiudizio, cercando, dentro la rabbia e l’insofferenza, che comunque questo testo trasmette, l’ironia e la leggerezza di un’altra possibilità. Le interpreti hanno ascoltato il testo, hanno aderito profondamente alla linea registica, si sono affidate al lavoro con estrema generosità e da questo è potuto nascere uno spettacolo che ha travalicato le mie parole.
I.G.: Non è certo casuale che nel 2006 tu abbia curato la drammaturgia e regia di “Elettra. Quel che rimane” tratto da “Elettra o La caduta delle Maschere” di Marguerite Yourcenar in cui Elettra realizza la propria vendetta perché è lei a compiere il matricidio. C’è una forte tensione nelle tue scelte drammaturgiche nel momento in cui la riflessione si sposta sui vincoli di sangue: pare ci sia una ereditarietà dei destini, una predestinazione ed allo stesso tempo “cadono le maschere” e, come nel titolo dello spettacolo di cui parlavamo poco fa, “siamo solo di noi”.
Francesca Garolla: Il tema dell’eredità è alla base dei miei tre testi. Che cosa passa da una generazione a un’altra? Da un mito a noi? Che cosa ci viene trasmesso al di là della nostra volontà e che cosa invece scegliamo di mantenere? Il testo della Yourcenair, che tra l’altro è stato il mio saggio di diploma all’Accademia d’Arte drammatica Paolo Grassi e il primo lavoro che ho realizzato a “Teatro i”, dove lavoro dal 2005, parla esattamente di questo. “Quel che rimane” è stato il sottotitolo che ho deciso di dare alla mia riscrittura ed è qualcosa che rispecchia perfettamente l’origine della mia ricerca: quanto di noi arriva da un passato, prossimo o lontano, e quanto ne siamo condizionati? Quanto siamo solo di noi?
I.G.: “N.N. Figli di nessuno – Nomen Nescio” (interpreti Giovanni Battaglia e Matteo de Mojana) è il primo atto del trittico completato da “Solo di me. Se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea” e “Non correre Amleto” sempre per la regia di Renzo Martinelli, in residenza permanente presso “Teatro i” di Milano. “Nomen Nescio” è uno studio sui rapporti generazionali, sui padri e sui figli e su quanto le colpe e gli atti e le parole dei primi possano influenzare i secondi. Puoi parlarci del percorso attraverso questi tre atti?
Francesca Garolla: Tutti i testi sono nati all’interno del mio percorso a “Teatro i”, dove lavoro ormai da dieci anni insieme a Renzo Martinelli e a Federica Fracassi, tutti hanno goduto dello sforzo produttivo e della cura di questo luogo. Tutti affrontano lo stesso tema: il tentativo, più o meno possibile o compiuto, di incontrare l’altro da sé, di conoscerlo, di attraversarlo. C’è una citazione di Thomas Bernhard che mi piace moltissimo:«È sempre il colloquio con mio fratello, colloquio che non c’è,/ è il colloquio con mia madre, che non c’è./ È il colloquio con mio padre, che non c’è./È il colloquio con il passato, colloquio che non c’è,/e passato che non c’è più, e che non ci sarà mai». “N.N.” parla del rapporto tra padri e figli della mia generazione: genitori che hanno distrutto un sistema di regole, quello antecedente agli Anni Settanta e al Sessantotto, lasciando ai propri figli un compito molto difficile. Come si può diventare adulti in una società in cui non esiste un sistema di regole contro cui realmente ribellarsi? Come è possibile uccidere genitori che forse non sono mai stati realmente tali? “Solo di me” racconta di un impossibile dialogo tra ciò che la storia ci tramanda e ciò che realmente siamo. Di un incontro tra femminilità differenti che, nel tentativo di essere se stesse, rifiutano la loro relazione col mondo e, facendolo, ne diventano vittime. “Non correre Amleto”, invece, si interroga sul presente: cosa sappiamo dell’altro che ci accompagna? Che condivide con noi il tempo? Solo la nostra storia, probabilmente, solo quello che vogliamo sapere.
I.G.: Nel trittico si passa attraverso tre nodi cruciali: il primo nodo è il coraggio di affrontare il mutamento, il secondo è l’autonomia nella scelta rispetto al sacrificio, il terzo è la consapevolezza del crollo di qualsiasi paradigma o assioma logico di fronte alla morte. La matrice è sempre la necessità di confrontarsi con gli altri. Potremmo dire che il tuo fare teatro sia per una anatomia del rapporto tra l’Io e ciò che l’Io stesso è diventato o diventerà per una ragione o per un’altra?
Francesca Garolla: I tre testi e i tre spettacoli nascono in tempi differenti, indagano universi e personaggi differenti, si rifanno ad immaginari differenti. Eppure il filo rosso che li accomuna è per me inequivocabile e presente, è la ricerca di un dialogo, la ricerca di un impossibile discorso o colloquio con l’altro da sé, che, spesso, è più dentro di noi che fuori. Tutti i miei personaggi potrebbero essere uno solo: il padre e il figlio di “N.N.”, come le tre femminilità, così apparentemente distanti, di “Solo di me”, come l’uomo e la donna di “Non correre Amleto”. Figure monologanti che non riescono a prescindere dal loro interlocutore, per quanto morto, per quanto assente.
I.G.: “Non correre Amleto” sarà in scena al “Teatro i” di Milano dal 23 settembre con Milutin Dapcevic e Elena Ghiaurov. In questo testo la Morte perde il suo senso immediato: tutti sono destinati a morire, ma tutto dipende da come e perché si muore. È questa una riflessione su come l’uomo di oggi tenta di accettare la propria morte oggettivandola, spersonalizzando persino il dolore?
Francesca Garolla: Il testo prende spunto da un fatto realmente accaduto. Il 29 maggio 1993 un convoglio di aiuti umanitari diretto alle città di Vitez e Zavidovići – Ex Jougoslavia, Bosnia Erzegovna – viene assalito da una banda militare nei pressi di Gornji Vakuf, in Bosnia centrale. Tre persone vengono uccise, mentre due riescono a fuggire scappando nei boschi. Vittime della guerra, della vita, o della sfortuna? Una morte stupida, da stupidi, incoscienti in una zona di guerra, gente che scappa per paura e invece avrebbe dovuto rimanere ferma, essere più saggia. Ma è poi vero? Era vero? Che ne è stato della morte eroica che cantano gli antichi? Che cosa significa dare un senso al lutto? In che modo una morte ci appare più significativa, per non dire giusta o accettabile, di un’altra? Uno dei morti, era il compagno della sorella di mio padre, mio zio, ed io avevo meno di dodici anni quando è morto. La sua morte, per me, consiste in frammenti di ricordi. Mio padre che corre per le scale di casa. Mia zia, che a quel tempo aveva trentatré anni, quanti ne ho io oggi. Un funerale pieno di telecamere e di sorelle, le sorelle di mio zio, sorelle belle con la parlata dolce, che ho scoperto essere spesso una caratteristica degli italo – argentini, il pianto solitario di una donna giovane. Il pianto dell’amore che c’è nella morte o dell’amore che c’era prima della morte, il pianto dei perché. Perché? Quel perché mi risuona dentro a distanza di anni, il perché che rende accettabile qualcosa che non si può accettare. Un perché che assume senso solo nel momento in cui mi riguarda, mi coinvolge, mi ferisce, e lo perde, invece, quando si allontana da me: quando la morte diventa generica, non personale, distante. Di questo parla “Non correre Amleto”, del senso che siamo costretti a trovare nella morte, che vogliamo trovare a tutti i costi.
I.G.: In “Nomen nescio” a confrontarsi erano due uomini mentre in “Solo di me” erano tre donne ad affrontare la propria condizione. In “Non correre Amleto” ci sono una donna ed un uomo. Puoi spiegarci il perché di questa scelta?
Francesca Garolla: Si tratta di una declinazione dello stesso percorso. Il padre e il figlio di “N. N.” mi hanno permesso di indagare una eredità che si trasmette per linea generazionale, per rapporto di sangue, qualcosa che non possiamo tralasciare o evitare. “Solo di me” approfondisce il rapporto con la Storia, con gli archetipi, da un punto di vista preciso, puntuale, solo ed esclusivamente femminile. “Non correre Amleto” si interroga sul presente: l’altro da me in cui voglio riconoscermi, che mi definisce, che mi colloca. Un altro da me con cui cerco una unità ma da cui mi voglio continuamente distinguere: da qui nasce la scelta di lavorare su una coppia. Lui e Lei, uniti da una relazione che parla di presente, uniti dalla necessità di comprendersi ma soprattutto dall’impossibilità di comprendersi.
I.G.: Amleto è il principe danese sospeso tra reale e sovrannaturale, tra il materico regno corrotto e marcio di Danimarca e la presenza del fantasma del padre. Amleto è l’uomo che guarda dritto negli occhi la Morte e osa tenerla per mano. «Amleto è l’accompagnamento funebre di tutta una vita» dice Carmelo Bene. Chi è il tuo Amleto che non deve correre? Il problema è conservarsi in vita o vivere consapevoli della Morte?
Francesca Garolla: In “Non correre Amleto” i due protagonisti condividono lo spazio della scena eppure non dialogano. Vivono tempi diversi, raccontano una morte che li riguarda, alla ricerca di un “perché” che forse, o forse no, allevierebbe il loro dolore e, proprio come un Amleto qualunque, cercano una verità che spesso è più sciocca della menzogna. In questo senso parlo di Amleto, non c’è nulla del plot shakespeariano, un Amleto che cerca una ragione, un pensiero razionale che delinei il caos che lo circonda, una ragione che gli permetta di uccidere i fantasmi e continuare a vivere. Io non credo che Amleto sappia tenere per mano la morte, credo piuttosto che la sappia seguire, che la sappia spiare, che la tenga sott’occhio per capire dove si è nascosta la vita. Essere o non essere. Amleto non sceglie davvero, mai, piuttosto corre: cerca, indaga, si fa stratega per scoprire una verità stupida come stupido può essere un tradimento, corre alla ricerca di un perché che non trova. Al di là dei fantasmi che affollano i nostri sogni, al di là dei perché, al di là della memoria ingombrante che ci impedisce di respirare. Al di là di tutto. Il problema non sta nell’essere consapevoli della morte e nemmeno nel conservarsi in vita, il problema sta tutto nel vivere. Ed è un bello spettacolo.
Written by Irene Gianeselli
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