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Intervista di Irene Gianeselli alla regista Marinella Anaclerio: il teatro strumento di trasmissione

Creato il 26 gennaio 2016 da Alessiamocci

Marinella Anaclerio nasce a Bari nel 1960. Dopo un corso di formazione presso il Piccolo Teatro di Bari, inizia a lavorare come attrice presso la compagnia del medesimo teatro, concludendo nello stesso periodo il percorso universitario (si laurea in Lettere con indirizzo Storico Artistico) e il Conservatorio come pianista.

Nelle discipline dello spettacolo, tra il 1979 ed il 1998, alterna formazione a lavoro studiando con Franco Perrelli,  Iben Rassmussen, Massimo Castri, Yves Lebreton, Dominic De Fazio, Francesca De Sapio, Horatio Ctzertok e partecipando a vari laboratori fra cui il laboratorio–spettacolo “Chevengur” diretto da Michail M.Butchievic con la compagnia del Teatro Scuola d’Arte Drammatica di Mosca diretta da Anatolij Vassiliev (Longiano 1991).  Consegue tra il 1996 ed il 1998 il diploma GITIS – EATC, Laboratorio triennale per pedagoghi, registi e attori diretto da Jurij Alschitz. La sua prima regia è del 1982 con “La notte degli assassini” di Josè Triana, passano dieci anni prima che affronti la seconda “Aspettando Godot” di Samuel Beckett.

Lavora come attrice per il teatro e per il cinema con Eugenio D’Attoma (l’Allodola di Anhuille – 1980), Guglielmo Ferraiola (Girotondo – 1981), Armando Pugliese (Fiaboplast – 1983, La Guerra dei Topi e delle rane – 1985, Il Miles di Plauto – 1984) Jerzy Skolimowsky (Acque di primavera – 1988), Guido De Monticelli (Elettra – 1990) Pappi Corsicato (Libera -1992, I Buchi neri -1994), Mario Martone (è pianista in Rasoi – 1991) Carlo Mazzacurati (L’estate di Davide – 1997). È aiuto regista di Toni Servillo per “Il Misantropo” (1995) e di Carlo Cecchi per la “Trilogia Scespiriana” al teatro Garibaldi di Palermo (1998).  Fonda con Flavio Albanese, Tot Onnis, Paolo Sassanelli, Marit Nissen e Dino Abbrescia “di Beato e Angelica” compagnia con la quale nasceranno tutti i successivi spettacoli, in collaborazione con Beat’72 Cometa e Compagnia delle Indie Occidentali: “Buio Interno” (1992) e “Lontano dal Cuore” (1993) di Luca de Bei, “La Locandiera” (1993), “Le perle dei porci” (1994), “Amlèt” (1996 da Shakespeare, Festival di Assos–Turchia).

Nel 1997 in collaborazione con il Goethe Institute crea per l’International Festival di Lahore “The donkey in the forest of honey” un musical visionario di Peter Pannke da testi di Jhal-al-uddin Rumi, con una compagnia di musicisti internazionale. Con “Il Bugiardo” nel 1999, completa “La Trilogia della Seduzione” (Locandiera, Servitore di due padroni, Il Bugiardo) con la quale è in tournée dal  2000 al 2002 come evento speciale. Nel 2001 al festival di Benevento debutta con “Phaedra’s Love” di Sarah Kane e nel 2002 mette in scena “Il Borghese Gentiluomo di Moliere” con, tra gli altri, Massimo De Lorenzo, Flavio Albanese e Carlo De Ruggieri; nello stesso anno inizia il rapporto con La Piccionaia-I Carrara di Vicenza mettendo in scena con loro “Florestina…oh Florestina” dal repertorio di farse della famiglia e nel 2003 “Monsieur de Pourceaugnac di Moliere. Come cucinarsi il Marito di D. Isitt.” con Lucia Vasini, Bebo Storti, e Tiziana Sensi (Compagnia delle Indie occidentali), “Gli Eneadi – il viaggio” progetto Europeo con, tra gli altri, Flavio Albanese, Oscar De Summa, Michele Bottini, Giulia Mombelli e musiche dell’Orchestra di Piazza Vittorio.

Nel 2010 fonda la “Compagnia del sole” con la quale debuttano “I Karamazov” da F.M.Dostoevskij, M.Giliberti; “Guerra” di Lars Norèn con Manrico Gammarota, Antonella Attili, Cristina Spina, Pietro Faiella, Ornella Lorenzano; “Luce dalle Stelle” spettacolo scientifico, di M.Carpineti, N.Ludwig; “Orlando pazzo per Amore – tragicommedia Pop – adattamento dell’Orlando Furioso di Ariosto” scritto e diretto in collaborazione con Flavio Albanese  e “Se tu avessi parlato…Emilia! Ovvero L’Otello dal punto di vista della moglie di Jago” per il quale Marinella Anaclerio firma testo, scena e costumi.

Lo spettacolo “2ma non2″ tratto dalla novella “O di uno o di nessuno” di Pirandello ha debuttato nel 2010 ed è andato in scena il 16 e 17 gennaio 2015 al Teatro Van Westerhout a Mola di Bari con Simone Càstano, Tony Marzolla, Antonella Carone e Dino Parrotta.

Sua la regia lirica nel 2014 de “Il giovane Artù” (liriche e musica di Nicola Scardicchio) ed è anche co-autrice del libretto che debutta al Teatro Petruzzelli di Bari, segue Toni Servillo in qualità di regista assistente in tutte le sue regie di teatro lirico, curandone tutte le riprese.

Marinella Anaclerio è inoltre Direttore Artistico di numerosi festival, docente di recitazione alla scuola di avviamento al teatro del Teatro Stabile delle Marche in Ancona da lei fondata con Giampiero Solari e Tommaso Paolucci, producendo ogni anno uno spettacolo di fine corso dal 2000 al 2007.

Marinella Anaclerio racconta ai lettori di Oubliette Magazine il suo modo di vivere, pensare e di trasmettere il teatro.

I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. Jouvet ne “L’elogio del disordine” scrive «Il teatro mi appare in tutti i suoi aspetti un enigma. Provoca dentro di noi un turbamento, un disordine, degli effetti che sono difficili da spiegare. Esistono due maniere di fare o considerare il teatro: in superficie oppure in profondità e in altezza, ossia nella verticale dell’infinito. Per me il teatro è qualcosa di spirituale; una religione dello spirito o degli spiriti. [...] E mi sembra che quest’enigma non abbia altra risposta che nell’invenzione e nell’immaginazione di un al di là con il quale comunichiamo incomprensibilmente grazie alla poesia, allo “spirito”, a un’interpretazione della realtà». Il teatro appare anche a te come un enigma e una religione degli spiriti?

Marinella Anaclerio: Cos’altro è un palcoscenico se non il luogo/dove ritrovare la nostra vita, quella che i poeti/raccolgono mentre noi siamo impegnati a viverla!”. Così recita Astolfo nel nostro Orlando. Non so più se è un verso mio o l’ho rubato a qualcuno… sicuramente il Teatro ha a che fare, nelle sue espressioni più alte, con la Rivelazione, con una Visione che, in quanto tale, può spiazzare e turbare. Il grande Jouvet parla di un disordine che consegue un’emozione che spesso riguarda noi che la generiamo al pari degli spettatori che ne usufruiscono. Sicuramente il nostro campo d’indagine son “ le cose che ci sono in cielo ed in terra” e che sempre oltrepassano la nostra filosofia, la multiformità della vita, in senso orizzontale e verticale (la croce, con il simbolo dello Yin/Yang, è per me uno dei più perfetti simboli di equilibrio mai generati). Dunque sì, religione degli spiriti, ma anche luogo di confronto tra uomini, tragedia e commedia hanno per me pari dignità. Mi viene il capogiro quando penso che siamo sette miliardi e non ci sono due persone con le stesse impronte digitali… eppure ciò che ci unisce è più di ciò che ci divide, e possiamo dire che se alziamo gli occhi in tre, il nostro sguardo si unisce all’orizzonte… sicuramente quando l’analisi di un grande scrittore s’incontra con un grande interprete può trasmettere una musica divina che fa risuonare per “simpatia” le corde dell’animo della platea senza distinzione alcuna, stesso dicasi del lavoro del grande comico. In tutto questo il regista non è che il maestro concertatore. Ne sono stata testimone fortunata, più di una volta, ed ho visto vibrare di un’identica emozione una platea composta da persone diversissime fra loro proprio perché i loro sguardi si erano uniti all’orizzonte vedendo, o meglio riconoscendo in quanto accadeva in scena qualcosa di molto profondo che gli apparteneva. Da uno spettacolo non si dovrebbe mai uscire senza una sorpresa o una scoperta o un’emozione nuova o un senso di leggerezza che non ha a che fare con l’argomento trattato, ma con quanto ci ha coinvolto. Le emozioni più profonde non emergono mai da un ceffone, ma da un corto circuito intellettuale. Per questo, a meno che non sia necessario, non amo il nudo a teatro, distrae, non amo la violenza gratuita, sia verbale che intellettuale, genera confusione. Guardo all’antico precetto che vuole il sangue fuori scena. Almeno personalmente il sangue finto mi genera distacco, mi fa quasi ridere e pensare al grand guignol. Certo ho messo in scena “Guerra” di Lars Norèn dove violenza e turpiloquio erano il nerbo del tessuto drammaturgico, che provava a rivelare le alterazioni delle relazioni familiari  dopo una guerra civile. Ma in quel caso estrema era di per sé la situazione, e l’orrore era proprio nel raccontare l’abitudine all’orrore. Il punto è sempre lì, tenere alto lo sguardo.

I.G.: Jouvet, tra l’altro, usa il termine vocazione, parola e concetto spesso abusato, ma di fatto semanticamente complesso, carico di implicazioni filosofiche fra umanità e sacralità . Esiste la vocazione? Perché tu hai cominciato a fare teatro?

Marinella Anaclerio: La vocazione teatrale, ha a che fare con l’amore, in senso strettamente platonico, con la passione sviscerata per questo mezzo di comunicazione complesso e compromettente. Ha a che fare con una sorta di “chiamata”, e richiede in quanto tale una dedizione incondizionata verso quest’arte che davvero, a volte, ti mette in contatto con l’infinito, ma anche con la terribile frustrazione di non saperlo comunicare. La vocazione è diversa dal talento e dal genio. Per quanto mi riguarda è un sentimento unilaterale che può durare immutato per tutta la vita. È una scelta che ti porta ad affrontare il lavoro per se stesso, ad avere un rispetto sacrale del pubblico, unico elemento necessario perché il teatro avvenga. Questa è stata forse una delle convinzioni più solide che mi ha lasciato l’esperienza decennale con Toni Servillo. L’esperienza con lui cominciò in modo bizzarro: lo accompagnai al pianoforte in “Rasoi”, spettacolo diretto a quattro mani con Martone.

I.G.: In qualità di regista assistente hai poi seguito Toni Servillo in tutte le sue regie di teatro lirico curandone tutte le riprese; sempre come regista assistente nel 1998 hai lavorato con Carlo Cecchi alla “Trilogia Shakespeareana” al Teatro Garibaldi di Palermo. Cosa hanno rappresentato per te queste esperienze?

Marinella Anaclerio: A dispetto dell’astrologia (sono entrambi nati il 25 gennaio) Toni Servillo e Carlo Cecchi hanno in comune solo il fatto di incarnare la tradizione più antica del teatro europeo: quella del capocomicato, del prim’attore regista.  Per il resto sono diversissimi. Toni arriva alle prove con un’idea di struttura definita  quasi completamente. Le prove per lui sono un meticoloso lavoro di trasmissione. Ciò non vuol dire che un attore creativo non abbia spazio, Toni è pronto a cambiare idea se la proposta che gli arriva è più funzionale al lavoro della sua. Carlo invece evita di chiudere la struttura fino all’ultimo momento, provocando gli attori al cambiamento costante, prendendo vitalità spesso proprio dalla situazione di incertezza che, a volte, genera veri e propri drammi artistici ed umani, a volte invece genera soluzioni straordinarie. Il mio lavoro con loro come regista assistente è andato di pari passo con quello di regista per “di Beato e Angelica” la compagnia che dirigevo a quel tempo, dunque sapevo cosa volevo imparare da entrambe in quanto avevo già un bel po’ di domande a cui solo il lavoro poteva darmi risposte. Da Toni ho appreso il rigore della preparazione, l’importanza della “pulizia” che però non deve mai diventare forma estetica fine a se stessa, guscio vuoto, il rispetto profondo per il pubblico, che però non deve diventare sudditanza. Il grande rispetto per tutti coloro che sono coinvolti nel lavoro (atteggiamento non così scontato in teatro). Da Carlo ho appreso il coraggio di non sapere, di fidarsi degli ingredienti e procedere rimescolando continuamente le carte, l’importanza dell’ascolto. Da entrambi la necessità di arrivare alle prove con una conoscenza del testo e del suo contesto più che solida e da lì “lanciare” le proposte .

I.G.: Molti tuoi allestimenti sono stati proposti in tutta Italia e all’estero. Quali differenze ravvisi tra il pubblico italiano e quello internazionale nell’approccio al teatro?

Marinella Anaclerio: All’estero ci sono “i pubblici”, e si mescolano facilmente fra di loro, c’è più curiosità per la drammaturgia contemporanea e per i nuovi testi in genere, aldilà delle compagini che lo presentano. Da noi i nuovi testi, otto su dieci, sono scritture sceniche, strettamente legate alla regia che li produce, dunque poco trasmissibili in altre messe in scena. La maggior parte dei festival sono frequentati più da addetti ai lavori che da pubblico “vero”, la formula è: “festival + corsi di formazione”, così gli allievi attori vanno ad assicurare un pubblico . Non è così ad Edimburgo o Avignone giusto per citare i più conosciuti, da me spesso frequentati.

I.G.: Come dramaturg, molto spesso componi tu stessa il dramma che poi viene rappresentato. In che modo affronti questo ruolo?

Marinella Anaclerio: In realtà in Italia la figura del dramaturg di per sé è decisamente rara da incrociare nei teatri ed ancor meno nelle compagnie. Quasi sempre coincide con il regista. Più che da un testo io da sempre vengo attratta da temi. È chiaro che se il testo che incontro è una novità, difficilmente intervengo sulla scrittura, sento la responsabilità del debutto, di esser la prima a portarlo sulle scene, la prima a renderlo visibile al mondo. Se lavoro su un testo classico la cosa cambia. Tutto comincia con una nozione di punto di vista che per me ha a che fare con il tempo presente, con il momento storico e personale che si attraversa. Ritenendo il teatro un rito collettivo, e non solo un’esibizione di abilità o intelligenza, è chiaro che nella composizione drammaturgica eleggo ciò che  risponde prima di tutto ad una necessità di condivisione di pensiero, fosse anche solo di gioco.

I.G.: Nel 2010 con Flavio Albanese, Pino Pipoli ed Alberto Bellandi hai fondato la   Compagnia del Sole. Come è nato questo progetto? Puoi parlarci del percorso della Compagnia?

Marinella Anaclerio: La prima compagnia da me fondata nel lontano 1991 si chiamava “di Beato e Angelica” gioco di parole sul Beato Angelico e la sua funzione nell’arte sua contemporanea, ma anche gioco di parole sulle compagnie a conduzione familiare tipiche della nostra tradizione fino agli Anni ’60. E tali noi eravamo, tutti giovani attori (Flavio Albanese, Totò Onnis, Pino Pipoli, Paolo Sassanelli  per citarne alcuni) legati da amicizia e dal desiderio di un teatro d’arte per tutti, molto legato alla drammaturgia contemporanea ma con nel cuore la tradizione. Quello però che abbiamo mancato di fare è stato darci un’organizzazione tecnica, per cui ci siamo sempre appoggiati ad altre realtà finendo con il dipendere sempre da altri. La formazione così è variata negli anni fino ad esaurire la sua ragione d’essere. Nel 2010, la necessità di far circuitare “I Karamazov” ci ha messo di fronte ad un bivio: rinunciare o fondare una nuova compagnia. Naturalmente abbiamo optato per la seconda via e tutto pian pianino ha iniziato a marciare nel senso giusto. La differenza con il progetto precedente? Sarò onesta: artisticamente nessuna in quanto ad intenti, tecnicamente invece gli anni passati ci hanno portato  la saggezza di assumerci oneri ed onori della conduzione della compagnia. A confermare la scelta l’incontro, grazie ad un incarico di docenza in un progetto internazionale rivolto a giovani professionisti, con un gruppo di attori davvero motivati dotati e pronti al rischio che ora costituisce una solida base per far dell’arte anche un’impresa… con tutti i doppi sensi del caso!

I.G.:  È molto forte il senso della sperimentazione nelle tue regie e nelle rappresentazioni che la Compagnia del Sole propone. Puoi riassumere fino ad oggi quali sono gli esiti di questo studio costante per un “nuovo senso drammatico”?

Marinella Anaclerio: Sperimentale è per me un termine decisamente ambiguo ed abusato, che oggi ha finito con il coincidere con “moda”, ed io della moda non ho mai avuto i modi! Un regista o una regista che ripete una formula fortunata, che bonariamente i critici definiscono stile, può essere chiamato sperimentale? Sperimentale non è chi lo fa “strano” e poi continua a ripeterlo “strano” ma sempre nella stessa maniera. Sperimentale è chi riesce a confrontarsi ogni volta con una materia diversa, senza imporgli la propria “maniera”, ma lasciandosi rinnovare da ciò che la materia che ha di fronte gli permette di scoprire. «Cerca la forma e troverai la morte, cerca la vita e troverai la forma». È la lezione di Stanislavskij al primo posto nel mio decalogo. Io son felice quando riesco a fare qualcosa di totalmente nuovo rispetto al mio precedente lavoro. Per me sperimentare è fare esperienza senza paracadute. Il mio dio nell’arte è Kubrick. La tecnica è sempre magistralmente uguale, ma ogni volta sposa il genere che affronta rivoluzionando tutto. Raffinato e popolare, dolce e violento, spazia nei generi piegando lo stile alla materia.

I.G.: Hai scritto e diretto in collaborazione con Flavio Albanese “Orlando pazzo per Amore – tragicommedia pop”, adattamento dell’”Orlando Furioso” di Ariosto. Lo spettacolo nel prossimo anno girerà per la sua 4° stagione. Qual è stata l’evoluzione di questo spettacolo? Puoi parlarcene?

Marinella Anaclerio: “Orlando Pazzo per amore- Tragicommedia Pop” è il risultato del laboratorio di cui parlavo sopra. Coniugare Orlando con la commedia dell’Arte è stato il primo salto, non essendo propriamente il verso adatto alle maschere. In Commedia difatti tendenzialmente le maschere parlano in prosa e solo le tirate dei Capitani e degli innamorati possono talvolta essere in versi. Ma avendo avuto Calvino come porta d’accesso al poema, in gioventù, mi era rimasto nel cuore quello sguardo leggero e fortemente ironico dal gusto pop tanto legato alla sua epoca e che per me era il ponte perfetto tra noi ed Ariosto. Così scegliendo come filo conduttore quello della immaginazione cantato (la musica del resto è stata il mio primo amore…) dal Capocomico- Astolfo servendosi a sua volta del prologo dell’ “EnricoV” di Shakespeare, mi sono concessa di contaminare il testo con il De Filippo de “La grande magia” per condurre il gioco con il pubblico.

I.G.: «Non possiamo illuminare nulla senza oscurarne il lato opposto. Come una luce che mentre ci spostiamo per svelare gli oggetti nelle tenebre, immerge in una nuova oscurità gli oggetti, che aveva illuminato» ancora Jouvet ne “L’elogio del disordine”. Da tempo hai avviato anche un percorso pedagogico: come viene affrontata dai tuoi allievi la crescente consapevolezza – ammesso che sia immediato sentire una verità così sconcertante dentro di sé – che nel teatro i contorni degli oggetti illuminati sono irregolari e le ombre portano solo gradualmente all’oscurità?

Marinella Anaclerio: Questo che sottolinea Jouvet è un meccanismo istintivo, che avviene nell’attore quando provi a spostarlo dalle sue certezze, quando intravedi in lui altre possibilità e vuoi portarlo a valorizzarle. La maggior parte comincia inconsciamente a creare barricate perché ha l’illusione di perdersi, di esser messo a nudo, di non essere in grado di andare dove tu vuoi portarlo, dunque quello che si oscura è proprio il senso della realtà. Da giovane mettevo in atto una sfida senza esclusione di colpi bassi, con la convinzione del bene superiore, lo spettacolo o l’apprendimento di un processo creativo.  Con l’esperienza ho imparato che, tranne in rari casi, sta all’attore scegliere fin dove spingersi, e che io posso solo creare le condizioni perché lo faccia per il resto è sua responsabilità. Ovviamente sono diventata anche più abile a valutare oltre che l’adeguatezza al ruolo anche la disponibilità a spingersi oltre il già detto.

I.G.: Come valuti la situazione odierna del teatro italiano?

Marinella Anaclerio: Confusa e difficile, viene riconosciuto solo il teatro commerciale e quello che si definisce sperimentale, che in Italia, eccetto pochi casi eccezionali, finisce con l’essere moda. Dunque due tipi di convenzione, stabilita dalla televisione e popolare nel primo caso, stabilita da pochi e per pochi nel secondo. Tutto ciò che per scelta e per natura va fuori da queste due categorie ha difficoltà ad emergere. La riforma ministeriale non ha fatto che suggellare questa situazione, generando una diffusa protesta da parte di tante realtà escluse dal riconoscimento che pure hanno un loro pubblico ma non riescono ad essere competitive. Questo fa si che il pubblico teatrale sia numericamente quello più basso in Europa.

I.G.: Cosa significa essere donna di teatro per te?

Marinella Anaclerio: Donna? Il teatro per me è genere neutro. Dimentico di essere donna quando lavoro. In quanto regista sono Otello e Desdemona: in palcoscenico le cose non hanno un modo femminile ed uno maschile.  Hanno un modo preciso, funzionale ed artistico per essere e basta. Il regista per me è un alchimista, la cui abilità sta nello scegliere con cura gli elementi ed i tempi necessari al processo che vuol mettere in atto. Il resto lo fanno gli elementi stessi incontrandosi con la materia trattata.

I.G.: Quali le prossime rappresentazioni ed i prossimi progetti?

Marinella Anaclerio: Sto lavorando alla messa in scena di un testo del pluripremiato drammaturgo inglese Dennis Kelly. Ho iniziato già a lavorare con gli attori per cambiare il registro recitativo necessario ad affrontare questa nuova prova. Abbiamo lavorato molto sulla commedia dell’arte e la sua tecnica straniante tutta fisica, ma già con “I Numeri dell’Anima” di Platone ed il Pirandello di “2ma non2” con gli attori abbiamo cambiato registro, lavorando sull’interpretazione ludica, quindi con una distanza tra attore e personaggio. Adesso per il testo di Dennis bisognerà lavorare sodo per restituire la maledizione tenera e struggente di personaggi che loro malgrado assurgono ad archetipi della malattia contemporanea della frustrazione a causa del danaro. Non l’io dell’attore ma il “noi” del suo sposalizio con il personaggio, per provocare il cortocircuito nel pubblico. O per chiuderla con Jouvet: devo portare gli attori ad essere comedién, e “ricevere” il personaggio nella sua interezza. La sfida è già cominciata!

Written by Irene Gianeselli


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