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Intervista di Irene Gianeselli allo scrittore Nicola Lagioia: nuotare nello stagno de “La ferocia” tra scaglie di luce verde

Creato il 03 maggio 2015 da Alessiamocci

«Vi sono delinquenti terribili, che hanno ucciso finanche dieci persone e non se ne pentono affatto. Ma ecco che cosa ho notato: anche l’assassino più incallito ed immune dai rimorsi sa tuttavia di essere un delinquente, cioè reputa in coscienza d’aver agito male, pur non conoscendo resipiscenza alcuna. Questi, invece, non vogliono nemmeno considerarsi delinquenti, e pensano invece, nel loro intimo, di aver avuto ragione, di averne avuto il diritto… e persino che hanno agito bene, o poco ci manca.» “L’idiota”, Fëdor Dostoevskij

Nicola Lagioia è nato a Bari nel 1973. Ha esordito con il romanzo ”Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj” (2001) edito da minimum fax. Con Einaudi ha pubblicato ”Occidente per principianti” (Supercoralli 2004), ”Riportando tutto a casa” (Supercoralli 2009, Super ET 2011; Premio Viareggio-Rèpaci, Premio Vittorini, Premio Volponi) e ”La ferocia“ (Supercoralli 2014).

Dirige la collana di narrativa italiana “Nichel” di minimum fax. È una delle voci di Pagina3, rassegna stampa culturale di RaiRadio3. Scrive per diversi quotidiani, settimanali e riviste, tra cui ”Lo Straniero”, ”Repubblica”, ”Orwell”, ”Il Venerdì di Repubblica” e “ Repubblica XL”.

Nel 2013 e nel 2014 è uno dei selezionatori della Mostra del Cinema di Venezia.

 

I.G.: La ringrazio per la disponibilità. “La ferocia” è un’opera piuttosto complessa sia nella forma che nel contenuto. Una trama fitta, ricca di continui rimandi, un disegno complesso. Può parlarci della sua genesi?

Nicola Lagioia: Senza voler prestare il fianco al soprannaturale, diciamo che sono stato visitato da un’immagine primaria: un principio femminile agonizzante. Ci ho messo mesi per metterlo a fuoco. Piano piano ho capito che si trattava di una ragazza che aveva superato la metà dei trent’anni, che si chiamava Clara, che era la secondogenita di una potente famiglia di costruttori pugliesi, che nella sua famiglia denaro e marciume andavano di pari passo, che aveva un fratello, anzi un fratellastro, Michele, a cui teneva molto, ma che era destinata a morire, e Michele a indagare su di lei, vale a dire su se stesso. E che tutto questo sarebbe accaduto in un continente lunare, notturno, verticale, misterioso, pieno di strani animali, e di musiche inquietanti: la Puglia.  È cominciata così.

 

I.G.: Stilisticamente in alcuni casi sembra di leggere un racconto quasi gaddiano, l’immagine è quella di vortici che si assorbono l’uno nell’altro. Come ha costruito la lingua del suo romanzo?

Nicola Lagioia: Non credo sia proprio gaddiana. È solo la mia opinione, ma mi pare segua un altro tipo di complessità. Credo debba più semmai a Fenoglio, a De Roberto, a Faulkner, a Proust, alla Woolf, a Emily Brontë, a certa nervosa e elettrica poesia di inizio Novecento. Ciò che ci distingue dagli altri animali, diceva Josif Brodskj, è l’uso della lingua, e dal momento che la letteratura (la poesia soprattutto) è l’espressione linguistica al suo apice, chi non tiene conto della lingua in letteratura commette un crimine antropologico innanzitutto contro se stesso. Per sviluppare il giardino, il bosco, la foresta linguistica che è “La ferocia” è bastato lavorare ogni giorno, per quattro anni, almeno sei ore al giorno, senza pause. Senza mai perdersi d’animo. Senza mollare. Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato. Nel mio caso erano le acque di uno stagno gigantesco sulla cui superficie guizzavano continuamente scaglie di luce verde.

 

I.G.: Personaggio molto affascinante è Michele, un inetto moderno – che come tutti i presunti inetti, inetto proprio non è -. Rispetto alla sorella morta appare complementare più che antitetico, può raccontarci come ha pensato questo personaggio?

Nicola Lagioia: Sì, è così. Michele è un idiota dostoevskijano. È colui che, portando sui palmi le stimmate e le ferite del tempo, ne è il testimone più attendibile. Anche se Michele non è una vittima assoluta. Per esserlo, deve sovrapporre le proprie ferite a quelle di Clara: allora si ottiene un disegno quasi completo. Non del tutto completo, sfugge sempre qualcosa, per fortuna. Solo che Michele (così come la sua sorellastra) non è solo una vittima. Sferra anche dei colpi, a un certo punto si sporca le mani, fa vittime a sua volta. È molto umano. Non voglio dire però che Michele e Clara in due fanno una persona o un personaggio. In due, fanno una storia, che è ciò che a uno scrittore interessa. È quella la scia che inseguiamo.

 

I.G.: Il rapporto che si instaura tra Michele e la sorella è ancestrale. Per certi aspetti può ricordare il rapporto tra Antigone e Polinice. Ne “La ferocia”  i ruoli sono invertiti: è Michele a cercare in qualche modo di rendere onore, nel senso più greco del termine, a Clara. Quali sono, se ci sono, le fascinazioni della tragedia greca in questo romanzo?

Nicola Lagioia: La tragedia greca ci appartiene nostro malgrado, perfino a nostra insaputa. Veniamo da lì, non veniamo dalla Cina. Lo sa anche Jonhatan Littel.

 

I.G.: Secondo Hobbes lo stato di natura è il momento in cui gli uomini non hanno ancora ricondotto i loro rapporti ad un ordine necessario come lo Stato e quindi si fanno guerra tra loro di continuo. “La Ferocia” non affronta solo la decadenza del “sistema famiglia”. Nella sua storia – e nella vita di ogni giorno – lo “stato di natura” sembra in realtà essere lo stato della “società civilizzata” e l’homo homini lupus è la legge dell’industria, dell’economia, del sistema economico, politico e sociale in cui siamo immersi.

Nicola Lagioia: Il XXI secolo, da questo punto di vista, non è iniziato con i migliori auspici. Le novanta persone più facoltose del pianeta detengono una ricchezza pari a quella dei 3,5 miliardi di più poveri. Sergio Marchionne guadagna 500 volte un suo operaio. Questa io non la chiamo civiltà, ma rapina, violenza, barbarie legalizzata. Senza dubbio dunque ha ragione di nuovo Bertold Brecht: rapinare una banca è meno grave che averla fondata. Il mio è solo un romanzo, racconto storie, vicende sentimentali, ma il contesto è quello.

 

I.G.: Michele è costretto ad analizzare il sistema del social network durante questa vera e propria catabasi nella vita di Clara. Qual è il suo approccio e come considera le piattaforme?

Nicola Lagioia: C’è un doppio binario di lettura. Sul piano sociale, antropologico, sono affascinato e sconcertato dalla violenza e dalla crudeltà che certe volte viene fuori dai social network o dai messaggi lasciati dagli utenti a margine degli articoli che leggo sui quotidiani on line, sui blog. Quasi sempre è una violenza che inneggia alla propria stessa castrazione. Insultano ad esempio una star che stona durante un concerto, la deridono, la sbeffeggiano. Solo che poi la sera stessa la star in questione beve champagne ai Cavalieri Hilton mentre l’anonimo commentatore tenta di strangolare la moglie nei venti metriquadri del seminterrato da cui stanno per essere sfrattati. O magari è l’autista della star in anonimo, o il suo ufficio stampa, o un giornalista in bolletta che il giorno dopo dovrà postare le foto del concerto sulla piattaforma per cui lavora. A propria volta la star torna a casa e deride anonimamente una collega, sempre on line. Voglio dire… ci sono strumenti più efficaci per mettersi in gioco o anche solo per scendere nell’arena del mondo. Detto questo, la rete rimane per me un osservatorio interessantissimo. È anche uno spazio di libertà, per chi la usa in maniera intelligente, e in questo modo rende per esempio obsoleta la stampa tradizionale e le sue posizioni di potere, ormai sempre più fragili. D’altra parte, sono parimenti sconcertato dalla cara vecchia struttura. Possibile che a nessuno dia fastidio che i propri contenuti (le proprie idee, emozioni, perfino deiezioni) vadano ad arricchire il signor Zuckerberg? In un caso e nell’altro, è la felicità con la quale la gente non vede l’ora di farsi fregare a lasciarmi sorpreso. Leggo alcuni sfoghi on line, e quello che traduco è “fottimi!” “fottimi!” urlato con un entusiasmo incredibile. Ovviamente l’invito subliminale viene subito raccolto dai più furbi.

 

I.G.: Sempre Thomas Hobbes scrive ne “Il Leviatano”: «indico quindi in primo luogo come inclinazione generale dell’umanità un perpetuo e irrequieto desiderio di potere dopo potere, che cessa solo in morte». La morte di Clara spezza gli equilibri, è un forte momento di rottura nella vita dei Salvemini, ma questo “potere” è anche il potere del pater familias, oltre che del potente industriale. La famiglia che lei racconta sembra essere una famiglia profondamente corrosa dalla logica del potere di mercato.

Nicola Lagioia: Purtroppo, nell’economia famigliare, la morte di Clara è addirittura un’occasione che il vecchio Vittorio non si lascia sfuggire. L’importante è non dirselo. I peggiori crimini non li confessiamo neanche a noi stessi, i nazisti tra di loro non parlavamo mai ad esempio di “soluzione finale”, non esiste neanche un documento che la certifichi. In più i Salvemini sono italiani, il familismo amorale li assedia da ogni lato, in questo senso sono parenti alla lontana degli Uzeda dei “Viceré”.

 

I.G.: Ci sono coccinelle, gatti e tanti altri animali. Perché, a suo avviso, gli uomini non sanno bastarsi e devono ricorrere alle immagini e alle allegorie attraverso figure di animali per raccontarsi (ovviamente la narrativa contemporanea merita un pensiero a sé)?

Nicola Lagioia: Non siamo soli sulla terra. Nessuno basta a nessuno. Non ci raccontiamo solo attraverso gli animali, ma attraverso le piante, la terra, il cielo. È ovvio. Pensa alle “nuvole” di Baudelaire. Per non parlare di Moby Dick. O di come il giardino di casa Firmin abbia un ruolo centrale in “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry. Siamo immersi in ciò che non siamo, nell’altro da noi. Coccinelle, steli, querce, montagne, nuvole, satelliti, sistemi planetari, galassie, neutrini. Ma è tutto collegato, stando a quello che i fisici chiamano momento di singolarità. L’entanglement ci sovrasta e ci appartiene. Gli uomini primitivi disegnavano bisonti nelle caverne.

 

I.G.: Ha viaggiato molto durante questi mesi e ha incontrato diverse lettrici e lettori. Cosa chiede il lettore oggi?

Nicola Lagioia: Il lettore chiede sempre molto più di ciò che crede di volere. Lo confesso: chiedevo molto meno a Shakespeare o a Proust la prima volta che ho preso in mano il Macbeth o la Recherche.

 

I.G.: E qual è invece il ruolo che l’editoria cerca talvolta di imporre allo scrittore?

Nicola Lagioia: Non mi sono mai posto il problema. Sono sempre troppo impegnato a scrivere, a tirare fuori da me il meglio.

 

I.G.: Un suo suggerimento per chi vuole scrivere: come, secondo lei, si può imparare ad essere scrittori e lettori?

Nicola Lagioia: Leggendo molti libri. Diciamo che cinquanta grandi libri all’anno (classici, e il meglio dei contemporanei) per dieci anni è un buon allenamento per cominciare a scrivere le prime cinque righe decenti della propria vita.

 

Written by Irene Gianeselli

 


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