[Intervista] Sel Balamir – Amplifier

Creato il 11 marzo 2013 da Claudiober

Sel Balamir, Milano, 6 febbraio 2013

Ricordo ancora bene quando ascoltai per la prima volta gli Amplifier, allora in formazione a tre. Pochi, e pure io lo ignoravo all’epoca, sanno che il gruppo debuttò nel lontano 2004 su Music For Nations, poco prima che questa chiudesse i battenti definitivamente. Era l’etichetta anche di Opeth, che traslocarono su Roadrunner, e Anathema, che avrebbero pubblicato un nuovo lavoro solo sei anni dopo su K-Scope (guarda caso, attuale casa discografica degli Amplifier!).

Non ricordo il giorno esatto, ma si trattava probabilmente di un lunedì sera qualsiasi dell’estate 2005, quando in diretta radiofonica, dagli studi di Radio Popolare di Milano, fu trasmesso – ed io ero in studio con il conduttore – il primo brano del loro omonimo debutto, intitolato “Motorhead”: un fulmine a ciel sereno, letteralmente, che giunse anche grazie alla ristampa di “Amplifier” da parte della SPV.

Circa un anno dopo mi ritrovai a scrivere per kronic.it, e quella con Sel Balamir, leader della band di Manchester, fu tra le mie primissime interviste; anche in questo caso ricordo… ricordo come per isolarmi dal resto della famiglia presente in casa allungavo il telefono sul balcone, inserivo il vivavoce e facevo partire il mini-registratore a cassette. Era il periodo del secondo disco, “Insider”, a cui seguirono poco dopo un tour da headliner con tappa all’ormai defunto Transilvania Live di Milano ed uno di supporto agli Opeth, che nel dicembre 2006 fece scalo al Live Club di Trezzo D’Adda. Temperature glaciali e nebbia fittissima completavano il quadro di un desolatissimo parcheggio disposto tra un capannone industriale, in cui si trovava il locale, e l’autostrada A4 Milano-Venezia.

Diversi anni sono poi trascorsi da quella serata, lunghi periodi di silenzio alternati ad una manciata di EP e brani che senza preavviso alcuno spuntavano su MySpace, fino alla pubblicazione del mastodontico “The Octopus” nel 2011: quattro lunghi anni di gestazione condensati in due ore di puro ‘Amplifier-sound’ che, volendoci affidare alle etichette all’unico scopo di offrire qualche coordinata ai neofiti, è un originale incrocio di hard & space rock, psichedelia e progressive.

Perché dunque questo lungo preambolo di memorie di fatti in gran parte trascurabili? Perché innanzitutto il termine “memoria” costituisce la chiave di lettura di “Echo Street”, quarto sigillo della band di Manchester, oggi un quartetto che tra le proprie fila vede l’ex-chitarrista degli Oceansize, Steve Durose.

A proposito di ricordi, Sel Balamir ancor oggi ricorda il gelido panorama di quel dicembre 2006, ed incredibilmente anche il nostro incontro di allora. Nel momento in cui inizia l’intervista è infatti lui a prendermi in contropiede, chiedendomi per primo come va, e cosa sia successo in questi lunghi anni.

La nostra precedente intervista risale al 2006, sinceramente non ho idea nemmeno io di come tu faccia a ricordarti di me.
Nemmeno io, curioso eh? Tutto ciò che ricordo è quel concerto in quel locale posto davanti ad un’autostrada…

Sì, si trattava della vecchia sede del Live Club, non è nemmeno a Milano come spesso riportato nell’elenco delle date dei tour, ma è a circa 40km di distanza. Era la vecchia sede del locale, una specie di capannone industriale abbandonato in cui è stato realizzato un locale. Un luogo che dà decisamente l’impressione di trovarsi sperduto nel nulla.

Non contento, il mastermind degli Amplifier tenta un secondo contropiede, chiedendomi quali fossero le mie aspettative su “Echo Street” nel momento in cui ho saputo che un nuovo album sarebbe stato presto pubblicato, e se il disco si fosse rivelato all’altezza di tali attese. In realtà non mi aspettavo un nuovo lavoro così presto. “The Octopus” era stato pubblicato dopo diversi anni di silenzio, ed era quindi prodotto da una grossa mole di materiale accumulata in tutto quel tempo. Indubbiamente gli Amplifier hanno un loro sound ben definiti, ed “Echo Street” contiene diversi episodi in cui quel trademark è perfettamente riconoscibile. Ma ci sono delle eccezioni, come in “Between Today & Yesterday”, brano che, come tu stesso affermi, si ispira ai CSN&Y.
Sì, in effetti decisamente diverso da quanto fatto in passato. Ma in termini di songwriting, l’impronta è sempre quella, e poi cantiamo sempre quelle solite vecchie strofe… sono sempre io l’autore di tutta la musica, anche ora che nella band abbiamo due nuovi elementi, incluso l’ex-chitarrista degli Oceansize. Tornando a “Between Today & Yesterday”, quella canzone è anche una pura e semplice celebrazione del canto. Steve è un grande cantante, le sue armonizzazioni vocali erano fondamentali negli Oceansize. Lo è anche il nostro nuovo bassista. Cantare tutti e tre insieme nello stesso brano… non era mai stato possibile farlo in passato, c’ero solo io al microfono.

Echo Street (2013)

Cosa puoi dirmi riguardo all’immagine di copertina?
Se potessi identificare “Echo Street” con un solo termine, quello sarebbe ‘ricordi’, questa è l’impressione che ho del disco; quella bambina ritratta nella foto della copertina ha un significato importante per me, e mi piace pensare che in qualche modo ciascun ascoltatore possa interpretare quell’immagine a modo suo. Se poi avrai modo di recuperare l’intero artwork dell’edizione speciale dell’album, vedrai che c’è un intero libro di fotografie che ho raccolto negli ultimi 20 anni, foto di persone che in alcuni casi non sono più vive oggi. Non provengono dal mio personale album di famiglia, si tratta solo di immagini in cui mi sono imbattuto e che hanno catturato la mia attenzione.

Leggo infatti nelle note promozionali che vi sarà una graphic novel a corredo di “Echo Street”.
È in sostanza un libro che ho realizzato, e che racconta a mio modo quel concept sui ricordi a cui accennavo prima.

Possiamo quindi considerare “Echo Street” un concept album?
Per me in sostanza ogni disco lo è, nel senso che è inevitabile scrivere, registrare e mettere insieme delle canzoni facendo in modo che queste convivano sullo stesso supporto nel miglior modo possibile. Quando “Echo Street” è stato completato ancora non sapevo cosa sarebbe finito in copertina, ma solo che l’avrei trovata tra tutte le immagini che avevo catalogato in passato. Realizzare un disco significa individuare una serie di frammenti che danno l’idea di stare bene insieme; anche senza chiederti troppo il perché, non è matematica questa, è sufficiente la sensazione che ciò che si fa ha un senso. È esattamente quello che ho fatto io: raccogliere quelle immagini che completano il quadro fornito dalla musica e dai testi.
A proposito dei testi, anche in questo caso io trovo che non sia indispensabile attribuirgli un preciso significato; qui si parla di sensazioni, qualcosa che solitamente è molto difficile esprimere a parole.

In effetti, a proposito di parole e del loro significato, temo che tu debba spiegarmi meglio il senso della tua ultima affermazione.
Quello che voglio dire è che, parlando di ciò che ha a che fare con la musica, tendo a non essere mai diretto o specifico, il mio compito consiste nel raggruppare elementi che nell’insieme possano comunicare determinate sensazioni. Tornando all’immagine di copertina: “Echo Street” non è un album che parla della bambina nella foto, né racconta la sua vita o le sue avventure, né io l’ho mai conosciuta personalmente. Tutto questo è irrilevante, ciò che importa è cosa quell’immagine e quella bambina rappresentino per me o per te ad esempio; visioni diverse indubbiamente, ma che sono convinto abbiano tra loro qualcosa in comune. Lì è l’essenza di tutto.

Cosa ti ha spinto a raccogliere tutte queste vecchie immagini piuttosto che qualsiasi altra cosa?
Credo che vi sia qualcosa di emozionante nel vedere fotografie di persone sconosciute, nell’immaginarsi che vita conducessero qualche decennio fa; quando guardo alcune foto della mia famiglia che risalgono allo stesso periodo mi sembra di scorgere alcune cose in comune con quegli sconosciuti. Il fatto che si trattasse di foto di persone sconosciute faceva sì che potessi individuare qualcosa che le accomunasse, indipendentemente da barriere culturali dettate dalla loro provenienza; e questo per me ha rappresentato uno stimolo nel momento in cui ho composto i brani di “Echo Street”.

Nei tuoi brevi commenti alle canzoni dici che “Paris in the Spring” parla dell’occupazione nazista della capitale francese.
Sì, in parte è così, ma quel brano è stato parecchio rielaborato nel tempo. Ho ancora delle visioni nella mia mente che mi ricordano la genesi iniziale di quella traccia, in seguito modificata in base a ciò che altre immagini mi hanno comunicato. Il songwriting è un processo fluido, che cambia da un giorno all’altro; scriviamo la stessa cosa quattro/cinque volte, ma l’ultima aggiunge sempre qualcosa rispetto alle precedenti. Il tema centrale di “Paris in the Spring” è decisamente l’occupazione nazista della città e, curiosamente, nel periodo in cui avevo quasi terminato di comporre quel brano, in televisione ho visto un servizio che riguardava una donna uccisa dai soldati tedeschi in quanto aveva partecipato attivamente alla Resistenza: quell’evento mi aiutò a trovare l’ispirazione finale per chiudere il pezzo.
Io credo che certe cose non accadano mai per caso, ed io non ignoro mai qualsiasi input esterno, piuttosto lo interpreto come un messaggio, un aiuto.

L’edizione speciale di “Echo Street” comprenderà anche un EP bonus di quattro brani, tale “The Sunriders EP”. C’è un motivo specifico per cui tali brani sono stati scartati dalla versione standard del disco?
In sostanza, il vero motivo per cui è quell’EP esiste è che volevamo a tutti i costi avere una special edition dell’album, visto il successo riscosso da quella realizzata in seguito per “The Octopus”, e per farlo bisognava arricchire il tutto con dei contenuti visuali. Purtroppo il tempo per creare un libro di 120 pagine non l’ho proprio avuto! Musicalmente si discosta in parte dal nostro tipico sound, ma almeno un paio di tracce potrebbero tranquillamente far parte di “Echo Street”. Poco importa, ci penseranno gli ascoltatori a decidere se anche l’EP sarà all’altezza delle aspettative.

Ricordo molto bene come “The Octopus” fosse un album completamente autoprodotto, nonché quella sorta di dichiarazione di indipendenza dai classici schemi dettati dal mercato musicale. Ma se il disco ha effettivamente venduto molto, come mai non proseguire lungo la medesima strada, anziché affidarsi ad un’etichetta discografica?
Perché siamo arrivati ad un punto di saturazione tale per cui non eravamo più in grado di gestire la cosa da soli, e non potevamo più produrre e vendere dischi direttamente dal garage di Matt [Brobin, batterista]. Avremmo dovuto smettere di essere una band e diventare noi stessi un’etichetta, con tanto di manager, direttori di marketing, uffici personali e così via. Ora le cose stanno così: noi, la Ampcorp, per poter diffondere maggiormente il nostro prodotto lo diamo in licenza all’etichetta – la K-Scope – e in cambio utilizziamo i loro uffici e i loro strumenti, o paghiamo persone per farlo, dato che il mio lavoro è quello del musicista. La differenza rispetto al passato è che in precedenza eravamo molto inesperti a riguardo; ora i rapporti tra noi e l’etichetta sono molto diversi, fermo restando che la nostra indipendenza è garantita: sono loro a doverci chiedere un parere e non possono agire senza il nostro consenso.

Insider (2006)

Devo quindi assumere che con la SPV, con cui avete ristampato “Amplifier” e pubblicato “Insider”, le cose non siano andate troppo bene.
Assolutamente, è stato terribile. Come lo è in generale nei rapporti tra un artista e l’etichetta discografica, c’è un forte distacco tra le due realtà, e tu in sostanza puoi solo sottostare ai loro ordini, dato che sono loro a vendere i tuoi dischi. Una volta pubblicato “The Octopus” abbiamo capito che in fondo qualche possibilità di scegliere ce l’avevamo anche noi, inclusa la possibilità di scegliere con chi lavorare per far crescere gli Amplifier. Credo che i ragazzi della K-Scope siano quelli giusti e, fattore assolutamente non trascurabile, penso che la nostra musica gli piaccia veramente. Ma so bene che qualunque etichetta è pronta a dirti “Vi adoriamo, amiamo la vostra musica”, perciò staremo a vedere. Sono fiducioso, ma come dicevo prima: possiamo permetterci di scegliere, e quando puoi scegliere hai il potere di decidere del tuo futuro.

Quanto a libertà artistica, credo che voi non vi siate mai avvalsi dell’apporto di un produttore esterno.
Molti gruppi necessitano di una figura del genere, ma noi no. Ad essere sinceri, non siamo mai stati una band a cui affibbiare un produttore, non siamo quel genere di formazione da plasmare e rendere più pop, quello succede nel caso in cui la tua label abbia aspettative da classifica. Ma gli Amplifier non hanno mai fatto tendenza, e non hanno mai avuto bisogno di qualcuno che dicesse loro come devono suonare.
Ricordo ancora una discussione che avevo avuto con una donna che lavorava alla SPV riguardo l’ordine delle tracce sul nostro primo CD. Ebbene, le ho spiegato esattamente perché l’ordine dei brani dovesse essere quello che volevo io e nessun altro; al ché mi rispose:”Ok, non sono d’accordo con la tua opinione, ma la rispetto”. In sintesi, è difficile combattere contro chi è dotato di un’identità forte e precisa, e credo che quella degli Amplifier sia decisamente… scolpita nella roccia!

Per quanto mi riguarda, trovo che a livello di sonorità lo sia senza dubbio; a quanto pare lo pensano anche molti altri, che dichiarano di riconoscere il vostro imprinting musicale nella canzone “Matmos”, quella che potremmo definire il ‘singolo di lancio’ di “Echo Street”.
Questo è molto importante per noi, e aggiungo: onesto. L’integrità è per me la qualità più importante, sicuramente accomuna tutta la musica che adoro. Non mi piace ciò che viene realizzato a tavolino… o meglio, non necessariamente lo disprezzo, ma non gli do lo stesso peso che darei a qualcosa di genuino e onesto.

Per concludere: cosa è successo nei cinque lunghi anni che hanno separato la pubblicazione di “Insider” e “The Octopus”?
Scaricati dalla nostra etichetta discografica, ci siamo semplicemente ritirati nelle nostre stanze a suonare. Per almeno diciotto mesi non abbiamo fatto altro che bere, fumare marijuana e jammare. È stato meraviglioso!

Ma come sopravvive un musicista ad un lungo periodo di inattività discografica e concertistica?
Nella maniera in cui sopravvivono tutti i musicisti, fatta di benefici statali e di famiglie che ogni tanto ci rivolgono qualche attenzione; a volte lavoriamo come crew di altri gruppi per i loro concerti… e non c’è molto altro da aggiungere. Trovo interessante come certe persone non riescano ad immaginare un’esistenza senza un lavoro, perché a mio parere se hai una volontà forte puoi ottenere ciò che desideri. Conosco parecchie persone che hanno abbandonato l’attività di musicista per tornare davanti alla scrivania di un ufficio, per potersi permettere una casa migliore, un bel televisore ed una macchina, ed ancora oggi penso che in realtà non possiedono nulla. Vivere a modo nostro, non dico sia semplice, poiché in tal caso chiunque smetterebbe di lavorare; il mio punto è: se vuoi qualcosa, troverai un modo per ottenerla.
La differenza sta nel fatto che a volte non puoi fare certe cose solo per puro piacere, ma perché devi, e questo è il nostro caso, non lo facciamo per divertimento. Conosco chi ha la possibilità di poter godere del solo fatto di suonare in un gruppo, sarebbe un sogno per me, ma non posso permettermelo. Quindi, noi Amplifier dobbiamo rendere il nostro essere musicisti un’attività di successo, qualsiasi significato quest’ultima espressione possa avere.

Possiamo dire dunque che questa è la tua ambizione personale?
Yeah! A pensarci bene non è nemmeno ambizione, è una vera e propria malattia. È un’ossessione, ed una terapia al tempo stesso. Ho sempre desiderato essere un musicista, perché credo che questo mi renda una persona migliore e più riflessiva. Se non avessi intrapreso questa strada, sarei oggi indubbiamente un individuo completamente diverso.


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