INTO THE ABYSS (Usa 2011)
Questo film è stato presentato in anteprima per l’Italia al XXIX Torino Film Festival, nella sezione Festa mobile – Paesaggio con figure.
Werner Herzog, qui nei panni di regista e intervistatore, mette subito in chiaro le cose: la pena di morte è una cosa sbagliata, una barbarie che rimane insensata anche quando il dead man walking è evidentemente colpevole. Come nel caso di Michael Perry, texano, triplice omicida, intervistato pochi giorni prima dell’esecuzione.
Into the abyss è sicuramente un documentario pieno di umanità e compassione, un’opera che affronta con il dovuto rispetto un argomento estremamente delicato. Ma c’è di più. Perché la pena capitale è usata in questo film quasi come una scusa, un pretesto per parlare di qualcos’altro. Un qualcosa che corrisponde principalmente a due urgenze narrative, riconducibili ai personaggi e all’ambientazione. Parlo volutamente di personaggi e ambientazione e non piuttosto di testimoni e di luoghi dove gli eventi si sono svolti perché il documentario affronta una realtà così assurda e a tratti inumana che tutto si trasforma in racconto, in tragedia, in romanzo poliziesco alla maniera del Sangue freddo di capotiana memoria.
I protagonisti innanzitutto: individui strani, deviati, malati. Ci sono i due colpevoli, che fanno tanti bei discorsi ma mai sembrano pentirsi di ciò che hanno fatto. Ci sono i loro parenti e amici, un’accozzaglia di drogati, delinquenti, analfabeti e pazzi scatenati. C’è colui che un tempo fu il boia, che dopo 120 esecuzioni ha avuto un rigurgito di coscienza e oggi si dichiara contrario alla pena di morte. C’è il cappellano del carcere, che si commuove pensando agli scoiattoli che incontra sul campo da golf e che tanto gli ricordano le persone che ha accompagnato alla morte. Individui grotteschi che rimandano a tanti personaggi della passata carriera del regista (e non a caso il suo ultimo film di fiction, My son, my son, what have ye done, del 2009, parla proprio di un assassino fuori di testa).
E poi l’ambiente circostante: un’America che più provinciale non si può, piccola, povera, post-industriale, squallida e ignorante. Un posto senza bellezza, senza scampo, senza futuro, dove si uccide per un’automobile e si vive producendo in casa sostanze stupefacenti. Vedendo questi luoghi (nei quali, come di consueto, Herzog riesce comunque a scovare un fascino strano e un po’ perverso, geniale com’è nel fotografare piccoli istanti di pace naturale, tra discariche infestate dai gabbiani, strade deserte e inutili laghetti) quasi si capisce il punto di vista degli assassini, costretti in qualche modo a trovare non dico un senso alla propria esistenza, ma almeno una distrazione da tanta tristezza.
Quando ha ucciso quelle tre persone Michael Perry aveva 18 anni. Quando è stato assassinato dallo Stato del Texas, poco più di un anno fa, ne aveva 28, ovvero l’età che ho io adesso. Vedendo questo film non ho potuto non pensare a cosa è stata la mia vita, in questi dieci anni che io e lui abbiamo vissuto contemporaneamente, condividendo sempre la stessa età ma in modo così diverso: io ho viaggiato, mi sono innamorato un po’ di volte, ho studiato, mi sono laureato, ho trovato lavori che poi ho perso, ho conosciuto tanta gente… Insomma, ho vissuto, come molte altre persone. Lui no, non ha vissuto, ha passato gli anni migliori della sua breve vita ad aspettare una morte annunciata che è poi puntualmente sopraggiunta. Non so se una persona così, un omicida a sangue freddo e per futili motivi, abbia il diritto di vivere. Ma so che nessuno, su questa terra, dovrebbe avere la possibilità di non avere un simile dubbio.
Alberto Gallo