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Ieri ho finito di vedere “Into the Wild”, un bel film nel quale un giovane appena laureato abbandona soldi e benessere per scappare alla ricerca di una solitudine quasi completa con terra e natura selvaggia. L’ho visto già tre o quattro volte in tutto.
Qui il trailer, per chi fosse interessato > https://goo.gl/8y41xo
Si tratta della trasposizione cinematografica di una storia vera, la storia di Christopher McCandless, un viaggiatore statunitense vissuto tra il 1968 e il 1992.
Promesso, cercherò di evitare gli spoiler per quanti ancora non l’avessero visto.
Prima un piccolo passo indietro.
Quello del viaggio, della fuga dalla realtà, è un tòpos letterario che affonda le radici nel pieno Ottocento con autori come Baudelaire o Rimbaud, precursori del Decadentismo e quindi dell’antieroe decadente. La necessità di scappare nasce dal mondo divenuto plumbeo e fumoso, parto della Seconda Rivoluzione Industriale. E pensandoci bene, il protagonista del film (che si auto-rinomina Alexander Supertramp) mette in pratica letteralmente “Brezza Marina” di Stéphane Mallarmé.
Dicevamo, Alex molla tutto e inizia a viaggiare a casaccio, verso luoghi in cui la natura è ancora selvaggia. Sogna di andare in Alaska e vivere in mezzo a monti, fiumi, alberi e il cielo per tetto. La fuga è letterale: mollare ogni cosa inclusi gli affetti, che nel suo caso sono ridotti all’osso.
Non ho mai avuto modo di ricredermi sul fatto che l’allontanamento da ciò che ci circonda, è una operazione che non necessita affatto di un viaggio di 4mila km o di infezioni da piante. Non necessita di fame o freddo e non necessita di malattie.
D’accordo, la faccio facile perché vivendo su un’isola in mezzo al Mediterraneo ho più possibilità di interagire con la natura di un abitante – che so – di una metropoli ma nel film è sottolineato in maniera molto evidente che per poter “fuggire da tutto” occorra anche “privarsi di tutto”.
Ma tutto cosa?
Il “tutto” di un abitante del mondo nel 1870 è ben diverso (!) dal tutto di un abitante del mondo nel 2016 o del 2050.
Gli scarponi che Alex indossa per viaggiare e percorrere centinaia di km sono frutto di una ricerca tecnologica, la stessa che lui disprezza e che ha creato il mondo da cui scappa. Senza quelli ai piedi avrebbe al massimo percorso qualche isolato.
L’acciaio del bus nel quale si rifugia in Alaska gli ha consentito di costruire una piccola stufa al suo interno.
E i jeans che indossa?
E lo zaino che gli consente di portare una coperta in piume senza il quale sarebbe morto dopo 48 ore?
E il fucile con il quale si procura da mangiare?
E il libro che usa per identificare le piante?
E i camion sui quali sale per spostarsi da uno stato all’altro? Non vanno a gasolio?
Non vorrei essere frainteso.
Il messaggio del film è poetico, condivisibile e chiaro: non fermarti a quello che sai e non impigrirti, riferito a corpo e mente. Ma c’è una forte contraddizione: il diniego assoluto della tecnologia, del progresso, dell’oggetto in sé è dal mio punto di vista sbagliato e il finale del film mi dà ragione.
Non è buttando uno smartphone che si diventa più sensibili.
Non è chiudendo tutte le auto nei garage che diventiamo più intelligenti.
Non è il luogo di arrivo a fare il viaggio e nemmeno il percorso calcato o i panorami osservati ma l’occhio di chi guarda. E spesso, il buon Marcel ne sa qualcosa, tra il sognare di giungere in un posto e giungerci davvero è molto ma molto meglio la prima opzione.