“Quando la guerra finì, lo imprigionarono sotto la montagna. E per poter essere avvertiti se mai avesse cercato di fuggire, costruirono con la magia e con l’arte le cinque pietreguardiane, ultima e suprema creazione di Ginserat. Una andò a sud, al di là del fiume Saeren, nel regno del Cathal, una a Eridu, oltre i monti, un’altra rimase con Revor e i Dalrei nelle Grandi Pianure. La quarta pietra se la portò via Colan, figlio di Conary e suo successore al titolo di grande re, nel castello di Paras Derval.
La quinta e ultima pietra venne accettata, anche se a malincuore, dai lios alfar superstiti e decimati. Meno id un quarto di coloro che erano scesi in guerra con Ra-Termaine avevano fatto ritorno a Daniloth dopo la riunione ai piedi del monte. Avevano portato con sé la pietra e il corpo del loro re… i più odiati dalle Tenebre, perché il loro nome è Luce.”
Avete notato che questo articolo si intitola “Intorno a La strada dei re di Guy Gavriel Kay”, invece di intitolarsi più semplicemente “Guy Gavriel Kay: La strada dei re”? Quando faccio così e uso la parola intorno significa che divago. Parlo del tema che mi interessa ma lo faccio a ruota libera, lasciando ampio spazio a contaminazioni di tutti i tipi. Ritenetevi avvisati.
Il mese scorso, parlando di qualche Oscuro Signore della narrativa fantasy (il-ritorno-delloscuro-signore/), avevo iniziato un articolo proprio con la prima frase che ho scritto qui sopra. Quel giorno mi ero limitata alla prima riga e poi avevo spaziato su diversi autori. Ci sarebbe lo spazio per un bell’approfondimento, ma dubito che avrò il tempo. In realtà la mia intenzione, quel giorno, era di analizzare La strada dei re, il primo romanzo pubblicato (non il primo che ha scritto, ho scoperto recentemente che il suo primo romanzo è rimasto inedito) da Guy Gavriel Kay. Anche oggi avevo la stessa intenzione all’inizio, ma anche oggi ho divagato.
Mi viene da sorridere a pensare che questa è un’opera prima. Ma quante cose ci sono in questo libro? Troppe per parlarne bene nel tempo a mia disposizione. Una bella selezione di articoli si può trovare nel sito autorizzato dello scrittore: brightweavings.com/scholarship/. A vedere questi testi mi viene da chiedermi cosa possa dire di più io che non abbiano già detto queste persone. Mai provato un senso d’inadeguatezza, di smarrimento? Le opere d’arte vere lo danno, insieme a un appagamento difficile da esprimere a parole. Lo smarrimento arriva proprio da quello, dalla mancanza delle parole, anche quando le si cerca disperatamente. Perciò il mio testo di oggi non sarà molto lineare e nemmeno completo, dovrei scrivere ben altro per pensare di aver detto… tutto? Meglio se la smetto di chiacchierare, anche questo è tempo.
La strada dei re non è il primo romanzo di Kay che ho letto. È il primo che ho comprato, e l’ho comprato perché già avevo amato Il paese delle due lune, che invece è il quarto romanzo pubblicato dallo scrittore canadese. Da dove partire? Dall’inizio, di solito. Giusto? L’inizio, la prima mezza pagina, è quella che ho postato più in alto. L’inizio è molto tolkieniano, davvero non facciamo fatica a vedere Sauron in Rakoth Maugrim il Distruttore. Non potrebbe essere altrimenti, sia perché Kay conosce molto bene l’opera di J.R.R. Tolkien – per un anno ha collaborato con Christopher Tolkien alla revisione del Silmarillion – sia perché lui da lì voleva partire per dimostrare che usare elementi già noti non significa necessariamente scrivere sempre lo stesso romanzo. Diciamocelo, La spada di Shannara di Terry Brooks è per larga parte una riscrittura più moderna del Signore degli anelli, anche se Christopher non ha mai intentato una causa per plagio a Terry. Fino a un certo punto la cosa mi sta anche bene, Brooks ha contribuito a rendere il genere fantasy popolare ed è anche grazie a lui se gli autori successivi hanno potuto scrivere e se io ho potuto leggerli. Non amo le opere di Brooks, ma hanno un senso, senza contare che Il demone mi è piaciuto davvero. Sono tutti gli altri, coloro che hanno copiato Brooks e pubblicato opere davvero mediocri, quelli che mi irritano, anche se poi sono stati dimenticati. Provate a guardare un po’ i libri che vengono pubblicati: quando un’opera ha successo ci sono sempre i furbi che cercano di cavalcare l’onda e che alla fine che uccidono quel mercato per sovrabbondanza di testi che non valgono la carta su cui sono stampati. Lo so, lo so, sto divagando un’altra volta, ve lo avevo detto che era difficile.
Kay ha preso elementi molto noti dalla letteratura, da Tolkien ma non solo. Voi sapete chi è Alan Garner? Se la risposta è no significa che non siete stati attenti, o che non mi seguite da abbastanza tempo. Nel 2012 a Garner è stato assegnato il World Fantasy Award for Lifetime Achievement, così io ho fatto qualche ricerca su di lui e ho pure finito con il comprare – e apprezzare – La pietra magica di Brisingamen. Ne ho parlato qui: alan-garner-la-pietra-magica-di-brisingamen/. Riparlarne mi ricorda che poi non ho più acquistato La luna di Gomrath, dovrò rimediare. La pietra magica di Brisingamen è del 1960, perciò è uno di quei testi su cui Guy Gavriel Kay (classe 1954), George R.R. Martin (1948), Robert Jordan (1948) e tanti altri autori che amiamo si sono formati. E, al suo interno, ci sono i lios-alfar. In pratica sono elfi, ma ritrovare in Garner il nome che tanti anni dopo avrebbe usato Kay (che io ho letto molto prima) mi ha fatto un certo effetto. Nel mio vecchio articolo avevo citato anche due versi di una canzone di Garner:
Quando l’estate in inverno volgerà
giungerà la minaccia della guerra.
Lasciamo stare il classico (per chi mi legge abitualmente) l’inverno sta arrivando di Martin. Problemi con il clima, con un inverno che non ci dovrebbe essere, li abbiamo anche nel secondo volume della Trilogia di Fionavar, La via del fuoco, ma anche nel primo romanzo della Ruota del Tempo, L’Occhio del Mondo. Giusto per contestualizzare La strada dei re è del 1984, La via del fuoco del 1986 e L’Occhio del Mondo del 1990, e non sto accusando né Kay né Jordan di plagio. Sono echi che tornano da un libro all’altro, e che con il loro risuonare mi danno i brividi. Il plagio c’è solo quando non si inserisce un proprio contributo originale, non per il semplice fatto di aver usato un elemento già usato da qualcun altro. Intanto io con tutte queste parole non sono neppure uscita dal prologo.
Rakhot aspetta, e noi ovviamente sappiamo che si libererà. Ci deve essere un nemico da combattere, altrimenti siamo a livello di Peppa Pig. Alle mie bimbe piace, ma loro sono bimbe. Il prologo dura tre pagine, poi passiamo alla prima parte in maggio, nell’università di Toronto. Il tempo per ambientarci, per avere una piccola infarinatura della situazione, e quindi partiamo per Fionavar. Ormai anche questa è una situazione davvero molto usata, alcune persone del nostro mondo che vanno in un altro per aiutare i locali a risolvere i loro problemi. La prima volta che io ho letto una storia basata su questo presupposto era in un fumetto, non so più se Skorpio, Lanciostory o qualche altra rivista che comprava uno zio che viveva in Calabria e nella cui casa, ogni estate, leggevo tutti i fumetti su cui riuscivo a mettere le mani. Alcuni ragazzi venivano portati, non ricordo più come, in un mondo (universo?) diverso, e sconfiggevano un nemico temibilissimo, di qualunque nemico si trattasse. Davvero non ricordo altro, sono passati troppi anni, solo che l’idea di partenza mi era piaciuta. Quando l’ho ritrovata in Kay mi era già nota, ma nella narrativa fantasy c’era certamente almeno un precedente molto importante costituito da La conquista dello scettro di Stephen Donaldson, romanzo del 1977 (stesso anno della Spada di Shannara). La prima volta che ho provato a leggere La conquista dello scettro, nei primi anni ’90, l’ho abbandonato perché mi annoiava. Ho terminato la lettura all’epoca della ristampa Fanucci, nel 2006, ma ugualmente non mi è piaciuto. Thomas Covenant mi sta antipatico, e quando il protagonista di un libro mi sta antipatico in genere il libro non mi piace. Ciò non toglie che per la narrativa fantasy Le cronache di Thomas Covenant, l’incredulo siano state importanti.
Se volete leggerle su Amazon ci sono le prime pagine dopo il prologo (in inglese), ma sono davvero poco per capire cosa sta accadendo e per apprezzare la storia: http://www.amazon.com/Summer-Tree-The-Fionavar-Tapestry/. Un altro pezzo si trova sul sito autorizzato di Kay, ma visto che si tratta di parte dell’ottavo capitolo se non avete letto il romanzo io vi sconsiglio la lettura anche se vi metto il link: http://www.brightweavings.com/passages/summertree1.htm. Ci sono cose che fanno più effetto se le si legge nel giusto ordine.
“Nei brevi intervalli di tranquillità – sporadici e travolti nel turbine di tutto ciò che seguì – la domanda che continuava ad affiorare era: perché. Perché proprio loro? La risposta più immediata, che aveva a che vedere con quanto aveva detto Ysanne dalle rive del suo lago, in realtà non coglieva l’interrogativo più profondo.”
Prime frasi del primo capitolo. Un perché ce lo fornisce David Eddings in un libro che avrei letto molti anni dopo, Il codice rivano:
“Un eroe tonto è l’eroe perfetto, perché non ha la più pallida idea di ciò che sta succedendo e, nello spiegare le cose a lui, lo scrittore le spiega ai lettori. Non eccitatevi, non sto sminuendo Garion. È più innocente che stupido, nello stesso modo in cui lo era Parsifal. In realtà, è alquanto intelligente, ma è un ragazzo di campagna, non è stato tanto a contatto con il mondo.”
John Howe
Questo può essere un atro motivo per avere per protagonisti dei ragazzi provenienti da fuori di Fionavar, avere persone all’interno della storia a cui le cose vanno spiegate evitando allo stesso tempo di dire banalità a qualcuno che invece le cose le dovrebbe conoscere benissimo. Un abitante di Fionavar sa qual è il legame mago-sorgente, un terrestre no fino a quando non gli viene detto. È comunque anche un modo per donare nuova vita all’ormai abusata abitudine di prendere un personaggio e portarlo in un mondo incantato. È importante, davvero, che i cinque siano terrestri. Non si tratta di un semplice topos. La nostra mitologia in Fionavar troverà un’espressione molto concreta e se non fosse stata la nostra non avrebbe avuto la stessa forza. C’è, per esempio, il ciclo arturiano qua dentro, anche se è campo del secondo romanzo. Le basi ci sono già qui ma i frutti arriveranno più avanti.
Potrei andare avanti in eterno a parlare dei singoli elementi. Qui ho solo accennato ai primi punti in cui mi sono imbattuta, e già ho scritto parecchio. Se vogliamo però possiamo tornare anche più indietro. In italiano il romanzo si chiama La strada dei re, ma in lingua originale è The Summer Tree. L’albero dell’estate. Ma quale albero? È estate nel grande regno di Brennin, un’estate che dura da troppo tempo e che non è naturale. In Robert Jordan troveremo prima l’inverno innaturale e poi l’estate, qui cominciamo con l’estate. Con un albero. L’avete visto il bellissimo albero di John Howe? In realtà nei romanzi è diverso, qui manca la foresta e ci sono troppe persone, ma quell’albero è davvero straordinario. E c’è un albero, dietro al quale fa capolino un lupo, anche in un’altra meravigliosa illustrazione realizzata da Martin Springett. Perché non ho comprato i libri con quelle copertine quando avrei potuto? Ora risultano esauriti, grrrrr!!! Io comunque vi metto il link al sito di Springett, contiene illustrazioni meravigliose (e se siete interessati potete pure acquistare i poster): http://www.martinspringett.com/.
Voi conoscete l’Albero del Mondo? Di alberi del mondo e alberi della vita, sono piene le mitologie. Abbiamo alberi importanti nella Bibbia, ma a me il primo che viene in mente è Yggdrasil. Pagana fino al midollo, non c’è che dire. Comunque se non conoscete almeno un po’ di mitologia norrena andate a studiare, vi garantisco che è davvero affascinante. Io me ne sono imbattuta per la prima volta, se escludiamo i vecchi fumetti di supereroi incentrati su Thor, nel Castello d’acciaio di L. Sprague de Camp e Fletcher Pratt, e ne sono stata incantata fin da subito.
Che l’albero sia un frassino, un tasso o una quercia, è poco importante. Quello che conta è la sua funzione di legame fra Cielo e Terra, ma anche il suo legame con la conoscenza. Odino vi è rimasto appeso per nove giorni e nove notti in cerca della conoscenza, ha sacrificato un occhio ed è legato ai due corvi Huginn e Moninn, Pensiero e Memoria. Conoscete Matrim Cauthon detto Matt? Rileggete la sua storia da questa prospettiva, e pensate all’albero che si trova non lontano da Paras Derval, e ai due corvi che lì fanno la loro prima apparizione. Davvero dovrei scriverne, ogni volta che penso ai corvi, all’albero e all’uomo che vi viene appeso mi vengono i brividi. Indipendentemente dal suo nome in quell’occasione.
Ma non è solo Pensiero e Memoria, che in questo caso è anche un peccato da espiare. Si tratta anche del legame del re alla sua terra. Nella leggenda del Graal il re e la sua terra sono ammalati. Il legame è forte e impossibile da spezzare. Questo è qualcosa che già era noto nell’antichità: il benessere del sovrano e della terra su cui questi governa vanno di pari passo. Il che significa che quando la terra è malata oltre ogni speranza di guarigione il re si deve sacrificare. Il sacrificio di uno per il benessere di tutti. Mannaggia, dovrei proprio decidermi ad andare a recuperare i miei appunti e i relativi libri di Storia delle religioni ed Etnologia, più scrivo e più mi sento arrugginita. Il re è legato alla terra, e nel mondo di Fionavar il legame passa attraverso l’albero dei re. Semplice, no? In teoria sì, ma riassumerlo con queste frasi e narrarlo con le parole di Kay sono due cose ben diverse. E poi ci sono la Caccia selvaggia e il corno che risveglia i dormienti, Macha e Nemain e anche una Dana che mi riporta alla mitologia greca, ma di nuovo i discorsi sarebbero molto lunghi, al punto che non li comincio neppure.
Fino a ora ho girato intorno al libro, non ho davvero parlato di lui. Nella Strada dei re confluiscono una quantità incredibile di archetipi, e la storia ha un legame strettissimo con svariate mitologie e con una gran quantità di precedenti letterari, al punto che sono convinta di aver colto solo una piccola parte. E quella piccola parte è sufficiente a darmi i brividi. Ma non è per questo che amo quel libro. Sì, anche per questo, quando una storia riesce a risuonare dentro di noi, a far perdere la nostra mente in un caleidoscopio di rimandi e allusioni, allora è già sulla buona strada per entrare fra quegli elementi che costituiscono la nostra essenza e che determinano le nostre reazioni.
La prima cosa che si nota, se mettiamo da parte Tolkien, Gardner, Donaldson e tutti i riferimenti letterari, sono i personaggi. I cinque, come li definisce semplicemente Kay: Kimberly Ford, Kevin Laine, Jennifer Lowell, Dave Martyniuk e Paul Schafer. Per un po’ Dave lo perdiamo di vista, e finiamo per farci abbagliare da Kevin. E Jennifer… se avete letto il libro sapete cosa ha dovuto affrontare. Quelli che più amo sono Kim, e non posso non pensare con dolore a Ysanne, e Paul. C’è Loren Manto d’argento, certo, un mago serve sempre, anche se solo più tardi avrei capito che ero molto più affascinata dalla sua sorgente, Matt Sören, un nano del Banir Lök. C’è chi ritiene che un libro fantasy debba per forza parlare di altre razze come nani ed elfi, ma anche questo è un topos che volendo si può ignorare. In questo caso Kay lo mantiene, ma non farà sempre così e io sono d’accordo con gli autori che usano i topoi solo se servono, altrimenti se ne può fare a meno. Abbastanza presto arriva Diarmuid dan Ailell, e in un primo momento me n’ero fatta un’impressione sbagliata. Prende ogni cosa con divertimento, vero, ma da quella scena nella sala del trono cambia tutto, e io lo amo alla follia. Ma sto accumulando nomi, e i nomi da soli non servono a niente. Il punto è che questi personaggi sono vivi. Si teme per loro, si soffre con loro, si gioisce con loro, si viene sopraffatti quando finiscono per mescolarsi sentimenti contrastanti, gioia e dolore insieme, e questo avviene più volte. Molte volte ho sofferto per loro, pur ammirando ciò che avevano fatto. Molte volte non ho potuto fare a meno di sentire una stretta al cuore, o di esultare, o di ritrovami travolta da così tante emozioni, e così forti, da dovermi semplicemente fermare. Chiudere il libro un minuto, o magari anche cinque, rifiatare un po’ respirare, assimilare quanto avevo appena letto per poi ripartire.
Lo avete notato? I libri più belli sono quelli che si divorano per la maggior parte del tempo, quando almeno non siamo obbligati a fermarci per riformulare quel che credevamo di sapere, che credevamo di essere. Con Kay è così: parto piano, inizio una progressione inarrestabile e divoro pagine su pagine, poi all’improvviso mi blocco, rifaccio l’assetto e riparto a tutta velocità. E una volta che ho finito vorrei ricominciare da capo. Amo i suoi personaggi. Tutti. E anche lui, pure quelli minori. Ci scherza, ci scherziamo:
Una volta, riuscendo a essere divertente nel fare un complimento, qualcuno ha detto che “Kay non riesce mai a incontrare un personaggio secondario che non gli piaccia!”. È quasi vero: io posso non amarli tutti davvero, ma sono interessato a loro. Se i miei romanzi hanno ottenuto un’intensa risposta da parte di lettori provenienti da tutto il mondo, penso che sia in parte dovuto a questa volontà di prendermi uno spazio nella narrazione per donare “la vita” a personaggi che non siano solo quelli principali.
Si tratta di una frase proveniente dall’intervista che gli ho fatto per FantasyMagazine: i-mondi-fantastici-di-guy-gavriel-kay/. Li ama tutti (o almeno è interessato a loro), e tutti sono vivi. E poi c’è il suo modo di scrivere. Ho provato a spiegargli l’effetto che ha su di me, e spero che mi abbia capita perché il mio inglese sarebbe davvero da perfezionare. Me la cavo solo nella lettura, e non è poco considerando le emozioni fortissime che la lettura in inglese mi ha dato. Se non altro con i sei romanzi di Kay che altrimenti non avrei letto, e dovrei davvero decidermi a comprare il settimo. Lui scrive, mette una parola dietro l’altra, una frase dietro l’altra. Accumula. Sembrano tutte frasi normali, come quelle che potrei scrivere anch’io. Solo che quando scrivo io non sono capaci di provocare quelle reazioni. Una manciata di parole e all’improvviso io scoppio a ridere, o a piangere, o a tutt’e due, ma se togliessi la frase dal contesto voi non capireste perché. È un accumulo, quella frase fa effetto perché arriva dopo una determinata frase, che arriva dopo un’altra che si trova dopo un’altra ancora, in un determinato contesto. Come la classica goccia che fa traboccare il vaso: l’effetto lo ottiene una goccia sola, ma lo fa perché prima ci sono state tutte le altre. Le parole risuonano fra loro, e insieme hanno un effetto dirompente. E poi c’è quel modo di intrecciare la storia, di alternare i punti di vista, di andare indietro nel tempo e nello spazio, di fornire o non fornire informazioni.
Io odio quando gli scrittori mi nascondono deliberatamente delle informazioni. Vivo la cosa come una truffa. Ho letto romanzi in cui ad alcuni membri della Compagnia il (o i) leader ha detto che non gli avrebbe dato troppe informazioni per non farli preoccupare, e che avrebbe pensato lui a tutto. Cioè, andiamo insieme in mezzo al pericolo, e tu neanche mi vuoi dire cosa mi troverò davanti? Ma vai a vivertela da solo la tua avventura!, mi verrebbe da dire. Mi sembra un sistema tanto comodo (e inefficace, anche ma non solo perché poco realistico) per cercare di creare artificialmente della suspance, perché lo scrittore non sa farlo in altro modo. Diverso è il caso se i personaggi parlano fra di loro ma il narratore riesce a fare in modo che il lettore non scopra cosa si sono detti fino a quando non lo vuole lui, e questo è quanto fa Kay.
La trama, all’inizio, sembra lineare: un Oscuro Signore imprigionato mille anni prima – i numeri tondi a quanto pare ricorrono sempre – e una Compagnia che si forma per portare avanti la sua Cerca. Ma qual è la Cerca? Perché qui non c’è un anello da gettare dentro Monte Fato, o una spada antica da recuperare. Noi conosciamo la posta in gioco, il Primo mondo e con lui tutti gli altri, ma non sappiamo quali mosse porteranno alla vittoria. Il percorso va scoperto, e non ci sono neppure le profezie di Eddings ad assicurarci che era già stato tutto previsto. Abbiamo una veggente, certo, ma le visioni non arrivano quando le desidera lei, mostrano cose imprevedibili e le forzano la mano in modi che spesso non gradisce. Abbiamo personaggi che sembrano destinati a una determinata sorte, ma davvero il destino è più forte della volontà del singolo individuo? Il discorso sulle libere scelte è molto importante in questa saga, sono le scelte che compiamo quelle che davvero ci definiscono anche quando sembra che le circostanze vorrebbero farci prendere altre direzioni. Volendo ci sono sempre direzioni più facili da prendere, ma quello che conta è ciò che noi riteniamo importante, ciò a cui diamo priorità. Ciascuno ha il suo percorso. I cinque, ma anche tutti gli altri che incontriamo lungo il cammino. Anche gli dei, la cui volontà può essere espressa dal sorgere di una luna bella e spaventosa, impossibile eppure reale, come reali sono i sentimenti mossi dalla penna sapiente di Kay.
Potrei andare avanti ancora a lungo, ma io ho già dedicato troppo tempo alla scrittura e voi me ne avete dedicato ugualmente tanto con la lettura. Cercate questo libro e leggetelo, vi aspetta un viaggio meraviglioso in quel mondo di cui tutti gli altri sono solo riflessi sempre più distanti.