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Introduzioni: Enrico De Lea, Ruderi del Tauro

Da Narcyso

Enrico De Lea, RUDERI DEL TAURO, L’Arcolaio 2009

INTRODUZIONE 

Nell’antro dei vulcani

Introduzioni: Enrico De Lea, Ruderi del Tauro
Questo libro di Enrico De Lea ha dei numi tutelari: si tratta di linguaggi –  lingue/codici per meglio dire –  ma anche di un paesaggio; luogo per mettersi in contatto col dentro e il fuori,  il vicino e il lontano.

  Avvertiamo una lingua normativa che fa riferimento al padre, alla Legge e al suo apparato burocratico: codex, giurisdizione e territorio. Il latino, quindi, da intendere non come lingua di riferimenti letterari ma lingua del diritto.

  C’è poi la lingua di una modernità franta, che tutto frantuma e tutto ricrea; neologismi, soprattutto,  che devono molto a sostrati di cultura e parlata dell’infanzia, ma colta, questa,  di lontano, nella sua ossatura ancestrale. Lingua della madre – anche se in scarsa  rilevanza – se non altro per contrasto, per contrapposizione tra la gerbia  –  vasca dell’utero estroflesso, custode –  e la necessità della civitas, della norma, il cui compito è quello di superare la pietas.

Il tutto nello sfondo – ma anche in memoria – di ruderi di città, di torri di avvistamento, luoghi di custodia, sbaragliati per sorte di Necessità antica, dea imperscrutabile e necessaria che i siciliani ben conoscono.

  E, nello sfondo, isole inanellate di fumi, di antichi rimbrotti e fucine. E’ questo laboratorio magmatico a  sottoporre la lingua  a torsioni e urti, a spingerla verso un espressionismo autorizzato, come vedremo, dal compito di dare senso alle perdite.

Rimangono nello sfondo queste isole, insieme ad altri paesaggi diruti di rovine – certo – ma anche di materie mobili e pererigrazioni, di movimenti verso la lontananza; o contrari, introflessi, verso il ventre dell’isola, le sue cavità, i suoi rifugi.

  Il libro, in effetti si struttura secondo l’andamento liturgico di una preghiera non istituzionalizzata, di difficile pronuncia, piuttosto, che non canta l’ossequio e non invoca il miracolo, ma costituisce l’accompagnamento salmodiante del  pellegrino. E’ una liturgia da intendere come rosario – forse ciò che resta di cerimonie pubbliche, non  più efficaci, officiate davanti agli altari di divinità sincretiche, ora preghiera privata, da offrire per ciò che rimane –.

“Infame dubbio del lanzatore,/se d’anima si tratti, con l’arma sbreccia/un vento d’acque, un coro inferno, quarto/di carne evaporato, stretto e sempre/tra feluca e luntro, lotta e tana/nella rema…”, (due mari).

  Ecco: subito sentiamo l’effetto di un impasto consonantico e vocalico vòlto al raggiungimento di effetti paesaggistici, tutti in riferimento al titolo della raccolta, a queste pietre scisse e avanzate. In contrasto cacofonico: due mari, due venti; suggestioni dantesche, animali fiabeschi in territorio di spartiacque –  emotivo, storico e culturale –  ma soprattutto di un immaginario in via di estinzione. Poi entriamo nel ventre boschivo dell’isola: “In essere la vacuità del volto,/il profilo narciso all’acquitrino,/gelata venatura contro il nero/e tramortito arido alle fonti./Là, remigando placidi, le canne/scostano i rematori insonni,/appesi ad un’attesa di perenne/premonizione in mezzo ai fumi,/digiuni delle origini a un fortino.”, (attese lacustri).

  Ecco le acque di un contrasto spesso evocato: il mare del viaggio e della lontananza, del rinnovamento; ma anche la perdita e le acque stagnanti dell’attesa e del trattenimento, della gabbia uterina e della placidezza, contrapposte, poi, al vino del distacco. Acque, dunque, di questa terra: sorgenti e fontane delle selve boschive, come a indicare l’ambivalenza del partire e del restare, veri sentieri biforcuti di una terra che De Lea inquadra nelle direttive dello sguardo dei folli o dei veggenti: “Il folle zio Domenico è veggente,/urla gli incendi le miserie il secco”, (acque reali).

  Paesaggi, dunque, nello sfondo di uno sguardo di erranza: orologio e norma del tempo,  – il tempo del giusto e del dovuto  – che ha bisogno dell’altare del sacrificio e della   preghiera più consona, più efficace. L’immagine di questo sacrificio accosta sacro e profano, sostrati culturali e sincretismo – la parola tradisce l’esilio trattiene –.

  E’ una forma di sequela questa preghiera, non nella forma della ripetizione incessante snocciolando le perline di un rosario, ma in quella della enumerazione di immagini spiacevoli. Il tutto per dire l’assenza, il locus deserto del padre.

  Potremmo metterle in fila queste corrispondenze sonore, modernissime e antichissime nello stesso tempo: mercatura, passio omiletica, soror: ora della scorza e patronimico; sismi nelle parole per evocare una specie di squarcio nel velo del tempio. Per dire  che “trema la terra senza il padre, trema,/promessa ostesa,/d’un qualsivoglia frutto del verbo,/fèrula cannizzo scanno/palma astuta d’ombra…” .

  La scomparsa del padre è dunque all’origine di questi ruderi del Tauro, il terremoto che ha  scardinato le parole, facendo emergere dallo scavo il loro scheletro, la loro storpiatura, come stortate lastre di basalto. Assistiamo allora alle antiche scene di un mortorio, o di un disincantato inventario del dolore, possibilmente anestetizzato con le formule del lutto: “Conserva l’olio per la carità dei morti,/per la pelle del silenzio consolante”; ma il rito riguarda anche le parole: “penombra del muschio  paterno,/narrativa del verbo senza carne”.

Il padre, però, non è possesso, perché “la quieta morte,/si smentisce nella lingua dei padri”. Il padre è rinnovamento. E’ vedetta. Si tratta di dare salvezza al viandante per la promessa di “una calma antica,/di in quieto movimento dell’occhio”. Ora questo viandante si muove verso l’interno, boschivo per le furie; vediamo cosìun paesaggio attraversato da rovine:  chiese, are come antiche croci celtiche a segnare le pietre miliari della terra di antichi culti, di antichi sacrifici.

  Ecco apparire, allora, in contrasto, opposte reminescenze: l’ara occitanica, la scure, l’orda, il gabbo; e la carità del verbo che redime, in contrapposizione alle piazze delle città, alla recinzione –  anche attraverso le parole –  del luogo scuro e oscuro. Il nulla diventa “il gradone basaltico/per l’estro di assenza del lupo”. E’ un ordine dorico l’ordine della parola che segue lo spartiacque  tra ordalia, faida e consultazione, Legge.

  La parola, dunque, è scortecciata. E’ salvata, superstite, dalle rovine; arginata.

  E’ come assistere alla forgiatura della parola nell’antro di Vulcano, Stromboli, Etna -  a muntagna -  parola scaraventata nel fuoco e fatta emergere con le sue spigolature; non polita, ma pericolosamente in bilico tra estroflessione dell’umano e dirupo, tra senso e affossamento, offerta e sacrificio. Quasi una dichiarazione di poetica: “Aveva immaginato,/a tratti, di comporre/ossa, lacerti della carità nostrale./Comunicava con la stirpe/con impercettibili segnali/di fumo, vapori da tegami/in terracotta./Credeva poi alla buona sorte/del tronco -  da incidere,/scolpire…”, (un’arte).

  Sono riferimenti a una escatologia del tempo che ha rotto i suoi orologi dopo lo squarcio, la morte del padre, “dalla rocca-calvario/nella notte del corpo,/ad ora nona”.

  Se c’è un verbo centrale in questa  raccolta è, dunque, impetrare.  Parola che suggerisce un lavorio sulla lingua, come il lavoro dello scalpellino sulla pietra. Ma anche il ricordare una forma, riconsegnarla. Il testo appare, dunque, stratificato, ma anche connotato in una lingua – lingua difficile la definirei con una formula provvisoria, e anche per accomunarla ad altre prove di scrittura difficile di questi anni –.  Così troviamo il sincretismo di cui siamo fatti la croce e gli avi, a partire dalla terra – la sua lingua, soprattutto – espressa ancora una volta nei risvolti drammatici di passaggi epocali: la scomparsa delle guide, della loro cadenza terrena e imperativa.

  Il libro sembrerebbe dunque un pellegrinaggio verso le origini, un canto funebre per accompagnare il padre “con una lignea campana di passione e lutto/nella cerca del tronco della stirpe”, tra gli anfratti incandescenti di una terra lavica, sempre disposta a cancellare le tracce dell’umano – compresa la parola – che però non riesce a dimenticare ed è costretta a fare i conti con i suoi debiti, tributario del nome dei morti.

  Così si fa più chiara l’immagine del pellegrino, nella trasformazione, poi, in anacoreta; di un trasmigrarsi e di un fermarsi dopo il cammino, nel fitto bosco, dove lontano, selvaggio vive luminescente il santo selvaggio.

  L’immagine di questo pellegrino è stratificata in reminescenze culturali, in lontananze che ci appartengono, dal lauro ad altre possessioni; acquista il tono di preghiera, della parola alta del santo, del martire “lazzariato/del prosciugato volto”, acclamato dai folli in un patos/panico che giunge al sangue, a “una cava diruta, una/traccia d’arenaria informe”, fino a una sconsacrazione.

Questo padre, infine, giunge alla sua pace, varca il cancello dei morti sul quale si ferma estraneo lontano dai lumini, e “l’angelo dell’obitorio/accosta l’ala nera del conforto….” (epiche del conforto). Il padre appare per quello che è veramente:  maestro di scuola, maestro anche del figlio; è colui che incarna nitidamente il ruolo di chi ci fa attraversare la Storia tutta, come l’anacoreta che guarda a oriente “dov’era la luce, in cui a stento/era possibile discernere crepuscolo da aurora”, (in un transito). Questo padre, dunque, la cui luce in ombra è preferita al candore violento delle madri, è portatore di una normativa bulla, di cui il figlio fa sempre scempio.

  Il libro scopre, in questi passaggi il suo tono visionario più alto: le fondazioni emanate dalle macerie nell’attraversamento della Storia; un’era ideale di giganti, di figli, per il  prossimo fuoco delle acque, (torre saracena). “L’anacoreta eletto a nuovo patrono/forse rappresentava l’affermazione/chisciottesca del regno del feudo,/l’annichilirsi delle ultime libertà civiche?/O, forse, dalla sua presenza, in alto,/si disponeva la fierezza di un nuovo ceto/di eroi discreti, una massoneria/dello spirito e della rendita agraria?” (domande in paese)

Nel bellissimo testo finale (prova delle madri), le durezze e le punte affilate del libro si spezzano in nome della dolcezza della ninna,  del canto consolatorio. Bellissima l’immagine delle pietrose minne di queste madri della certezza e del dolore;, ancora descritte in una litania, in una ripetitio degli attributi. La madre, qui, è il non contenibile, il non contenuto che non può essere detto. E’ ciò che non fonda, ciò che non può avere forma. E’ la negazione della dialettica volitiva e della gloria: “madri della pazienza e della perdita/della memoria nel passo quotidiano,/madri dei figli, madri dai tanti figli/senza vostri figli, madri degli uomini/sotto lo stesso lenzuolo,/madri del racconto ripetuto e della predica,/madri nel giusto alzate, una preghiera/che da sola echeggia…”

  A queste madri il poeta contrappone  la confusa e dimenticata voce maschile di scaglie petrose battenti sul dirupo; i punteruoli  che “hanno spronato/i muli verso argini montani”;  con la promessa di ricadere nelle rose e nel maggio.

Sebastiano Aglieco

Il blog di Enrico De Lea

 


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