Mauro Germani, LIVORNO, L’Arcolaio
Città evocata nella lontananza dei pensieri, di un destino personale: è Livorno, con “le cupole alte della notte/e le ceneri, gli avvisi/del tempo” Ma soprattutto il nome perduto, la memoria di nessuna carne, come se, potendo descrivere precisamente il luogo che abbiamo abitato la prima volta, potessimo dire tutta la mancanza del mondo. Ecco, allora, una Livorno livida, poetica, perimetro che contiene e discosta, che si fa guardare e urta, “ patria nostra sempre”, dove i balconi si affacciano “sul precipizio del cuore”, muti, senza parole che sappiano dirci chi siamo veramente.
Su questa mancanza fondativa, la poesia di Mauro Germani costruisce i suoi pieni e i suoi vuoti. Ma anche improvvise accensioni che illuminano l’attimo e poi riconsegnano il senso al disinganno oscuro dell’origine; proprio ad evidenziare una dimensione precaria costantemente minacciata dal nulla e da un abissale senso d’irrealtà, la richiesta di un’autenticità esistenziale che sembra impossibile da raggiungere: “un attimo di terra, un destino vero/nome e cognome in un punto solo,/una pausa infinita,/un dio di niente…”.
Così nella sezione “Il cerchio”, è proclamata la necessità della parola di esistere fra gli uomini; e però nella misura del distacco, dello sguardo veggente che ha visto tutto; non che preannuncia. Sono testi che sembrano parlarci da un passato dove ogni cosa è avvenuta, dove nulla può essere recuperato. Non c’è il rimpianto di una felicità perduta, ma la constatazione, ben più radicale, di una perdita: “E’ questa la sconfitta di Dio,/la verità perduta nel tempo”.
Si tratta, dunque, del compito di imparare a vivere nell’assenza, con lo sguardo lucido e disilluso e la consapevolezza di essere “un diario mai scritto, una voce persa, il gelo solitario e spaventato”.
Vivere severamente, ma anche serenamente, senza il carnevale della vita con tutti i suoi colori, il frastuono dell’orchestra. Il libro è costruito come variazione sul tema del destino, basso continuo, insistente, intorno al quale la voce tesse la sua disillusa melodia, i suoi motivi in bianco e nero.
Il poeta abita ancora il Novecento, i suoi drammatici discorsi intorno a una parola franta, incomunicabile. Il Nome si è perduto per un evento che ha catapultato l’essere nel mondo, nella pesantezza delle cose. La poesia non compie alcuna ricerca, non tramanda e non guadagna corone d’alloro. Attesta, semplicemente – nel dettato dell’esistenza e cogliendone le infinte variazioni – il linguaggio di fondo che l’angelo ha dimenticato. C’è una cantilena triste in queste poesie; esclamazioni: “Oh, lacrime senza volto,/fuochi d’esilio/e d’insonnia, congedo/di tutto l’universo” lamento dell’essere che abita il mondo nella condizione dell’esilio, del pellegrino, “dove tutto non c’è”.
Un senso di ineluttabilità attraversa la sezione “Come un destino”, il mistero di un amore che è tutt’uno con la sofferenza e il desiderio di una vita diversa. Qui è possibile leggere la fatica del vivere nella città tentacolare, una Milano vista in negativo, con risvolti coloristici estraniati. Ma anche l’impossibilità del ritorno in un qualche luogo natio; per pacificazione, per consolazione.
Lingua umile, questa, forse meno filosofica rispetto al passato, più legata all’esistenza, che segna un passaggio dalla prosa poetica degli altri libri alla scrittura in versi. Volutamente più povera, senza il vestito buono della festa; che sa di essere destinata a sparire come tutte le cose; senza appello, senza sogni di gloria: “ Scegliere il silenzio, ecco/scrivere per non capire,/per non essere più”.
Sebastiano Aglieco