Ho ascoltato, in libreria, il confronto fra due signore sul caso Dalla. Una sosteneva che lo strascico di “polemiche” sulla sua sessualità era del tutto fuori luogo visto il momento e il contesto. L’altra, invece, diceva che secondo lei le polemiche erano inevitabili visto che agli e alle omosessuali non vengono riconosciuti diritti e dignità.
Dunque è a questo, come al solito, quello a cui siamo arrivati. Da una parte noi, che, secondo alcuni, non perdiamo occasione per sbandierare la nostra condizione e dall’altra quelli che sostengono che “certe cose” appartengono alla sfera del privato.
Ho trovato la cosa molto triste, ovviamente, perché siamo abituati a vedere le cose solo da nostro punto di vista, perché è sempre o tutto bianco o tutto nero.
In una società perfetta il mio orientamento sessuale e sentimentale non dovrebbe contare. Così come non dovrebbe aver nessun peso la differenza fra i sessi e i generi. O il colore della pelle. O le proprie scelte religiose.
Ma non viviamo in una società perfetta.
Siamo talmente abituati a vivere in questa società, con tutte le discriminazioni, i problemi di convivenza, le distinzioni, che ci dimentichiamo che, dall’altra parte, ci sono persone diverse da noi con problemi diversi dai nostri.
Io mi rendo conto che le polemiche, che anche io reputo in un certo senso e a livelli diversi, fuori luogo, siano state intese da molte persone come qualcosa di assolutamente inutile.
Ma una parte di noi, quella parte di noi che vuole diritti, che lotta per averli, che sente tutta la violenza dei pregiudizi che questa società ha verso la nostra condizione, sa che la misura, ormai, è colma e che certi atteggiamenti, certe polemiche, nascono anche e soprattutto dall’esasperazione.
Ormai l’omosessualità è stata sdoganata, si dice.
Si ma in che modo? Grazie ai reality in tv in cui possono partecipare personaggi famosi che certo hanno meno da perdere a dichiararsi di un operaio o di un’operaia? O del ragazzino e della ragazzina che cresce in una famiglia o in una società che crede ancora che l’omosessualità sia una malattia? In che modo possiamo dire che, oggi, gli e le omosessuali sono persone libere se persino noi, che omosessuali lo siamo, in alcuni casi, ci stupiamo nel vedere due persone dello stesso sesso che si tengono per mano e temiamo per la loro incolumità?
Ma se ogni volta che ci si avvicina alle elezioni o si accende lo scontro fra destra e sinistra quelli a destra dicono: “Con la sinistra matrimoni ai gay” e a sinistra si tace o si alzano le mani a dire: “Mai! Siamo legati ai valori cattolici!”.
C’è uno scontro, in atto, uno scontro che ci è entrato dentro, di cui, probabilmente, neppure noi siamo pienamente consapevoli. Ma esiste. Esiste ed è più sottile di quel che pensiamo. Esiste ogni volta che in una scuola si fanno fare i lavoretti ai bambini e alle bambine per la festa della mamma e del papà senza prevedere alternative per quei bambini che il papà o la mamma non ce l’hanno. O quando si fa finta di non sapere che la società in cui viviamo è una società multietnica e quindi multiculturale e interreligiosa. O ancora quando si nega che la società discrimina le donne o quando si chiamano amici/amiche due persone che stanno insieme e che quindi sono compagni/e.
Con tutto questo e molto altro, con la violenza, con le discriminazioni, con i pregiudizi, noi ci dobbiamo confrontare quotidianamente. E non è una lotta che riguarda solo noi. È una lotta che riguarda tutt* coloro che vengono definiti “diversi”.
Infine vorrei dire una cosa.
Forse siamo davvero poco elastici. Lo dico da omosessuale piuttosto radicale. Forse non abbiamo l’intelligenza e l’elasticità per capire che la sessualità e l’affettività sono questioni estremamente più complesse di come le intendiamo noi, che forse non esiste solo: eterosessuale, omosessuale, bisessuale… che forse ci piace davvero troppo etichettare tutto e tutti.
Marino Buzzi
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